giovedì 26 settembre 2019

DALLA CANTINA: Hair of the Dog Adam #85 (2012)

Riparatore di bicilette, agente immobiliare alle Hawaii, soffiatore di vetro e importatore di bevande: questi i mestieri svolti dal californiano Alan Sprints, classe 1959, prima di arrivare a Portland (Oregon) per frequentare il Western Culinary Institute per poi entrare nel ramo della ristorazione. Era il 1988, anno in cui si tenne il primo Oregon Brewers Festival, quasi un primordiale esempio di festival di birrifici artigianali: a quel tempo a Portland ce n’erano una manciata, oggi l’area metropolitana ne ospita 84. E’ un evento che ad Alan cambia la vita e lo spinge ad interessarsi all’homebrewing, iscrivendosi all’Oregon Brew Crew, la più vecchia associazione di homebrewers di tutti gli Stati Uniti: ne ricoprirà la carica di presidente per tre anni. 
Sprints inizia a lavorare come cuoco, un lavoro che lo appassiona ma non lo soddisfa: “era difficile per me avere una famiglia e dover lavorare di notte, nei weekend e nei festivi”. Nel frattempo l’homebrewing è divenuto una faccenda sempre più seria ed i suoi amici sembrano gradire molto le sue produzioni: Sprints riesce a trovare un impiego come apprendista presso il birrificio Widmer ma anche lì ci sono dei turni notturni da rispettare. Con una buona dose d’incoscienza (“se a quel tempo avessi sottoposto il mio business plant a qualche analista non avrei probabilmente mai aperto”)  decide allora di mettersi in proprio e di aprire alla fine del 1993 la Hair of the Dog Brewing Company. “Non sono mai stato un bevitore di grosse quantità di birra. Mi sono subito orientato su quelle dall’elevato contenuto alcolico: con un paio ottenevo lo stesso effetto di sei birre leggere. Quando inaugurai il birrificio fu normale per me fare quel tipo di birre. La mia influenza principale è il Belgio, il mio primo viaggio nel 1991 cambiò completamente le mie concezioni sulla birra. Siccome volevo fare birre forti, che avrebbero creato hangover, quale nome migliore di Hair of the Dog  (espressione inglese che si riferisce ad una bevanda alcoolica che si consuma con lo scopo di ridurre gli effetti di una sbornia)?"
Adamo fu il primo uomo sulla terra e la Adambier (10%) fu la prima birra prodotta da Hair of the Dog: riesumazione di uno stile tedesco (quasi) estinto, una sorta di Doppelbock ad alta fermentazione, per semplificare al massimo. Nel 1992 Springs portò una prima versione di questa birra ad una conferenza di homebrewers: l’assaggiarono Fred Eckhardt e Michael Jackson: entrambi diedero giudizi molto positivi incoraggiandolo ad andare avanti.  Ma “la maggior parte delle prime persone che poi la ordinarono al brewpub non sapevano che cosa farci… fu molto frustrante. Ora per fortuna le cose sono cambiate”.  Fred Eckhardt (1926-2015)  homebrewer, birraio e scrittore fu il vero mentore di Springs: lo spronò e lo consigliò nell’elaborazione delle prime birre (poco) commerciali di Hair of The Dog: a lui fu dedicato il barley wine chiamato Fred. 

La birra.
Cercate una birra da mettere in cantina? Adam è un’ottima candidata, almeno così dicono gli esperti. Trovarla non è facile, soprattutto alle nostre latitudini, ma ogni tanto qualche bottiglia è stata avvistata. Il birrificio la produce alcune volte l’anno: sino al 2012 sul sito di Hair of The Dog era possibile risalire al giorno di nascita di ogni lotto. Oggi purtroppo la lista non è più aggiornata. 
Vediamo se Adam è davvero un birra da invecchiamento: per l’occasione stappiamo il lotto numero 85, anno 2012. Il suo colore un po’ torbido ricorda la tonaca dei frati (cappuccini, per i più pignoli): la schiuma è modesta ma cremosa, poco persistente. Prugna, uvetta, frutti di bosco, melassa, rabarbaro: le note ossidative sono sia positive (sherry, vino fortificato) che negative (cartone). Va meglio il mouthfeel: è impressionante trovare una birra di sette anni così morbida e dal corpo quasi pieno, che quasi non mostra segni di cedimento. La bevuta ripropone l’aroma fedelmente: dolci note vinose, di melassa e di frutta sotto spirito vengono bilanciate da un amaro finale d’intensità ancora sorprendente. China, radice e rabarbaro, su tutto. Più che ad un vino fortificato il risultato finale è quasi reminiscente di un liquore alle erbe: scalda senza bruciare, si sorseggia con buona soddisfazione, curiosità e qualche emozione: bevuta interessante ma non molto complessa, sicuramente inusuale. Vale i sette anni d’attesa? Questa bottiglia no. 
Formato 35.5 cl., alc. 10%, IBU 50, imbott. 29/03/2012, pagata 4,95 dollari (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 25 settembre 2019

Wicked Weed Barrel Aged French Toast Stout

L’origine del French Toast sembra essere piuttosto umile ma non certa:  pane raffermo (“pain perdu”, in francese) al quale veniva data nuova vita immergendolo in un liquido: acqua o latte, ad esempio. Nella lingua anglosassone il termine apparve per la prima volta in Irlanda nel 1660 nel libro The Accomplisht Cook: in questo caso l’aggettivo “french” non era però riferito alla provenienza geografica ma al verbo “to french” che significava “tagliare a fette”.  Alla metà del diciannovesimo secolo la grande carestia costrinse molti irlandesi ad emigrare negli Stati Uniti portandosi dietro usi e costumi: la frase “french toast” apparve per la prima volta nel 1871 nella Encyclopedia of American Food and Drink
Secondo altri il French Toast fu un’invenzione di Joseph French che in una taverna di Albany (New York), ebbe nel 1724 l’idea d’immergere del pane in una pastella di uova, latte e zucchero e friggere il tutto nel burro. La grammatica non era il suo forte e quindi dimenticò il genitivo sassone che gli avrebbe attributo la paternità del French’s Toast.  La ricetta si diffuse rapidamente su tutta la costa orientale; l’idea che si trattasse di un piatto proveniente dalla raffinata tradizione culinaria francese era oltretutto un’ottima scusa per far pagare ai clienti qualche dollaro in più. Vaniglia, cannella e sciroppo d’acero completano un piatto “americano”  il cui apporto calorico potrebbe probabilmente soddisfare il vostro fabbisogno di un’intera giornata. Magari del 28 di Novembre, giorno in cui si celebra il French Toast National Day.

La birra.
Del birrificio Wicked Weed di Asheville, Carolina del Nord, abbiamo già parlato in più di un’occasione. Lo hanno fondato nel 2012 Walt e Luke Dickinson per poi cederlo nella primavera del 2017 alla multinazionale AB-InBev. Nel 2014 alla taproom di Asheville era possibile assaggiare la versione liquida di un French Toast, ovvero una Stout (8.8%) prodotta con aggiunta di cannella, vaniglia e sciroppo d’acero. All’inizio del 2016 la Stout è poi stata per la prima volta messa anche in lattina e distribuita al di fuori delle porte del birrificio. A novembre, dopo qualche mese, è arrivata in bottiglia la versione invecchiata in botti ex-bourbon provenienti dal Kentucky; anche questa birra era stata precedentemente disponibile in anteprima esclusiva alla taproom (2015). 
Nel bicchiere è quasi nera, la schiuma è generosa e abbastanza compatta. L’aroma mantiene le promesse scritte in etichetta: domina lo sciroppo d’acero affiancato dal dolce della vaniglia, del caramello e della frutta sotto spirito. La cannella rimane fortunatamente nelle retrovie, il bourbon completa un naso intenso, caldo e avvolgente. Oggi quando in etichetta sono presenti determinati ingredienti c’è sempre il rischio di trovarsi di fronte ad una “pastry”: c’è chi le adora, chi le sopporta a fatica. Fortunatamente questa di Wicked Weed è ancora un birra e non un maldestro dessert in forma liquida: gli “adjuncts” non vanno oltre il limite ma il suo problema di fondo è l’essere eccessivamente dolce. Da una birra chiamata “French Toast“ non mi aspettavo certamente una valanga di caffè e di torrefatto, ma qui manca equilibrio. Il dolce di sciroppo d’acero, melassa, vaniglia, datteri e uvetta trova solo un parziale antagonista nel legno e nell’alcool del bourbon che tuttavia fanno quello che possono. Il risultato è gradevole per qualche sorso, ma alla lunga satura il palato e ci vuole più del previsto per finire la bottiglia: meglio se la condividete con qualcuno. E in assenza di amaro dovrete provvedere da soli: magari abbinateci qualche chicco di caffè ricoperto di cioccolato fondente.
Formato 37,5 cl., alc. 11.4%, imbott. 10/01/2018, prezzo indicativo 10-12 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 23 settembre 2019

De la Senne / Half Acre Dulle Wind

Alla Brasserie de la Senne (qui la storia) piace collaborare: quasi un terzo delle loro birre sono state infatti prodotte a quattro o più mani. Sul blog sono transitate Taras Luna (con il Birrificio Montegioco), Sineke (con la Brasserie de la  Pleine Lune) e  Birthday Session (Brasserie Thiriez), Racines (Birrificio Bruton) e Double Saison (Mont Salève), ma la lista è molto più lunga: tra i birrifici americani coinvolti ci sono stati Allgash (2011),  Liquid Riot (2013), Saint Somewhere (2016), Two Roads (2017), Cambridge, Crooked Stave e Jester King (2018). 
Sono 6.657 i chilometri che separano Brussels da Chicago, percorribili con un viaggio aereo di circa nove ore. Lo scorso maggio i birrai americani del birrificio Half Acre (qui la storia) si sono recati in Belgio per realizzare quella che è stata poi chiamata Dulle Wind. C’è un filo comune che lega i due birrifici; entrambi hanno iniziato il loro percorso come beerfirm: Half Ace nel 2006, De la Senne nel 2005. Dulle Wind è una Belgo-American IPA il cui nome si riferisce al soprannome di Chicago, “the windy city”, la città del vento. Un  vento pazzo, furioso (“dulle”, in fiammingo) che in etichetta s’abbatte con violenza sulla metropoli statunitense: tra gli edifici portati via si riconoscono il faro di Chicago e il grattacielo dell’John Hancock Center.

La birra.
Lo stile in cui i due birrifici hanno scelto di cimentarsi è abbastanza dibattuto: le Belgian-IPA non hanno mai veramente sfondato nel cuore degli appassionati. Difficile far coesistere il carattere del lievito belga con un’abbondante luppolatura all’americana: per quello che ho bevuto i risultati sono stati sempre abbastanza altalenanti. Preferirei invece parlare di Belgian Ale generosamente luppolate:  la Taras Boulba e la Zinnebir di De La Senne sono state due muse che hanno ispirato molti altri birrifici.  La differenza sostanziale? Risiede come spesso accade nella ricerca di equilibrio e di facilità di bevuta. 
La Dulle Wind si presenta tra il dorato e l’arancio, leggermente velata e con un generoso cappello di schiuma candida e pannosa, dall’ottima persistenza. I luppoli utilizzati non sono stati rivelati ma l’aroma forma un bouquet ancora fresco ed intenso: profumi floreali, ananas, frutta a pasta gialla, una delicata speziatura. Luppoli ed esteri fanno davvero un bell’incontro che continua anche al palato in maniera soddisfacente. Pane e crackers, frutta (tropicale, pesca, arancia), una lieve nota pepata ed un finale terroso/zesty disegnano una birra secca, intensa e pulita nella quale l’alcool (6.2%) è molto ben nascosto. Tutto bene, quindi? Quasi: le manca un po’ quella leggerezza e quella snellezza tipica delle birre di De La Senne: le bollicine sono vivace ma a livello tattile si nota un po’ di pesantezza e la birra scorre meno velocemente di quanto potrebbe. 
Il matrimonio Brussels-Chicago si è tuttavia celebrato con esito positivo: come tutte le collaborazioni non è una birra che entrerà nella storia ma che soddisfa quel mercato che richiede sempre qualcosa di nuovo da provare, e lo fa con onore.  Cosa berrei io se mi metteste davanti un bicchiere di Dulle Teve e di Taras Boulba? Risposta scontata.
Formato 33 cl., alc. 6.2%, imbott. 06/06/2019, scad. 06/03/2020, prezzo indicativo 4.50-5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 19 settembre 2019

North Coast Old Stock Ale 2013 vs 2018


Il birrificio North Coast è uno dei pionieri del movimento craft Americano: nasce nel 1988 come brewpub a Fort Bragg, Mendocino, a nord di San Francisco.  A fondarlo assieme ai soci Tom Allen e Joe Rosenthal fu Mark Ruedrich, ovviamente ex-homebrewer;  in 25 anni di vita il birrificio (con ristorante/grill annesso) ha preferito concentrarsi sul perfezionamento di un nucleo stabile di birre, piuttosto che sfornare continuamente di novità, collaborazioni e stravaganti esperimenti. Questo non gli ha impedito di crescere lentamente sino a diventare il 45esimo maggior produttore di birra negli Stati Uniti con circa 80.000 ettolitri all’anno; per fare ciò si è ovviamente resa necessaria la costruzione di un secondo sito produttivo, sempre a Fort Bragg, inaugurato nel 1994. Gran parte del merito va alla Red Seal, un’amber ale che per molti anni ha occupato il 40% della capacità produttiva di North Coast: ma al successo ha anche contribuito l’imperial stout Old Rasputin, una delle American Imperial Stout più classiche, una birra che qualsiasi appassionato dovrebbe aver bevuto almeno una volta nella vita. 
Lo scorso maggio il sessantaseienne Mark Ruedrich ha annunciato la propria decisione di andare in pensione promuovendo al Sam Kraynek (già direttore operativo dal 2013) e Sheila Martins, vice-presidente, in azienda dal 1995; Ruedrich resterà comunque nel consiglio d’amministrazione e continuerà a collaborare come consulente esterno.

La birra.
Chi è interessato alle birre da invecchiamento non dovrebbe farsi sfuggire la Old Stock Ale di North Coast; gli appassionati (io) e gli esperti la riconoscono quasi all’unanimità come una delle poche birra che valga davvero la pena di mettere in cantina e dimenticare per qualche anno. E’ una birra che ogni anno arriva anche in Europa ad un prezzo abbastanza buono: non dovete svenarvi per acquistarne qualche esemplare. North Coast la produce dall’anno 2000: la sua ispirazione è dichiaratamente inglese, a partire dalle materie prime: malto Maris Otter, luppoli Fuggles ed East Kent Golding. Il birrificio la descrive perfetta in abbinamento a formaggi: per le bottiglie più giovani utilizzate Parmigiano-Reggiano, Lincolnshire Poacher, Montgomery Cheddar o Keen’s Cheddar. Esemplari che hanno già anni di cantina alle spalle vanno a nozze con lo Stilton. La temperatura consigliata di conservazione in cantina è 10 gradi, ma è un dettaglio al quale personalmente non darei troppo peso: per la mia esperienza sono birre che tollerano senza problemi anche picchi estivi che raggiungono i venti. 
Mettiamo a confronto una bottiglia giovane (2018) con una che ha già passato sei anni in cantina. Il millesimo 2018 si presenta di color ambrato accesso da riflessi rossastri e ramati, anche se la foto non rende giustizia: la schiuma è compatta e piuttosto generosa, considerata la gradazione alcolica (12%) ma non molto persistente. Il naso è pulito, ricco, intenso e avvolgente: caramello, uvetta, prugna, datteri, frutti di bosco, ciliegia, miele. Il tutto avvolto da una calda nota etilica. Caratteristiche che ritroviamo anche al palato, dove la birra ha un corpo quasi pieno ma non è assolutamente ingombrante dal punto di vista tattile. La bevuta è dolce e ricca di frutta sotto spirito ma viene molto ben attenuata ed asciugata dall’alcool: i gradi dichiarati si sentono quasi tutti ma sorseggiare questa birra non crea nessuna difficoltà.  Un accenno terroso luppolato finale la bilancia alla perfezione: il risultato è di livello davvero notevole, intenso, pulito e preciso, emozionante. S’intravedono in lei quegli accenni liquorosi che m’aspetterei di trovare poi negli esemplari più maturi. Sarà così? Andiamo a vedere. 

La livrea della Old Stock Ale 2013 è ovviamente meno brillante ma il suo color ambrato è ugualmente infuocato di rosso rubino; la schiuma è di dimensioni più modeste. Al naso affiorano splendidi richiami di porto e di vini fortificati: ci sono anche uvetta, datteri, frutti di bosco, ciliegia, mela al forno, melassa, zucchero caramellato. Basta avvicinare le narici al bordo del bicchiere per sentire il conforto di un abbraccio. Il corpo è leggermente più esile rispetto alla 2018, e questo non è una sorpresa: non ci sono tuttavia cedimenti e la birra rimane morbida e avvolgente. Il gusto è tuttavia un po’ avaro di quelle belle sensazioni liquorose cerco in una Old Ale / Barley Wine invecchiata: soprattutto nel finale la frutta sotto spirito “s’asciuga” un po’ bruscamente lasciando l’alcool unico protagonista. C’è di nuovo un caldo abbraccio ma è un po’ meno emozionante di quello aromatico. 
Bottiglia 2018 vigorosa e potente, scalda senza bruciare:  2013 più morbida ma ancora in forma e senza grossi segni di cedimento. Anzi, mostra di poter reggere ancora diversi anni di cantina. Tra le due è la più giovane a sorprendermi maggiormente. Mi sembra invece d’aver colto la 2013 in mezzo ad un bivio: non ha più l’esuberanza della gioventù ma non ha ancora del tutto sviluppato quelle caratteristiche tipiche dell’invecchiamento. 
Stiamo parlando di dettagli: entrambe sono comunque bevute che emozionano: suadenti, calde, ammalianti. Passare con loro un’intera serata è davvero un piacere. Volete provare ad invecchiare delle birre? Questa è una candidata ideale.

Nel dettaglio:
North Coast Old Stock Ale 2018, 35.5 cl., alc. 12%, IBU 34,  pagata 5,00 Euro (beershop)
North Coast Old Stock Ale 2013, 35.5 cl., alc. 11.9%, IBU 34, pagata 3.99 dollari (beershop USA)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 17 settembre 2019

Hofbräu Münchner Sommerzwickl (naturtrüb)

Hofbräu München, probabilmente il birrificio più amato dagli italiani (e non) che si recano in vacanza a Monaco di Baviera. Ma l'origine del birrificio è tutt'altro che turistica; come la corona che compare nel logo può far intuire, la HB ha uno stretto legame con la famiglia reale. Nel 1589 fu infatti il duca Wilhelm V a fondarla per soddisfare i fabbisogni della corte reale, stanca di spendere soldi far arrivare la birra dai mastri birrai di Hannover. Nel 1610 avviene la prima vendita al di fuori della cerchia reale, iniziando nel corso dei secoli una curiosa trasformazione da "birra dei reali" a "birra del popolo".  Alla metà del diciannovesimo secolo, infatti, quando l'inflazione stava pericolosamente trasformando la bevanda nazionale tedesca in una specie di lusso che sempre meno persone potevano permettersi, un decreto reale stabilì che i prezzi dei prodotti della Hofbräu sarebbero rimasti invariati, rendendo il popolo bavarese molto più contento dei cugini prussiani a nord.  Nel 1939 la HB viene statalizzata e la produzione spostata nei sobborghi della capitale bavarese, a Riem. A Monaco è invece rimasto il luogo simbolico per eccellenza, ovvero l'edificio situato in Am Platzl 9, a cinque minuti di distanza da Marienplatz. 
Risorta alla fine degli anni ’50 dalle macerie della seconda guerra mondiale, la HB di Am Platzl è una birreria che oggi viene visitata ogni anno da oltre un milione di turisti provenienti da tutto il mondo: oltre a qualche Stammtisch (i tavoli riservati ai locali frequentatori abituali), la bierhall ha duemila posti a sedere ai quali vanno aggiunti i quasi settecento del Biergarten estivo. Enorme, impersonale e, soprattutto nei weekend, perennemente affollato e rumorosissimo: a volte quasi non si riesce a sentire l’orchestrina intonare il coro "Oans, Zwoa, G'suffa”.  
La Hofbräuhaus produce oggi quasi quattro milioni di litri di birra all’anno ed ha inaugurato succursali (franchsing) in tutto il mondo: la prima al di fuori della Germania fu quella di Genova, ancora oggi operativa, seguita da Australia (1968), Stati Uniti, Cina, Russia e Brasile (2015). L’ultimo arrivato in ordine di tempo dovrebbe essere la gasthouse aperta all’interno del Marriott Hotel a Dubai. E Hofbräuhaus è ovviamente uno dei sei birrifici di Monaco che hanno diritto di partecipare all’Oktoberfest, in una delle 14 grandi Festhalle: i suoi compagni d’avventura sono l’indipendente Augustiner, Löwenbräu e  Spaten-Franziskaner (entrambe di proprietà AB-InBev ), Hacker-Pschorr e Paulaner (possedute da Brau Holding International, joint venture che unisce Schörghuber e Heineken). Se proprio decidete di andare all’Oktoberfest, scegliete bene a chi dare i vostri soldi.

La birra.
Sommerzwickl, “il gusto dell’estate”: così la Hofbräuhaus descrive la sua birra estiva che troverete a Monaco da maggio a luglio. Malto chiaro, Monaco, luppoli Herkules, Perle, Magnum e Select: è “naturtrüb” e quindi non filtrata (o microfiltrata?) ma non aspettatevi di trovare nel bicchiere una rustica Zwickl o Kellerbier. Potete comunque apprezzare il suo bel color oro e la sua candida schiuma compatta dalla lunghissima persistenza. Aroma e gusto parlano la stessa lingua: pane, cereali, miele, camomilla, qualche leggera nota erbacea. Al palato è leggermente più ingombrante di una classica Helles bavarese ma stiamo sempre parlando di una birra da bere come fosse acqua. Discretamente secca, rinfresca e disseta e chiude con un amaro delicatissimo, appena percepibile, che svolge esclusivamente funzione di equilibrio. Emozioni? In lei non le cercavo ed infatti non le ho trovate: mi sembra tuttavia molto meglio come intensità di molti altri anonimi prodotti HB, Hofbräu Original in primis. Per poco più di due euro al litro direi che non ci si può lamentare.
Formato 50 cl., alc. 5,1%, IBU 24, scad. 15/05/2020, prezzo indicativo 1,29 euro (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 16 settembre 2019

Central Waters Rye Barrel Chocolate Porter

Central Waters Brewing Company non è un nome nuovo ai lettori del blog: lo trovate qui.   Il birrificio nasce nel 1997 a Junction City, duecento chilometri a nord ovest di Milwaukee, Wisconsin: lo fondano gli amici Mike McElwain e Jerome Ebel  adattando un vecchio impianto di un caseificio in uno stabile che nel 1920 ospitava un concessionario della mitica Ford Model A.  I soldi a disposizione erano pochi e il fai-da-te era la parola d’ordine: l’impianto fu assemblato dai soci fondatori, inclusi collegamenti idraulici ed elettrici, e le birre venivano auto-distribuite nel Wisconsin.  Paul Graham era  a quel tempo ancora un homebrewer e venne inizialmente chiamato a dare una mano part-time in birrificio, ma dopo sei mesi era già lui a gestire tutta la fase produttiva.  Per crescere c’era però bisogno di finanziamenti: ottenuto credito dalle banche, nel 2003  Paul Graham e il socio Anello Mollica rilevano il birrificio dai due fondatori. 
Nel 2007 avviene il trasloco nella location attuale di Amherst dove viene messo in funzione un nuovo impianto dalla capacità di 17 ettolitri barili che nel 2016 è stato sostituito con uno da 60; attualmente la produzione è di circa 18.000 ettolitri l’anno.   Il mutuo viene ripagato grazie alle vendite delle birre “quotidiane” (la più venduta è la Mudpuppy Porter), ma la novità principale introdotta da Graham è l’inizio degli invecchiamenti in botte; oggi le birre barricate racchiuse nella gamma “Brewer’s Reserve” hanno raggiunto il 35% della produzione e aumentato i margini di profitto. “Era il 2001, io e Paul stavamo bevendo alcune birre alla taproom di un altro birrificio  - ricorda Anellodove aggiungevano un goccio di Jack Daniels nelle loro stout: pensammo subito di poter fare anche noi qualcosa del genere ma senza mettere direttamente il bourbon nella birra". Central Waters è attualmente uno dei birrifici americani (dopo Goose Island, New Holland, Firestone Walker e Founders) che possiede il maggior numero di botti usate; nel 2010 il magazzino ne ospitava circa 1000, numero salito ad oltre 5000 dopo l’espansione del 2014: “dietro ad ogni nostra nuova birra invecchiata in botte c’è un lavoro di almeno due anni;  in alcuni casi ci vogliono anche cinque anni prima che la birra sia pronta per avere un’etichetta ed essere distribuita sugli scaffali”. 
Le botti hanno anche contribuito a creare un po’ di “hype” attorno al nome Central Waters, cosa che negli Stati Uniti non deve mai mancare. Ogni anno, alla fine di gennaio, centinaia di persone sfidano il freddo del Wisconsin  per accaparrarsi qualche bottiglia della birra con la quale il birrificio festeggia il proprio compleanno, solitamente una imperial stout invecchiata in botti ex bourbon. Nel 2016 è andata esaurita in poche ore la Ardea Insignis, una imperial stout invecchiata per tre anni in botti che avevano ospitato per 25 anni bourbon: la potete ancora trovare sul mercato secondario alla modica cifra di 300 dollari.  I duemila biglietti per accedere alla festa del ventunesimo compleanno di Central Waters che si è tenuta alla fine dello scorso gennaio sono stati venduti online nel giro di qualche minuto. Per 15 dollari vi veniva garantito l’accesso al birrificio, la possibilità di acquistare sino a sei bottiglie della birra-anniversario e vi venivano offerte due birre alla taproom.

La birra.
Rye Barrel Chocolate Porter, è tutto incluso nel nome: imperial porter prodotta con fave di cacao (e avena) e invecchiata in botti che avevano in precedenza contenuto whiskey di segale. Il contenuto alcolico varia a seconda dei lotti di produzione: non è indicato in etichetta ma questa edizione 2019, arrivata a gennaio, dovrebbe toccare quota 12.69%. 
Il suo colore è ebano scuro, la schiuma abbastanza generosa e compatta ma non molto persistente. Legno, bourbon, frutta sotto spirito: l’aroma è dominato da questi tre elementi che rilegano molto in sottofondo il cacao e il torrefatto della porter. C’è anche qualche delicato accenno alla vaniglia. Appartenete a coloro che pensano ci sia differenza tra Porter e Stout?  Poco importa: l’esperienza americana mi ha insegnato che generalmente per i birrai americani una Imperial Porter ha un corpo più leggero  (ed un carattere molto meno torrefatto) rispetto ad una Stout. L’interpretazione di Central Waters non fa eccezione. Le poche bollicine e l’avena rendono questa Rye Barrel Chocolate Porter morbida al palato ma in una birra scura che supera il 12% gradirei trovare un po’ di corpo in più. Il passaggio in botte caratterizza anche il gusto, rilegando nuovamente in secondo piano la porter: è comunque un “barrel-aged” pulito e piuttosto elegante che, pur non raggiungendo particolari vette espressive, regala una bella bevuta. Bourbon e frutta sotto spirito, legno, torrefatto e qualche accenno di cioccolato nel finale: l’alcool scalda ogni momento, ma non brucia.   C’è tutto quello di cui avete bisogno per passare una bella serata, sorseggiandola con calma e con un buon rapporto qualità prezzo.
Formato 35,5 cl., alc. 12,65%, lotto 2019, prezzo indicativo 7.00-8.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 13 settembre 2019

Lindemans Oude Gueuze Cuvée René Special Blend 2010

Risale al 1822 la fondazione del birrificio Lindemans: in quell’anno Joos Frans Lindemans sposa Françoise Josine Vandersmissen, figlia di un agricoltore, ed entra in possesso della fattoria chiamata Hof ter Kwade Wegen nei pressi di Vlezenbeek, venti chilometri a sud-ovest di Brussels. Notizie storiche riportano una produzione annuale di circa 500 ettolitri destinata per la maggior parte al consumo interno: come in tutte le fattorie a quel tempo la birrificazione avveniva nei mesi invernali quando c’era meno lavoro da fare sui settacinque ettari di terreno di proprietà.  A Joos Frans succede nel 1865 Joos Frans “Duc”  Lindemans e, nel 1901, Theofiel Martin Lindemans: sotto la sua guida l’azienda riduce progressivamente le attività agricole per concentrarsi maggiormente sulla produzione di lambic e faro che viene venduto a cafè ed a blenders. Nel 1930 il timone passa nelle mani del figlio Emiel Jozef al quale spetta il compito di affrontare le tragedie della seconda guerra mondiale: in quel periodo il birrificio riesce comunque ad effettuare una cotta al mese. 
Con la sua morte, avvenuta nel 1956, cessano anche le attività agricole e, sotto la guida di René e Nestor, negli anni ’70 Lindemans inizia ad operare come distributore di bevande all’ingrosso. La popolarità di lambic e geuze è tutt’altro che in crescita  e si cerca di rimediare al calo della domanda interna iniziando ad esportare:  per conquistare il mercato il birrificio inizia ad addolcire i propri prodotti  per andare incontro alle richieste dei consumatori. Emblematico è il caso della Lindemans Kriek, per la quale le ciliegie grotte di Schaerbeek vengono sostituite da un succo di ciliegia addolcito con un edulcorante artificiale, filtrato e pastorizzato. I nuovi lambic alla frutta riscuotono tuttavia grande successo facendo crescere l’export che arriva ad assorbire il 70% della produzione grazie alle richieste dei mercati statunitense, francese, tedesco e svizzero.  Nel 1992 terminano i lavori di costruzione del nuovo birrificio che dispone di circa 1200 barili della capacità di 600 litri nei quali far fermentare e maturare il lambic. 
Per convincere Lindemans a far qualche passo indietro c’è voluto l’intervento dell’importatore americano Merchant du Vin: è lui a convincere René Lindemans del potenziale mercato di gueuze e lambic alla frutta tradizionali e a far produrre nel 1994 il primo lotto della Gueuze Cuvée René.  Dal 2006 Lindemans è gestita dai cugini Dirk e Geert che nel 2013 hanno avviato un nuovo e ambizioso programma di espansione da 15 milioni di euro. 
Lindemans fa parte di H.O.R.A.L. (Alto Consiglio del Lambic Artigianale) che ha come scopo di salvaguardare la tradizione e l’autenticità del prodotto. Peccato che il lambic “autentico” sia solamente una piccola parte della produzione Lindemans: quello che viene etichettato come Gueuze è in realtà una versione pastorizzata, addolcita con la Stevia e fermentata in acciaio con i chips di legno in sostituzione delle botti.  Consiglio per i meno esperti? Lasciate perdere tutta quella produzione Lindemans che non abbia in etichetta la parola “Cuvée René”: sono solo queste le bottiglie che dovreste bere.

La birra.
Nell’aprile del 2015 Lindemans ha terminato il suo piano d’espansione inaugurando un nuovo magazzino di stoccaggio capace di contenere circa 170,000 ettolitri. I festeggiamenti sono culminati con la presentazione della Cuvée René Special Blend 2010, versione speciale della Oude Geuze Cuvée René assemblata con diversi lambic prodotti nel 2010 e imbottigliata nel 2014. Ne sono state prodotte 15.000 bottiglie da 75 centilitri. 
Bella etichetta serigrafata, disegnata da Charles Finkel,  bicchiere leggermente velato e colorato di oro antico: la schiuma biancastra è generosa e compatta ma alquanto spumeggiante e quindi rapida a scomparire. Gentilmente funky/rustico, questo Cuvée René Special Blend affianca al legno e alla cantina/sudore profumi più accessibili di limone e lime, mela verde, accenni di frutta a pasta gialla. Chiudete gli occhi e le parole “la gueuze è lo champagne del Belgio” vi si riveleranno nel pieno del loro significato.  Vibrante, vivace, spumeggiante (mi ripeto): a cinque anni dalla messa in bottiglia René sembra ancora un giovincello per il palato. La bevuta non raggiunge particolari vette espressive ma è di tutto rispetto: frutta a pasta gialla, ananas, accenni di frutta candita contrastano l’asprezza degli agrumi, mentre nel finale si è trasportati in cantina in compagnia di legno, vino, polvere. Un lievissimo tocco acetico non disturba una bevuta educata, quasi morbida e per questo accessibile anche a chi non ama le gueuze più dure e ruspanti. 
Il lambic aumenta di prezzo anno dopo anno? Diventa sempre più difficile reperire Cantillon e 3 Fonteinen? Questa bottiglia ma soprattutto la Cuvée René “normale” rappresentano un’alternativa dal rapporto prezzo assolutamente favorevole,
Formato 75 cl., alc. 6%, imbott. 06/2014, scad. 12/2024, pagata 9.45 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 11 settembre 2019

Boulevard Dark Truth

Del birrificio americano Boulevard vi avevo già parlato in più di un’occasione.  Homebrewer molto precoce, John McDonald aveva iniziato i primi esperimenti a dodici anni per poi vendere illegalmente la birra ai coetanei al drive-in. La gioventù la passò invece in modo più “tranquillo” studiando arte al college del Kansas e iniziando poi a lavorare come carpentiere; lui e la moglie Anne vinsero un viaggio in Europa che John utilizzò per espandere la propria conoscenza brassicola; l’epifania, secondo le sue stesse parole, avvenne in un bar a Parigi bevendo una Belgian Ale. Ritornò negli Stati Uniti determinato ad aprire un birrificio ma almeno una ventina di banche gli chiusero la porta in faccia, considerandolo un pazzo che voleva mettersi in competizione con Anheuser-Busch, da sempre dominatrice nel Missouri. A quel tempo la Craft Beer era ancora un oggetto sconosciuto per la maggior parte degli americani.  Centomila dollari gli furono prestati dal padre ed altrettanti arrivarono dalla vendita di una casa che John aveva acquistato dieci anni prima per 7.000 dollari e poi completamente ristrutturata.  
Nel novembre del 1989 debuttò Boulevard Brewing Company con un impianto usato proveniente dalla Baviera; McDonald consegnò personalmente con il proprio pick-up un fusto di Unfiltered Wheat Beer alla Twin City Tavern di Kansas City. I primi tre clienti ai quali viene offerta non furono entusiasti di quel liquido torbido dalla generosa schiuma bianca: “uno di loro si rifiutò di assaggiarla– racconta McDonald – e gli altri due, dopo averne bevuto un sorso, allontanarono il bicchiere e uno di loro mi disse che era la peggior birra che avesse mai bevuto”.  La storia è poi continuata in maniera diversa e dai 6.000 barili che rappresentavano il primo Business Plan di Boulevard si è arrivati a  125 dipendenti, una capacità annua di 600.000 barili, e circa 190.000 prodotti (2014).  Boulevard è oggi il secondo maggior produttore del Missouri, dopo AB-InBev, e il più grande birrificio “craft” di tutto il mid-west americano. I risultati vengono ottenuti attraverso le espansioni del 1999, 2003 e soprattutto quella da venti milioni di dollari progettata nel 2005-2006;  ma il cambiamento più rilevante nella storia di Boulevard è indubbiamente quello annunciato il  17 ottobre 2013, quando McDonald  cedette la proprietà ai belgi della Duvel-Moortgat per una cifra che non è mai stata resa pubblica ma che si stima essere superiore ai cento milioni di dollari.  
ll timone passò quindi nelle mani di Simon Thorpe , CEO della Duvel Moortgat, mentre  McDonald mantiene ancora un ruolo direttivo e soprattutto di “ambasciatore” del marchio in tutto il mondo.  Dal 1999 Head Brewer di Boulevard è il belga Steven Pauwels; dopo alcuni lavoretti estivi nel birrificio della propria città, Steven ha lavorato al Domus Brewpub di Lovanio ed alla Riva di Dentergem (oggi di proprietà Duvel) prima di rispondere ad un annuncio di lavoro e volare negli Stati Uniti. Gli investimenti della Duvel Moortgat hanno finanziato il nuovo piano d’espansione del 2017 da dieci milioni di dollari che arriva però proprio nel momento in cui gli storici birrifici craft americani di grosse dimensioni stanno tutti più o meno soffrendo. L’anno si è infatti chiuso con una produzione totale di circa 211.000 ettolitri: nel 2016 Boulevard aveva raggiunto quota 260.000.  Per invertire la tendenza Jeff Krum, presidente del ramo americano della Duvel, annuncia nuove strategie: partnership commerciali con Whit Merrifield, seconda base della squadra  di baseball Kansas City Royals (Major League) e con la 20th Century Fox che inserirà la Camper Cosmic IPA  nel prossimo film della saga X-Men. Quest’anno è finalmente stata attivata anche la linea per la produzione delle lattine, le cui vendite hanno raggiunto il 20% del fatturato. Sino ad ora Boulevard si appoggiava ai compagni di casa Duvel di Firestone Walker.  
A soffrire è soprattutto la flagship beer della casa, quella Unfiltered Wheat che nel 2010 tempo occupava il 65% della produzione: oggi è scesa al 34%. Per recuperare Boulevard intende concentrarsi sulle birre che consentono una maggior redditività, anche se con volumi minori. Parliamo quindi di birre invecchiate in botte e birre acide, ma non solo. “Dobbiamo essere visibile ai giovani consumatori. Dobbiamo essere cool, dobbiamo essere nuovi. Dobbiamo produrre quelle birre che loro cercano. Essere innovativi non è semplice; ci sono già in giro così tanti piccoli birrifici che creano cose nuove. Qualche anno fa ricorda Krum –  eravamo il maggior produttore americano di birra in formato 75 centilitri; ora non siamo più così orgogliosi di quel record”. Anche se Boulevard non ha completamente abbandonato quel formato, la maggior parte delle loro birre viene ora offerta nei più pratici 6 pack da 35.5 cl., inclusa la Smokestack Series, composta da birre stagionali, sperimentali e occasionali.

La birra.
La stout Dark Truth è proprio una di quelle birre che ha debuttato come produzione occasionale nella Smokestack Series: era luglio del 2010 e da allora veniva prodotta almeno una volta all’anno. Il suo futuro è però in pericolo: nel 2016 il birraio Pauwels ammetteva  che “Dark Truth è una imperial stout basica, che potremmo definire ‘entry level’: ha quel carattere fruttato del lievito belga, è più rotonda e meno amara. La gente non la compra: le birre entry level sembrano non avere successo. Abbiamo così tante idee nuove e alla fine siamo costretti a mandare in pensione qualcuna delle vecchie”.   Nel 2017 è stato forse prodotto l’ultimo lotto di Dark Truth, rinominata “imperial stout”: precedentemente in etichetta vi era soltanto “stout”. Non so se sia ancora prodotta: della Smokestack Series fanno attualmente parte altre imperial stout invecchiate in botte. 
Zucchero candito, malti Pale, Amber 50, Cara 120, Cara 300, Chocolate, Roasted, Chocolate Rye, Malted Rye, Malted Wheat, Honey Naked Oats, avena in fiocchi, luppoli Magnum, Citra, Zeus e Perle: questi dovrebbero essere gli ingredienti. Quasi nera, schiuma cremosa e abbastanza compatta, buona persistenza: un bel biglietto da visita al quale fa seguito un naso ricco e quasi goloso. Fruit cake, melassa, prugna disidratata, tostature, frutta sotto spirito, accenni vinosi e di caffè. L’ispirazione belga è evidente soprattutto al palato: bollicine un po’ troppo vivaci, nessuna coccola cremosa per il palato. E’ forse questo l’unico appunto che mi sento di farle, ma anche se scorre bene non è affatto una imperial stout sfuggente. Il gusto segue l’aroma per quel che riguarda ricchezza e pulizia: fruit cake, caramello, melassa, frutta sotto spirito. L’amaro del torrefatto e dei luppoli arriva un po’ in ritardo ma riesce comunque a bilanciare una birra che, nel suo DNA belga, non nasconde qualche influenza americana.  Peccato che Boulevard abbia intenzione di mandarla in pensione: questa Dark Truth è una signora imperial stout molto precisa, ricca, bilanciata: birra “entry level”? Per me è solo un’altra delle vittime illustri della moda. Si sorseggia senza difficoltà e con grande piacere:  alcool (9.7%) presente ma non invadente per un lungo abbraccio finale di frutta sotto spirito.  Due anni in bottiglia e ancora in splendida forma.
Formato 35.5 cl., alc. 9.7%, IBU 60, imbott. 09/11/2017, scad. 09/11/2019, Prezzo indicativo 7.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 9 settembre 2019

MC77 Billycock

Rieccoci a parlare di MC77, birrificio marchigiano guidato da Cecilia Scisciani e Matteo Pomposini: nato come beerfirm nel 2012, divenuto birrificio dopo pochi mesi e vincitore alla categoria “emergenti” all’edizione 2015 di Birra dell’Anno. Dopo le difficoltà causate dal terremoto che ha colpito l’Italia centrale nel 2016 la produzione è ripartita nei primi mesi del 2017 nella nuova sede di Caccamo di Serrapetrona (MC). Da allora il percorso di crescita è ripreso senza più fermarsi e ai riconoscimenti per le birre “classiche” sono arrivati anche quelli nelle categorie più alla moda, ovvero quelle luppolate e torbide altresì note come New England IPA (NEIPA). Oggi MC77 è uno dei produttori italiani che secondo me meglio interpreta questo sottostile: con intelligenza e moderazione, senza estremismi, senza esagerare per stupire ad ogni costo. La prima cosa che colpisce delle NEIPA è  il loro aspetto esteriore, l’abbigliamento: opalescenti, questi torbide, simili ad un succo di frutta. Ed è forse proprio per questo motivo che MC77 ha scelto nomi che rimandano al vestiario: Il vestito di velluto (Velvet Suit), il cravattino (BowTie) e ora la bombetta. E’ questo il nome scelto per l’ultima Double NEIPA di casa MC77 che se non erro ha debuttato lo scorso aprile. 
La bombetta nacque nella secondo metà del diciannovesimo secolo in Inghilterra: fu Edward Coke, soldato e politico inglese, a chiedere alla ditta Lock & Co. Di St. James di realizzare un cappello basso e rigido da utilizzare durante le battute di caccia a cavallo al posto dell’ingombrante cilindro che spesso colpiva i rami più bassi degli alberi. Si narra che Edward Coke calpestò la bombetta un paio di volte per testarne la robustezza, prima di decidersi all’acquisto. Il cappello (Billy Coke, o Billycock) deve quindi il suo nome al signor Coke; qualche anno dopo fu il cappellaio Thomas William Bowler a produrlo su ampia scala ed il cappello prese il nome di “bowler”. All’inizio del ventesimo secolo il cilindro era ancora il cappello elegante per eccellenza ma la bombetta si era  diffusa rapidamente dapprima tra la Working Class e successivamente tra i lavoratori del settore finanziario, i cosiddetti City Gents. Impossibile non ricordare Sir Winston Churchill, icona in bombetta del ventesimo secolo.  E che dire di Charlie Chaplin, Stanlio e Ollio o alcuni dipinti che René Magritte ha dedicato a questo copricapo? Ricordate il banchiere del film Mary Poppins? I drughi di Arancia Meccanica?  E la bombetta tagliente lanciata da Oddjob nel film 007 Goldfinger?

La birra.
E’ nata ad aprile ma la sua ricetta è sottoposta a leggeri aggiustamenti ad ogni lotto, soprattutto per quel che riguarda la luppolatura: quello più recente dovrebbe ospitare Galaxy, Citra, Mosaic e Simcoe. Il lievito è London Ale 3, la gradazione alcolica ha subito un leggero ritocco da 7.8 a 8%. 
Il suo aspetto è opalescente quanto basta e non si ha l’impressione di avere un torbido succo di frutta nel bicchiere. L’aroma è fresco e fruttato ma non sfacciato: mango, papaia ed altre sensazioni tropicaleggianti sono affiancate da profumi di agrumi e, ancora più in sottofondo, di cipolla. La sensazione palatale è un buon compromesso tra le corpose velleità dello stile NEIPA e la necessità di mantenere comunque una buona scorrevolezza. Frutta tropicale, albicocca e pesca dominano anche al palato ma si ha sempre e comunque la sensazione di bere una birra: ci sono davvero pochi spigoli, l’amaro finale resinoso è intenso quanto basta a bilanciare dolce e non reclama nessun ruolo da protagonista. L’alcool è abbastanza ben gestito, anche se ci percepisce da subito che nel bicchiere c’è una birra dalla robusta gradazione alcolica: su questo aspetto si poteva forse fare di meglio. In apertura ho fatto riferimento a interpretazioni “educate” dello stile New England da parte di MC77, e anche questa Billycock non fa eccezione: pulita, intensa, ben fatta. Si beve davvero con grande piacere.
Formato 33 cl., alc. 8%, lotto 61, imbott. 04/08/2019, scad. 04/12/2019, prezzo indicativo 5.00-6.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 6 settembre 2019

Guinness Draught

Credo di non sbagliare nell’affermare che non esiste marchio di birra al mondo che abbia un legame più forte con la città e con la nazione dove è nato e viene prodotto: Guinness, Dublino, Irlanda. Era il 1759 quando Arthur Guinness lasciò al fratello il proprio birrificio a Leixlip per trasferirsi a Dublino e rilevare l’allora abbandonata St. James's Gate Brewery stipulando un contratto di locazione della durata di novemila anni al prezzo di 45 sterline all’anno: per espandersi l’azienda acquistò poi definitivamente il terreno ponendo così fine all’inusuale contratto d’affitto. 
Arthur Guinness II prese il comando alla morte del padre, avvenuta nel 1803, creando assieme ai fratelli Benjamin e  William Lunell la società “A. B. & W.L. Guinness & Co, brewers and flour miller”; nel 1886 la Guinness divenne una società per azioni e nel 1914 era il maggior produttore di birra nel Regno Unito: 3 milioni di ettolitri all’anno, più del doppio del suo più agguerrito concorrente, la Bass, con una quote di mercato superiore al 10%.. Nel 1986 Guinness acquistò gli scozzesi della Distillers Company, proprietari di marchi come Johnnie Walker, Buchanan's e Dewar's: un’operazione burrascosa condotta con mezzi fraudolenti che fecero salire artificialmente il valore delle azioni Guinness al fine di assicurarsi il controllo del gruppo Distillers.  Nel 1997 Guinness e Grand Metropolitan (distillerie, tabacco, hotel e catering) si accorparono per formare il grande gruppo multinazionale Diageo: birra (Harp Lager, Smithwick's, Kilkenny, Guinness) e distillati (qui un elenco abbastanza esaustivo)  e alimentari riuniti sotto un unico ombrello che, nel 2006, aveva una capitalizzazione di circa 40 miliardi di euro. 
Oggi si stima che vengano bevuti ogni giorno dieci milioni di bicchieri di Guinness nel mondo prodotti da cinque birrifici di proprietà (Irlanda, Malesia, Nigeria, Ghana e Camerun). Nonostante il 40% della produzione sia (sorprendentemente) bevuta in Africa è a Dublino dove ancora batte il cuore Guinness: la Guinness Storehouse è ancora l’attrazione più popolare di Dublino, con più di 1.700.000 visitatori all’anno. 
Per tutto il mondo la Guinness è la birra dell’Irlanda, che vi piaccia o no. Gli impianti produttivi non sono visitabili ma avrete comunque a che fare con il mondo Guinness in tutte le sue forme: dalle materie prime (virtuali) al processo produttivo (virtuale) sino agli indimenticabili annunci pubblicitari realizzati da John Gilroy tra il 1930 e il 1940: slogan, tucani, struzzi e pesci hanno contribuito in maniera determinante al successo mondiale del marchio. Al Gravity Bar dell’ultimo piano potete infine concedervi una pinta di Guinness ammirando dall’alto il modesto skyline di Dublino.  
Sembra strano, ma Guinness per Dublino non è solo birra: tra le altre cose la famiglia più ricca d’Irlanda finanziò nel 1860 il completo restauro della cattedrale di San Patrizio, che a quel tempo si trovava in condizioni disastrose e si temeva potesse crollare da un giorno all’altro. I giardini pubblici di St. Stephen’s Green, nel cuore di Dublino, erano divenuti proprietà privata nel 1663 ed erano quindi inaccessibili; nel 1877 Arthur Edward Guinness li acquistò per poi restituire in regalo alla città il suo parco. 

La birra.
Fu lanciata “solamente” negli anni ’60, ma la Draught è divenuta rapidamente la più popolare variante di Guinness al mondo.  Malto Pale Ale, 25-30% di orzo in fiocchi, 10% circa di malto tostato, sette varietà di luppolo: la troverete anche nelle versioni Cold o Extra Cold, che vi consiglierei ovviamente di evitare. La sua gradazione alcolica varia dal 4.1% al 4.3% a seconda del luogo in cui viene prodotta. 
Il suo fascino è tutto nel carboazoto e in quella pallina di plastica (widget) che si trova all’interno di ogni lattina: versandola con vigore nella pinta avrete alla vista una riproduzione perfetta di quello che avviene in un pub. Il bicchiere si colora quasi di bianco mentre una cascata “al contrario” di bollicine si solleva verso l’alto per formare una perfetta testa di schiuma, cremosissima e indissolubile, dalla precisione geometrica, quasi insopportabile. Dalla vetta si può solamente scendere e l’aroma della Guinness Draft non è dei più accattivanti: le tostature sono poco eleganti, qualche accenno di caffè e cioccolato non bastano a far dimenticare quelle lievi sensazioni di metallo e gomma bruciata. E al palato lo schema si ripropone: il sontuoso mouthfeel, cremoso e vellutato, riesce a far dimenticare qualche passaggio sfuggente che in una birra dal modesto contenuto alcolico (4.2%) si può anche tollerare. Caramello, tostature, caffè-quasi-caffelatte: finale amaro, nel quale le tostature sono affiancate dal terroso dei luppoli.  
La Guinness è un prodotto industriale e come tale va considerato: non cercate in lei brividi, intensità, emozioni. E’ tuttavia una buona introduzione al mondo delle stout. Io stesso ricordo ancora lo stupore davanti alla mia prima pinta di Guinness: facevo davvero fatica a comprendere quella bevanda quasi calda che sapeva di caffè, per me la birra era solo bionda o al massimo “rossa”. Non bisogna mai dimenticare quello che eravamo. 
In conclusione la Draught mi sembra ricalcare esattamente la Guinness Storehouse di Dublino, una visita virtuale ad un birrificio del quale non vi vengono mostrati gli impianti, neppure da un oblò di vetro. Tanta apparenza alla quale non corrisponde altrettanta sostanza. Volete bere una stout spendendo poco? Per questo la Guinness è  quasi perfetta.  Le lattine da mezzo litro si trovano di tanto in tanto in qualche discount a poco più di un euro: un rapporto qualità prezzo soddisfacente, devo ammetterlo. Volete bere una buona stout? Ci sono centinaia di alternative artigianali, ma preparatevi a spendere quasi cinque volte di più: a voi la scelta.
Formato 50 cl., alc, 4.2%, lotto 90346GH055, scad. 04/12/2019, prezzo indicativo 1,25 Euro (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 5 settembre 2019

Jester King Mad Meg Farmhouse Provision Ale

Birrificio, cucina, fattoria e sala per eventi: così si presenta al pubblico Jester King Craft Brewery, inaugurato nell’autunno del 2010 sulle colline di Austin, Texas, dai fratelli Jeffrey e Michael Stuffings. Li avevamo incontrati per la prima volta qui e oggi Jester King è tra i nomi più apprezzati dagli appassionati di birra artigianale in tutto il mondo. Fermentazioni spontanee e miste, utilizzo di acqua piovana e proveniente dal pozzo sottostante il birrificio, vasche di fermentazione aperte, utilizzo di prodotti raccolti direttamente nei ventitré ettari di terreno che circondano il birrificio: la filosofia produttiva di Jester è stata chiara sin dall’inizio, a partire dalla prima birra prodotta che fu chiamata Commercial Suicide: facciamo quello che piace bere a noi.  Il “suicidio commerciale” (una Farmhouse Milad Ale,. 2.9% ABV  fermentata in foeders di legno) era debuttare con una birra lontana anni luce dagli stili che andavano (e vanno tutt’ora) di moda nella craft beer americana. Del resto le loro muse ispiratrici sono sempre state il Belgio delle fermentazioni spontanee e Jolly Pumpkin, birrificio del Michigan. 
Il tempo ha dato ragione ai fratelli Stuffings che oggi si godono il loro successo e vedono le loro birre arrivare quasi in ogni angolo del mondo: la gente forma lunghe file al birrificio per accaparrarsi alcune delle bottiglie più ricercate, soprattutto le varianti di Atrial Rubicite, birra acida ai lamponi che matura in legno. Al Belgio Jester King rende tributo con la linea chiamata SPON, 100% fermentazioni spontanee che vengono poi solitamene assemblate in blend di tre anni: esattamente come accade con lambic e gueuze. I prezzi sono invece molto poco popolari: 25 dollari circa per una bottiglia da 37,5 centilitri al birrificio.
Partecipazioni a festival e collaborazioni sono ormai una consuetudine; per assaggiare un po’ di Jester King non è necessario recarsi in Texas anche se ovviamente la visita al birrificio e alla fattoria, con diversi tour guidati gratuiti che avvengono sabato e domenica pomeriggio, è assolutamente consigliata.

La birra.
Mad Meg, ovvero Margherita la Pazza: questa Farmhouse Provision Ale di Jester King deve  il proprio nome al dipinto Dulle Griet realizzato nel 1561 da Pieter Bruegel il Vecchio e conservato nel museo Museo Mayer van den Bergh di Anversa. Nel 2017 è stato sottoposto ad un restauro durato quasi due anni. Dulle Griet è una strega del folklore fiammingo “probabile personificazione dell’avarizia o alterazione popolaresca della figura di santa Margherita d’Antiochia, la santa che sconfisse il demonio semplicemente pregando. Bruegel la rappresenta al centro del dipinto, mentre si dirige armata di spada e con addosso un'armatura, verso la bocca antropomorfa dell'Inferno. Reca con sé un forziere sotto il braccio, due panieri e una sacca pieni di varie cianfrusaglie.  Attorno a lei, un paesaggio da incubo, che ricorda il pannello di destra del Giardino delle delizie di Bosch, quello raffigurante l'inferno. Rovine, combattimenti, strane navi, creature ibride mostruose popolano l'intera opera.  In mezzo al caos, avanza con impeto Greta, rappresentata come una donna magra e allampanata, ma dalle dimensioni sproporzionate e dallo sguardo allucinato. Si dirige verso l'inferno? Va a combattere contro il demonio? Molte sono le interpretazioni, ma spesso non siamo più in grado di comprendere il linguaggio, denso di riferimenti simbolici, allegorici e alchemici, parlato da questi dipinti. Difficile dare un'interpretazione adeguata di quest'opera. Sappiamo solo che in alcune farse popolari dell'epoca, la pazza Margherita personificava soprattutto la donna collerica che dà sfogo alla sua rabbia, una di quelle che, come dice un vecchio proverbio, “possono saccheggiare la soglia dell’inferno e tornare incolumi”.  Dulle Griet, una donna che dà sfogo alla sua rabbia: a qualcuno ricorda qualcosa?  
La ricetta della birra, che ha subito molte modifiche negli anni,  è invece molto più semplice del dipinto alla quale si ispira: quella attuale dovrebbe prevedere malto Pilsner francese, frumento, un tocco di Caramunich e Acidulato, luppolo Saaz della Repubblica Ceca e il “farmhouse yeast” della casa. Prodotta per la prima volta nel 2010 solo in fusto, Mad Meg è stata imbottiglia a partire dal 2012 ed è oggi prodotta con buona regolarità. 
Dalla cantina recupero una bottiglia lotto numero 16, nata a gennaio 2017. L’apertura presenta qualche problema: gushing lento ma inesorabile, bicchiere ricolmo di schiuma compatta e pannosa che non accenna a dissiparsi. Bisogna armarsi di pazienza e attendere qualche minuti per riuscire a comporre un bicchiere di birra. Il suo colore oscilla tra l’arancio ed il dorato, leggermente velato. L’aroma è caratterizzato da un carattere rustico/funky delicato, quasi educato: fiori, paglia, qualche accenno di sudore ma soprattutto scorza di limone, polpa d’arancia, frutta a pasta gialla. Il percorso continua al palato in modo perfettamente coerente:  s’aggiungono i malti (miele, biscotto e cereale) e un bel taglio acidulo/lattico stempera il dolce dell’albicocca e della pesca. Degno di nota è anche l’amaro che chiude il percorso: terroso, zesty, erbaceo, pepato, a tratti pungente. L’alcool dichiarato è avvertibile solo quasi a fine corsa ed è sorprendente avere nel bicchiere una birra da quasi 9 gradi così rinfrescante e dissetante, vivacemente carbonata. 
Jester King dichiara apertamente d’essersi ispirato alle produzioni della Brasserie Thiriez e alla Avec Les Bons Vœux della Brasserie Dupont. Difficile fare il confronto con la Dupont, molto diversa, ma in ogni caso l’esercizio di Jester King è molto ben riuscito: ottima bevibilità per una birra dall’alto contenuto alcolico che rischia di mandare al tappeto chi si trova col bicchiere in mano.
Formato 75 cl., alc. 8.9% IBU 25 (?), lotto 16, imbott. 23/01/2017, prezzo indicativo 16.00-25.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 3 settembre 2019

Pizza Port Bacon & Eggs Breakfast Coffee Imperial Porter

Ha forse perso un po’ di smalto e di attrattiva tra i beergeeks, ma è un fatto inevitabile a 27 anni distanza dal giorno in cui venne offerta al pubblico la prima pinta di Pizza Port. Era il 1992 quando Gina e Vince Marsaglia, anni di homebrewing alle spalle, aggiunsero al loro piccolo ristorante di Solana Beach (San Diego County) un piccolo impianto produttivo. La loro storia ve l’avevo raccontata qui. In tutti questi anni sono state inaugurate le succursali di Carlsbad, San Clemente, Ocean Beach e Bressi Ranch, mentre a San Marcos sono nate le due “costole” Port Brewing e Lost Abbey supervisionate da Tomme Arthur, il primo birraio a lavorare sull’impiantino di Solana Beach. Nel 2014 sono arrivate le prime lattine di Pizza Port, sino a quel tempo distribuita solo in fusto. Nel 2015 è stato poi lanciato il marchio The Hop Concept, dedicato al luppolo (Hop Freshener Series): una IPA ogni trimestre, da bere prima dell’arrivo della successiva. 
Oggi Pizza Port rimane ancora uno dei luoghi migliori (al mondo!) dove bere quelle birre che hanno reso San Diego e la California famosa: parliamo delle West Coast IPA, ovviamente, la cui fama è stata oggi un po’ offuscata dalle sorelle prodotte in New England, sulla costa orientale.  La line-up attuale di Pizza Port comprende cinque birre disponibili in lattina tutto l’anno (California Honey Blond Ale, Chronic Amber Ale, Ponto Session IPA, Swami’s IPA e Kook Double IPA) affiancate da altrettante produzioni stagionali:  Jetty IPA (agosto-ottobre), Gentle Reminder IPA (giugno-luglio), Palapa IPA (aprile-giugno), Chirpin’ Bird IPA (febbraio-aprile) e Bacon and Eggs (gennaio-marzo). Ricordo poi che ogni succursale brewpub produce in fusto diverse birre in modo abbastanza autonomo: una buona scusa per visitarne più di una.

La birra.
Immaginate una colazione tardiva (o un brunch) ad Ocean Beach, San Diego: davanti a voi la spiaggia, le onde dell’oceano, ciabatte, tavole da surf. E’ questa l’immagine che vi trasmette una lattina di Bacon and Eggs, imperial porter al caffè disponibile nei mesi più “freddi” dell’anno: virgolette d’obbligo, visto il luogo in cui ci troviamo. La birra è stata realizzata in collaborazione con la torrefazione Bird Rock della vicina La Jolla, utilizzando un blend di varietà Etiopia e Sumatra; il birrificio la consiglia ovviamente in abbinamento con uova e pancetta per completare la classica colazione americana. 
Nel bicchiere si presenta di color ebano e forma una discreta testa di schiuma abbastanza compatta ma non molto persistente. Caffè, tostature, pane tostato, qualche accenno di cioccolato fondente e cereali: sento davvero i profumi della colazione, e non è una cosa che capita così spesso quando si parla di breakfast stout. Nonostante siano passati otto mesi dalla messa in lattina l’aroma ha ancora una buona intensità, c’è pulizia ed eleganza soprattutto per quel che riguarda l’elemento principale, il caffè. Il mouthfeel non regala invece particolari soddisfazioni; è una imperial porter poco ingombrante che scorre con ottima facilità grazie anche ad un contenuto alcolico (8%) molto ben nascosto che sembra dimostrare almeno due punti in meno del dichiarato.  Caffè e tostature sono protagonisti anche al palato, dove in secondo piano trovano posto anche caramello, liquirizia e cioccolato: pulizia, equilibrio e precisione non mancano e la bevuta, benché non molto complessa, regala grande piacere e soddisfazione. Nel finale non c’è nessuna accelerazione, i luppoli non vengono a supportare il torrefatto per aumentare il livello d’amaro. E’ invece l’acidità del caffè a far sfumare la birra in una coda morbida di media lunghezza, quasi delicata. Pochi fronzoli, tanta sostanza; bastano queste poche parole per riassumere Bacon & Eggs, imperial coffee porter di Pizza Port, ottima interpretazione di stile.
Formato 47,3 cl., alc. 8%, IBU 40 (?), lotto 28/01/2019.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.