martedì 30 gennaio 2018

Northern Monk / De Molen Dark City

Lo scorso novembre 2017 il birrificio inglese Northern Monk ha organizzato presso i propri locali di Leeds l’evento “Dark City” dedicato ovviamente a birre di colore “scuro” come stout, porter e black IPA. Questo mini festival è stato il seguito di Hop City, dedicato alle birre luppolate, che il birrificio aveva messo in piedi in aprile. 
Nel corso di due giornate è stato possibile assaggiare oltre 80 birre prodotte da diversi birrifici di tutto il mondo, accompagnati da musica heavy metal, DJ set e alcuni concerti. Due le sessioni disponibili nelle giornate di venerdì e sabato, da mezzogiorno alle 16.30 e dalle 18 alle 23.30. Quindici sterline il costo del biglietto (diciotto per la sessione del sabato sera)  al quale dovevate poi aggiungere 2,80 sterline per l’acquisto di ogni gettone. Non sono riuscito a recuperare la lista ufficiale delle birre disponibili ma potete farvene un’idea utilizzando la pagina dell’evento creata su Untappd. Oltre ai padroni di casa di Northern Monk erano presenti birre di Cloudwater, Siren, Wylam, Magic Rock, Brew By Numbers, Marble, Mikkeller, Lervig, Dry & Bitter, Kernel, Left Handed Giant, Anspach & Hobday, Dugges, Kirkstall, Hawkshead, Old Chimney, De Molen, Amundsen, Omnipollo e 18th Street. La media della gradazione alcolica delle birre servite? 9%| 
Per l’occasione Northern Monk ha realizzato assieme agli olandesi De Molen la birra ufficiale del festival, ovviamente una (robust milk) stout, chiamata Dark City: lattosio ed avena hanno il compito di donare un mouthfeel denso e cremoso ad una ricetta che si basa su malto inglese Maris Otter al quale sono affiancati Chocolate, Monaco e tre varietà di Crystal. Molto bella la doppia etichetta, apribile come le ante di un armadietto, attaccata sulla lattina: al di sotto della prima troverete tutte le informazioni sul festival e una piccola mappa con le indicazioni stradali per raggiungerlo.

La birra. 
Nel bicchiere non è completamente nera, ma poco ci manca: la schiuma è cremosa, abbastanza compatta e mostra una buona persistenza. Nonostante la ricetta non preveda l’utilizzo di caffè, l’aroma è dominato da eleganti profumi di caffè macinato. Ad affiancarlo non c’è però molto altro: orzo tostato, qualche ricordo di tabacco e di esteri fruttati che suggeriscono i frutti di bosco “scuri”, ma la loro presenza è molto debole.  Il mouthfeel è effettivamente abbastanza morbido e cremoso, ma il gusto non lo valorizza risultando un po’ legato tra le sue componenti: c’è una parte densa e dolce in sottofondo (caramello, cioccolato al latte) sulla cui superficie viaggia - quasi su di un binario parallelo -  l’amaro del caffè e delle tostature. L’intensità dei sapori è buona ma manca un po’ di amalgama: l’amaro è praticamente assente e a fine corsa c’è un piccolo vuoto che andrebbe riempito con qualcosa, magari con un po’ di quel calore etilico (7.4%) che è invece molto, troppo nascosto. Una milk stout robusta e nel complesso discreta, ma un po’ irrisolta: il gusto è meno pulito e definito dell’aroma, l’aroma è meno ricco e intenso del gusto. Se si riuscisse a raggiungere uniformità, questa Dark City farebbe un indiscutibile salto di qualità.
Formato: 44 cl., alc. 7.4%, IBU 15, lotto 523, scad. 20/04/2018, prezzo indicativo  6.50 Euro  (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 29 gennaio 2018

Firestone Walker Sucaba 2014

Nel 2006 per festeggiare il proprio decimo compleanno il birrificio Firestone Walker (Paso Robles, California) mette in commercio l'Anniversary Ale “10”, un complicato blend di alcune differenti birre invecchiate in botte: quella edizione fu realizzata assemblando un barley wine, una imperial stout, una imperial brown ale e una double IPA. Da allora ogni anno Firestone Walker celebra il proprio anniversario con un diverso blend e ha anche iniziato a mettere in commercio le singole birre utilizzate per realizzarlo: tra le più note e ricercate dagli appassionati ci sono senza dubbio l’imperial stout Parabola e il barley wine Sucaba/Abacus. Per alcuni anni queste birre erano disponibili solo alla spina e in quantità molto limitate, generando ovviamente il culto (o l'hype) tra gli appassionati. 
A marzo 2010 il barley wine Abacus viene per la prima volta imbottigliato (1500 le casse prodotte)  dopo aver passato quattordici mesi in botti ex-bourbon Heaven’s Hill. I beergeeks sono ovviamente entusiasti ma altrettanto non si può dire del produttore vinicolo ZD Wines, della Napa Valley, che dal 1999 produce un Cabernet Sauvignon con lo stesso nome e invia al birrificio una lettera che minaccia le vie legali. Nella primavera del 2011 Firestone Walker annuncia la decisione di abbandonare il nome; l’edizione 2012 del barley wine si chiamerà §ucaba. Così racconta il birraio Matt Brynildson: “quanto lavoravo alla Goose Island avevo una calcolatrice gigante che utilizzavo per fare i calcoli delle ricette e i miei colleghi mi prendevano sempre in giro dicendo “uh oh, Brynildson ha di nuovo accesso il suo abaco. La parola mi piacque e volevo usarla per una birra; ora prendete uno specchio e metteteci di fronte una bottiglia: Abacus|sucabA”. 
Sucaba, uno degli ingredienti principali per il blend dell'Anniversary Ale di Firestone, è in realtà essa stessa un blend; per la sua produzione non solo vengono utilizzate diverse botti di  bourbon (solitamente Heaven Hill, 4 Roses, e Old Fitzgerald) ma c'è anche una piccola percentuale di una birra "misteriosa" che Brynildson non intende rivelare: “la base è quella che chiameremmo Sucaba, ma ogni anno c’è anche un 10% di un’altra delle nostre birre barricate, che di solito apporta quelle note di cioccolato e di ciliegia”.

La birra.
Difficile ma non impossibile da reperire come invece accade per molte altre birre americane circondate dall'hype: Firestone Walker ha col tempo perso un po' del proprio fascino agli occhi dei beergeeks, che lo hanno sostituito con nuovi birrifici più "alla moda". E poi commercialmente i barley wine hanno leggermente meno attrattiva rispetto alle imperial stout: fatto sta che in agosto riuscii ancora a trovare in un negozio in California delle bottiglie uscite ben otto mesi prima. L'hype vuole invece che vadano esaurite entro pochi giorni, se non ore, dalla loro messa in vendita.
Il millesimo 2014 di Sucaba viene annunciata a gennaio: "solo" 3500 casse di bottiglie da 65 cl.  e una ricetta che prevede malti Munton’s Pale, Crisp Maris Otter Pale, Munich, Dark &; Light Crystal, Chocolate, luppoli Bravo (in amaro) e East Kent Golding per aroma. Il barley wine è stato poi invecchiato in differenti botti di bourbon, per una durata media di dodici mesi. 
Il suo colore è un ambrato piuttosto carico e velato che si tinge di intensi riflessi rubino: la schiuma ocra, cremosa e compatta ha una discreta persistenza. Intensità ed eleganza trovano un punto d'incontro che non si trova tutti i giorni: si dividono il palcoscenico,  entrando ed uscendo di scena a più riprese, uvetta, prugna e fichi, vaniglia, biscotto e caramello, legno e cocco, vino fortificato e bourbon. Nonostante l'imponente gradazione alcolica (13.5%) Sucaba è molto morbida al palato e lo coccola accarezzandolo con una moderata viscosità: corpo medio, poche bollicine. A quattro anni dalla messa in bottiglia è una birra ancora possente e muscolosa, attraversata da una vigorosa componente etilica che riscalda ogni sorso. Sarebbe un peccato "berla", obbligatorio è invece sorseggiarla perché lei sarà l'unica compagna di una serata. Il gusto ripercorre con buona fedeltà l'aroma: caramello/melassa e biscotto, prugna, fichi e uvetta, ciliegia, vaniglia, bourbon. L'intensità è elevatissima, pulizia e finezza non sono da meno: Sucaba è lunghissima, quasi interminabile nel suo epilogo caldo e potente di frutta sotto spirito e vino fortificato, legno. 
Emozioni, eleganza, classe: nel bicchiere c'è tutto questo e la sua fama è assolutamente meritata. Nel 2017 Firestone Walker ha scelto di non produrla, prendendosi un anno di pausa: Sucaba dovrebbe ritornare nel 2018 nel nuovo formato da 35.5 cl che il birrificio ha ormai scelto per la propria Proprietor's Vintage serie. 
Formato 65 cl., alc. 13.5% , IBU 42, lotto 2014.  

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 26 gennaio 2018

DALLA CANTINA: Extraomnes Weltanschauung (2013)

Primo appuntamento del 2018 con la rubrica “dalla cantina”, dedicata al vintage, alle birre che hanno diversi anni di vita alle spalle.  Facciamo un salto indietro al 2013, anno in cui il birrificio di Marnate fa debuttare alcune novità che contribuiranno a far poi vincere il premio di birraio dell’anno a Luigi D’Amelio:  Bloed, Hopbloem, Wallonië e Quadrupel. A queste quattro birre se ne aggiunse una molto più particolare e dal nome “criptico”:  Weltanschauung, una poderosa oud bruin che è stata invecchiata per venti mesi in barrique che avevano precedentemente ospitato vino rosso. Solamente un migliaio circa le bottiglie prodotte. 
Weltanschauung è un termine tedesco  (visione, intuizione [Anschauung] del mondo [Welt]). che può essere vagamente tradotto in italiano come “concezione della vita, del mondo; modo in cui singoli individui o gruppi sociali considerano l’esistenza e i fini del mondo e la posizione dell’uomo in esso; per lo più riferita a pensatori, scrittori, artisti, in quanto essa sia esplicitamente o implicitamente espressa nella loro opera”. In questo caso potremmo quindi considerare la birra come “la visione del mondo” del birraio che l’ha creata:  in etichetta l’occhio della provvidenza vi ricorda che ogni azione e pensiero di voi che avete il bicchiere in mano sono osservati da Dio o dal Grande Architetto dell’Universo.

La birra.
Ho distrattamente dimenticato di assaggiarla “fresca”, a pochi mesi dall’imbottigliamento, e ho finito per dimenticarne qualche bottiglia in cantina. Alcune opinioni lette in internet di recente sembravano suggerire che la Weltanschauung non fosse invecchiata molto bene e così, prima di arrivare al punto di non ritorno, ne ho recuperata una bottiglia. 
Nel bicchiere è di un ambrato abbastanza torbido ma illuminato da venature color rubino: non si forma una vera e propria schiuma ma una serie di bolle biancastre, un po’ grossolane, si ammassano attorno alle pareti del bicchiere. Al naso c’è una componente acetica (mela) che risulta tuttavia ancora delicata, affiancata da profumi di frutti rossi aspri come  amarena cotta, prugna acerba; gli anni passati in bottiglia hanno apportato note ossidative che in questo caso si sono fortunatamente limitate ad apportate tonalità dolci che richiamano vini marsalati. In secondo piano appaiono di tanto intanto profumi di legno e di ciliegia, polpa ma anche nocciolo. A livello tattile la birra è ancora vigorosa e presente, sostenuta da una decisa gradazione alcolica (10%) che riscalda e potenzia ogni sorso: le poche bollicine rimaste (ignoro quante ne avesse da giovane) non le donano tuttavia molta vitalità ma contribuiscono a spingerla ulteriormente in quel territorio vinoso dove il gusto si instrada rapidamente. Anche al palato ci sono dolci note marsalate che hanno il compito di bilanciare la componente aspra e (lievemente) acetica: il gusto ricalca con buona corrispondenza l’aroma e sfocia in un finale secco e vinoso, impreziosito da note di legno e da un gradevole calore etilico che fa sentire la sua presenza senza mai esagerare. 
A quasi cinque anni di vita la Weltanschauung mi sembra ancora in forma ed è capace di regalare belle emozioni: i segni del tempo ci sono ma in questo caso sono quelli positivi, ovvero il marsalato; questa componente è ancora in divenire e potrebbe ulteriormente evolvere nei prossimi anni, occupando maggior spazio sul palcoscenico. Il condizionale è ovviamente d’obbligo, non vi sono mai certezze nell’invecchiamento di una birra.
Formato 33 cl., alc. 10%, lotto 235/13, scad. 31/08/2023, pagata 4.70 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 25 gennaio 2018

Next Level Brewing / Loncium Monster Juice

Next Level è una beerfirm viennese fondata nel 2015 da Johannes Grohs e  Alexander Beinhauer: si definiscono due beer sommelier che hanno alle spalle studi in campo economico (Grohs) e biotecnologie (Beinhauer).  
Si sono conosciuti frequentando la scene dell’homebrewing della capitale austriaca, dove Alexander Beinhauer ha ottenuto molti riconoscimenti in vari concorsi.  La beerfirm si reca a produrre su impianti di diversi birrifici austriaci, ma ultimamente sembra aver trovato dimora fissa presso la Privatbrauerei Loncium, che abbiamo incontrato in questa occasione: una ventina le birre prodotte nei due anni di attività.  E proprio assieme al birrificio Loncium Next Level ha realizzato una New England IPA:  Monster Juice, questo il nome per una Double IPA “leggera”  (7.1%) alla quale sono stati aggiunti 200 chili di purea di albicocca  La collaborazione è avvenuta a settembre 2017, giusto in tempo per avere la birra pronta per l’Halloween Monster Party che si è tenuto a fine ottobre al Beer Store di Vienna
L’albicocca è un frutto che viene usato con buon successo nella produzione di birre acide, funzionerà nel contesto di una (Juicy) India Pale Ale ?  Scopriamolo.

La birra.
Il suo aspetto non è esattamente quello di una New England IPA: il colore dorato è appena velato e in superficie si forma una cremosa e compatta testa di schiuma, dalla buona persistenza. Il segreto dell'hazy è custodito nella purea d'albicocca che è finita sul fondo della bottiglia: versandola nel bicchiere otterrete una sorta di NEIPA ma anche una birra piuttosto sgradevole alla vista.
Al naso c'è ovviamente l'albicocca, affiancata da qualche lieve profumo di frutta tropicale, ananas e passion fruit, biscotto. C'è pulizia ma l'intensità è piuttosto modesta e lo spettro del bouquet aromatico è alquanto ristretto. La sensazione palatale non cerca di emulare il mouthfeel di una "juicy IPA" ma è comunque gradevole e morbido: corpo medio, poche bollicine, alcool ben nascosto e un gusto che rivela però una convivenza non troppo ben riuscita tra il dolce del tropicale e l'asprezza e acidità dell'albicocca. Gli elementi sembrano respingersi anziché legarsi. Biscotto e caramello fanno una breve  comparsa nelle retrovie e nel finale c'è una timida note americane erbacea. 
Nel complesso è una IPA pulita e dotata di una buona secchezza, facile da bere e abbastanza intensa: non ha molto a che fare col New England e per il mio gusto personale non trovo particolarmente azzeccato l'uso dell'albicocca in una birra di questo tipo. 
Formato 33 cl., alc. 7.1%, lotto 945600815, scad. 22/05/2018, prezzo indicativo 3.50-4.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 24 gennaio 2018

Munkebo Mikrobryg Ægir Russian Imperial Stout

In Danimarca, in un vecchio mulino del 1962 nei pressi di Kerteminde, è operativa dalla fine del 2013 la Munkebo Mikrobryg che tuttavia, a dispetto del nome, non dispone ancora di impianti produttivi propri;  la città di Odense si trova ad una quindicina di chilometri, Copenhagen a 160. A fondarla è Claus Christensen, laureato in biologia e un dottorato di ricerca in Scienze della Salute all’Università di Copenhagen: dopo una breve esperienza nel ramo commerciale di una multinazionale, Claus ha lavorato come assistente birraio presso i danesi della Midfyn, spostandosi poi in Germania alla Camba Bavaria dove è rimasto per 7 mesi. A luglio 2013 è rientrato in Danimarca per dare vita al progetto Munkebo, che prende il nome dall’omonimo sobborgo un cui si trova: nei campi che circondano il mulino Christensen ha iniziato anche a coltivare luppolo e, da ex-biologo, ha egli stesso isolato da un ape quattro ceppi di lievito. 
Ad aiutarlo ci sono Marie-Louise Pulawska Legh-Smith, che si occupa della parte amministrativa, e il grafico Thomas Bjerregaard Bonde. Non c’è molta chiarezza sul dove vengono prodotte le birre ma mi sembra di capire che sino al 2016 Christensen si è appoggiato alla Grauballe Bryghus di Silkeborg, per poi “delocalizzare” la produzione in Polonia presso il birrificio ReCraft: sono una cinquantina le etichette realizzate in tre anni d’attività.

La birra.
Ægir, nome mitologico scandinavo del gigante re del mare e nventore della birra secondo la mitologia nordica: parola già nota ai birrofili in quanto nome di un birrificio scandinavo. Ecco invece un link per chi volessere approfondire l'argomento "vichinghi e birra". 
La Ægir di Munkebo è una imperial stout la cui ricetta prevede malti Vienna, Monaco, Special B, orzo tostato, Cara 120 e Black; luppoli Northern Brewer e E.K. Goldings,  lievito american ale. La bottiglia in questione credo sia datata 2015 e la birra si presenta nera, con un discreto cappello di schiuma cremosa e abbastanza compatta. L’aroma non è molto intenso e non brilla per eleganza, ma regala ugualmente dolci profumi di fruit cake e prugna disidratata, sciroppo di frutti bosco, liquirizia; in sottofondo leggeri accenni di carne e salsa di soia.  Quando si parla di Imperial Stout scandinave si pensa spesso ad un liquido denso e viscoso che ricorda l’olio motore, ma non è questo il caso: il corpo è medio, poche bollicine, la consistenza è morbida e “leggera”, quasi vellutata. Pane nero, melassa,  fruit cake, prugna e quell’immancabile liquirizia tanto amata nel nord dell’Europa disegnano una bevuta che parte dolce per poi essere bilanciata un finale amaro, di buona intensità, nel quale s’incontrano caffè e tostature, ricordi di cioccolato fondente, terra e tabacco/cenere. L’alcool è abbastanza ben nascosto e apporta solo un delicato tepore, la bevuta mostra ampi margini di miglioramento per quel che riguarda eleganza e pulizia ma è nel complesso abbastanza soddisfacente, se non si hanno grosse aspettative.
Formato 33 cl., alc. 9.4%, IBU 80, lotto 15.131, scad. 01/12/2020.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 23 gennaio 2018

Left Handed Giant Sky Above

Non è paragonabile ai “beer miles” di Bermonsdey (Londra) o Piccadilly (Manchester), ma anche Bristol ha la sua area ad elevata concentrazione birraria: è il sobborgo industriale di St Philip's, dove hanno trovato casa i birrifici Good Chemistry, Arbor, Moor, Left Handed Giant e Dawkins. Li potete raggiungere a piedi con un itinerario di circa tre chilometri e se avete voglia di continuare potete raggiungere con calma anche Lost and Grounded, Wiper & True, Fierce & Noble. 
Oggi ci concentriamo su Left Handed Giant, birrificio fondato nel 2016 come beerfirm da Bruce Gray, oggi aiutato dal birraio Richard Poole e dal socio Jack Granger. Gray si definisce un golfista mancato: la mancanza di talento non gli ha permesso di continuare lo sport amato, obbligandolo a concentrarsi sulla gestione del circolo di golf e in particolare della ristorazione. Nel 2009 si sposta ad Edimburgo dove gestisce alcuni locali, per poi finire ad Aberdeen per aprire il primo BrewDog bar; nei due anni successivi ne inaugura altri otto in tutta la Scozia e poi decide di mettersi in proprio fondando un’azienda di distribuzione di birra in Scozia. Assieme a due soci apre anche il The Hanging Bat di Edimburgo, un bar focalizzato sulla craft beer. Nel 2014 liquida le proprie quote societarie per trasferirsi a Bristol dove fonda la Big Beer, distributore di birra artigianale, e lo Small Bar. In parallelo lancia anche la beerfirm Left Handed Giant che debutta nel 2016 e arriva produrre 2500 ettolitri. Fare birra su impianti altrui non garantisce un grosso margine di guadagno e non permette di controllare personalmente la qualità del prodotto: all’interno del magazzino utilizzato per lo stoccaggio, nel quartiere di St Phillips, nel 2017 entra in funzione l’impianto produttivo guidato dal birraio Richard Poole. Il bollitore da 12 ettolitri della Elite Stainless e alcuni fermentatori garantiscono un potenziale annuo da 3500 ettolitri, suddiviso tra fusti, lattine e bottiglie: in loco è anche stata aperta una piccola taproom. Sul blog del birrificio potete leggere tutti i dettagli, inclusi i costi sostenuti. 
Per il 2018 Left Handed Giant ha svelato dei piani piuttosto ambiziosi: con una campagna di crowdfunding  si vogliono raccogliere le 400.000 sterline necessarie per la messa in funzione di un secondo brewpub nel centro di Bristol, nella zona del porto, lo storico Floating Habour. Qui vi troverà posto un nuovo impianto da 17 ettolitri con taproom, mentre quello attuale verrà dedicato in futuro alla produzione di birre acide e relativi affinamenti in botte; in alcuni locali separati, per evitare contaminazioni, verranno poi inlattinate le birre prodotte “sul porto”. 
A far conoscere il proprio nome sono servite le giù numerose collaborazioni realizzate con birrifici molto alla moda come Beavertown, Magic Rock e Verdant.

La birra.
Il sito di Left Handed Giant è attualmente in lavorazione e non offre informazioni sulla gamma delle proprie birre. Poco male: Sky Above è un’American Pale Ale illustrata da Lize Meddings e prodotta con l’immancabile US-05,  malti Maris Otter, Caragold, Carapils, avena e frumento, luppoli  Citra, Simcoe e Mosaic. All’aspetto è di colore dorato pallido velato e forma una testa di schiuma bianca, cremosa e abbastanza compatta, dalla buona persistenza. L’aroma è pulito e gradevole, a tratti quasi delicato, ancora fresco: arancia, cedro e un po’ di pompelmo, ananas e passion fruit, qualche nota di pane. L’avena le dona una buona presenza palatale ed è una session beer (4.3%) che scorre bene con corpo medio e la giusta dose di bollicine. Il gusto ricalca fedelmente l’aroma, proponendo una leggera base maltata subito incalzata dalla frutta; un velo dolce tropicale in sottofondo bilancia la scorza degli agrumi protagonista di un finale moderatamente amaro con qualche nota terrosa. Sky Above di Left Handed Giant è una session beer pulita e dalla buona intensità, abbastanza secca e quindi in grado di svolgere con successo la propria funzione: essere bevuta ad oltranza senza sforzo, dissetare e rinfrescare. Bene così.
Formato 33 cl., alc  4.3%, scad. 02/05/2018, prezzo indicativo 4.50-5.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 22 gennaio 2018

Hoppin' Frog TORIS The Tyrant Triple Oatmeal Stout

Agosto 2016: un mese da ricordare per il birrificio dell’Ohio Hoppin’ Frog guidato da Fred Karm. Ricorre il decimo anniversario della sua fondazione e il divieto di produrre e vendere birre con un ABV superiore al 12% all’interno dei confini dello stato viene finalmente rimosso. 
La House Bill 37 era in vigore dal 2002 ed aveva innalzato il limite massimo dal 6 al 12%, continuando tuttavia a favorire le grandi lobby a fronte dei piccoli birrifici: nel 2014, ad esempio, il rifiuto dell’Ohio di rimuovere quel limite aveva fatto fuggire il birrificio californiano Stone, alla ricerca di una location per la propria succursale ad est; un indotto stimato per decine di milioni di dollari era alla fine andato in Virginia.  Con l’aiuto della Ohio Craft Brewers Association e del senatore Keith Faber, il governatore John Kasich firma il 31 maggio 2016 alcune modifiche alla legge destinate ad entrare in vigore in agosto dello stesso anno. 
Per Hoppin’ Frog  c’è dunque l’opportunità di un doppio festeggiamento: il proprio decimo compleanno e l’abolizione del limite: il 26 agosto 2016 il senatore Faber consegna a Fred Karm il martelletto di legno usato dal giudice per approvare le modifiche alla legge e nello stesso giorno si svolge la festa per la messa in commercio di una versione barricata dell’American Barley Wine In-Ten-Sity, 12%. Il vero party è tuttavia quello che si tiene qualche giorno più tardi,  il 31 agosto, quando è possibile vendere la prima birra che supera il limite un tempo proibito: giusto che sia una versione potenziata di una delle birre che hanno contribuito al successo di Hoppin’ Frog, ovvero l’imperial stout BORIS The Crusher (9.4%). Lei e la sua sorella maggiore DORIS The Destroyer (10.5%) vengono affiancate dalla mastodontica TORIS (Triple Oatmeal Imperial Stout) The Tyrant  (13.8%). 
“Ci sono voluti tantissimi sforzi - dice Karm –  è da ventidue anni che faccio birra in Ohio ma sento che solo adesso possiamo davvero spiegare le ali. Avevamo già pronte almeno cinque ricette con ABV superiore al 12%, ma dovevamo sceglierne una e realizzare la sorella maggiore di BORIS è stata una scelta ovvia. Ma ne arriveranno presto altre. Ho sempre volute far birre speciali, non birre da bere tutti i giorni”.

La birra.
Inutile cercare informazioni sulla ricetta: come al solito Hoppin’ Frog è molto riservata e divulga pochissime notizie sugli ingredienti usati nelle proprie birre. Le promesse di TORIS “il tiranno” sono quelle raffigurate in etichetta: un potente carro armato, un inarrestabile panzer che spazza via i limiti imposti dal filo spinato o, nel caso specifico, dalla legislazione dell’Ohio. 
Nel bicchiere è splendida, completamente nera e sormontata da un cremoso cappello color cappuccino, cremoso e compatto, dalla buona persistenza. Il naso è ricco ed avvolgente, intenso, con l’opulenza che prende il sopravvento sull’eleganza: non facile controllare tutta questa potenza. Fruit cake, cioccolato fondente, caffè e orzo tostato, liquirizia, forse tabacco: il tutto è avvolto da una calda nota etilica. C’è tutto il necessario per una bevuta di grande livello, e il gusto non delude le aspettative: il corpo è pieno, ci sono poche bollicine a movimentare quello che di fatto è un viscoso olio da motore, morbido, quasi cremoso. Il palato è avvolto da una densa coltre ricca di melassa e fruit cake, liquirizia, frutta sotto spirito, biscotto inzuppato nel liquore:  il dolce viene progressivamente bilanciato dall’amaro del caffè e delle tostature, ma anche da una generosa luppolatura. L’alcool (13.8%) riscalda ogni istante della bevuta con vigore, senza tuttavia rendere troppo difficile il sorseggiare. E’ una birra che sembra non avere mai fine e lascia una lunghissima scia calda di alcool, caffè e cioccolato fondente. 
TORIS non è affatto un tiranno ma un’imperial stout massiccia e poderosa ma "bilanciata" nel suo essere estremo: non è ovviamente una birra da bere ma da sorseggiare con tutta calma, sarà lei la unica vostra compagna con la quale iniziare e finire una serata. Mettetevi comodi, lasciate che il bicchiere si riscaldi tra le vostre mani e godetevi lo spettacolo in santa pace. Il prezzo è di fascia alta ma  non lascia rimpianti, e se fate attenzione non è difficile trovarla on-line con qualche sconto; se amate le imperial stout e volete farvi un regalo, qui andate sul sicuro.
Formato: 65 cl., alc. 13.8%, IBU 65, imbott. 2016, prezzo indicativo 20.00-22.00 euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 21 gennaio 2018

Reissdorf Kölsch

E' Heinrich Reissdorf nel 1859 a fondare a Colonia la Obergärige Brauerei Heinrich Reissdorf: proveniente da una famiglia di contadini, pare che lavorasse come sarto prima di dedicarsi alla produzione della birra. Alla sua morte, avvenuta nel 1901, la moglie Gertrud portò avanti l'azienda sino al 1908, anno in cui passò nelle mani dei cinque figli.  Nel 1923 il birrificio viene rinominato Privat-Brauerei Heinrich Reissdorf e, dopo la rinascita dalla macerie della seconda guerra mondiale, è ancora oggi gestito dai discendenti di Heinrich, alla quarta generazione: Hermann-Josef e Karl-Heinz.  
Reissdorf produce una sola birra, un Kölsch, disponibile anche nella sua versione analcolica; Kölsch è la birra della città di Colonia e Reissdorf fu il primo produttore ad imbottigliarla. Fu in prima linea per l'eliminazione di un divieto che, dopo la seconda guerra mondiale, impediva di produrre birre ad alta fermentazione; e fu tra i promotori della Kölsch Konvention, un disciplinare redatto nel 1986 da una ventina di produttori con l'intento di proteggere le kölsch: possono essere prodotte solo nell'area metropolitana di Colonia, devono  avere OG tra 11 e 15.9, devono essere di colore chiaro, poco maltate, filtrate e ad alta fermentazione, servite nel classico bicchiere a cilindretto da 20 cl. chiamato Stange. Lo ricordo per chi non conosce lo stile: le kölsch sono fermentate con un lievito ad alta ma vengono poi "lagerizzate" a bassa temperatura come dovrebbe avvenire per le birre a bassa fermentazione. Non chiamatele tuttavia "ales", perché il loro profilo delicatamente fruttato non è paragonabile a quello delle birre anglosassone o belghe: Obergärige Lagerbier, questo il termine che sembra essere più appropriato. 
Il nome kölsch può dunque essere utilizzato solo per le birre prodotte nei dintorni di Colonia, e dovete quindi recarvi in loco per apprezzarle veramente; la produzione è quasi interamente destinata al consumo locale, con una piccola percentuale dedicata all'export. Ma non sono birre che amano viaggiare: per chi volesse approfondire, qui e qui segnalo due bei report su come e dove bere a Colonia. 

La birra.
Le Kölsch non amano viaggiare, dicevo, e il problema diventa ancora più serio se chi le produce ha la scellerata idea di utilizzare una bottiglia di vetro trasparente. Perché lo fai, Reissdorf?
Dorata e perfettamente limpida, forma un'altrettanto impeccabile testa di schiuma bianca, cremosa e compatta, dall'eccellente persistenza. L'aroma è il risultato della lungimirante scelta di esporre il luppolo alla luce: c'è un evidente "puzzola", accompagnata da un leggero sulfureo. Sotto le macerie si ritrovano profumi floreali, di cereali e crosta di pane. Peccato. Al palato è leggera e delicatamente carbonata, con una scorrevolezza ottima. Il gusto è fortunatamente meno problematico e regala un'esperienza tutto sommato soddisfacente: pane, un tocco di miele, una bella minerali ed un leggero e indefinibile (pera? agrumi?) fruttato, un finale erbaceo amaro di discreta intensità, delicatamente pepato/speziato, da luppolo "nobile". C'è però anche un lieve diacetile a rendere questa Kölsch meno secco di quanto potrebbe essere, ma il risultato è comunque dissetante e rinfrescante. Al di là del problema olfattivo, la Kölsch di Reissdorf fa il suo dovere con fredda precisione tedesca: poche emozioni nel bicchiere, ma per quelle bisogna probabilmente andare a dissetarsi direttamente alla fonte, a Colonia. 
Formato 33 cl., alc. 4.8%, scad. 24/04/2018.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 20 gennaio 2018

Track Brewing / Wylam: Loose Morals Rye IPA

Ogni appassionato birrofilo conosce (o dovrebbe conoscere) il Bermondsey Beer Mile di Londra, quel chilometro di strada dove, sotto le arcate della linea ferroviaria, vi è un'altissima concentrazione di birrifici con relative taproom, beershop e pub. 
A Manchester, sempre sotto le arcate della ferrovia, alcuni birrifici si sono ispirati a Londra per dar vita al Piccadilly Beer Mile, situato nella zona a sud ovest della città, in prossimità della omonima stazione dei treni. Passeggiando passerete in rassegna i birrifici Track Brewing, Alphabet, Chorlton, Beer Nouveau e Squawk, Ubrew e il deposito del distributore Cave Direct/Beer Merchants. Con una piccola deviazione raggiungerete poi Cloudwater. 
Parliamo di Track Brewing, birrificio fondato alla fine del 2014 da Sam Dyson: ai tempi dell'università (2002) si era dilettato nell'homebrewing assieme ad alcuni amici, ma è un tour in bicicletta negli Stati Uniti, dall'Oregon al Colorado, passando per la California, a far scattare in lui la voglia di mettere in piedi un microbirrificio. 
Dyson lavorava a Londra e alloggiava proprio nella zona di Bermondsey, vive la new wave brassicola londinese e sogna di portarne un pezzo a Manchester: frequenta prima un corso sulla produzione della birra e passa un po' di tempo lavorando alla Camden Brewery per poi ritornare nella nativa Manchester e installare i propri impianti nei pressi della stazione ferroviaria di Piccadilly (5 Sheffield Street), sfruttando i prezzi contenuti e la temperatura costante nel corso dell'anno (15-18 gradi) che quei locali offrono.  Ad aiutarlo arriva il birraio Matt Dutton, fresco vincitore del National Homebrew Champion organizzato dal Brewdog bar di Manchester con la sua Coup D’Etat Brett Stout.  Una settantina le birre prodotte in un paio d'anni d'attività, con il luppolo (IPA e dintorni) protagonista della maggior parte dell'offerta.

La birra.
Loose Morals è una IPA alla segale prodotta assieme al birrificio Wylam che abbiamo incontrato pochi giorni fa. La ricette prevede luppoli Citra e Idaho 7 in grandi quantità, avena e segale ad affiancare i malti.
Nel bicchiere si presenta di colore arancio pallido opalescente con un cappello di schiuma cremosa, un po' grossolana ma dalla buona persistenza. Sono gli agrumi i protagonisti dell'aroma: cedro, lime e pompelmo rilegano in sottofondo la frutta tropicale, in particolare l'ananas. Il bouquet è fresco e pulito, elegante, molto intenso e  convincente. Il gusto è leggermente inferiore come intensità ma ripropone gli stessi elementi con uguale eleganza e pulizia: il dolce della frutta tropicale rimane in secondo piano a sostenere un profilo ricco di agrumi, pulito, secco e molto rinfrescante. Nel finale un po' di resina affianca l'amaro della scorza d'agrumi e la nota leggermente terrosa e pepata della segale: il livello d'amaro è comunque abbastanza contenuto e le bevuta risulta molto bilanciata, succosa e fruttata pur senza arrivare agli eccessi del juicy. L'alcool è piuttosto ben nascosto, la bevuta è facile e, soprattutto, regala ottime soddisfazione: birra molto riuscita e ancora fresca, se l'avvistate non rinunciate a provarla.
Formato 33 cl., alc. 5.9%, scad. 30/04/2018, prezzo indicativo 4.50-5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 18 gennaio 2018

Eastside Sleazy Way Imperial Stout

Ritorna sul blog Eastside, birrificio di Latina che abbiamo già incontrato in diverse occasioni. Fondato nel 2013 da Luciano Landolfi, Tommaso Marchionne, Alessio Maurizi, Cristiano Lucarini e Fabio Muzio, Eastside si è lasciato alle spalle un 2017 molto attivo e piuttosto ricco di novità e collaborazioni, per cercare di stare al passo con le mode. Tra le ultime arrivate ricordo, in ordine casuale,  Fata Morgana  (scotch ale / wee heavy), Terzo Grado (una massiccia triple IPA), Fade Away (double witbier), The Truth (IPA prodotta con luppolina), Pineapple Chunk (collaborazione con Kees, una NEIPA con ananas), Overdrive (collaborazione con Birrificio Mezzavia), Castle Bravo (NEIPA realizzata in esclusiva per i locali Artisan, Scurreria e La Belle Alliance), Sempre Visa (Pilsner), alcune variazioni sul tema Sour Side (berliner weisse alla frutta) e un’edizione speciale “juicy” della Six Heaven. Ne avrò sicuramente dimenticata qualcuna.  
Oggi facciamo però un passo indietro al 2016, quando Eastside realizza la sua prima imperial stout, uno stile del quale non ho mai trovato interpretazioni veramente soddisfacenti da parte di birrifici italiani, tranne poche eccezioni (qui e qui, ad esempio). 
Sleazy Way, termine che nello slang americano indica una modalità losca, sporca o poco corretta per raggiungere un risultato; nel nome è infatti racchiuso parte del processo produttivo di questa birra. L’intenzione è quella di simulare un passaggio in botte di whisky, utilizzando cubetti di rovere francese che sono stati lasciati a bagno nel distillato per qualche mese.  La scorrettezza è ovviamente segnalata in modo “ironico”, perché la pratica di utilizzare chips di legno è abbastanza frequente nel mondo della birra. Se pensiamo alle imperial stout, l’esempio più famoso è probabilmente quello della Yeti Oak Aged di Great Divide. 
Colgo l’occasione per aprire una parentesi e dare un avviso ai naviganti birrofili meno esperti: fate attenzione a quello che trovate scritto in etichetta! Oak Aged non significa Barrel Aged: pensateci bene prima di spendere cifre elevate per acquistare birre (americane) il cui prezzo non è sempre giustificato. Benché i cubi e le chips di legno “simulino” il passaggio in botte, per quanto ben realizzato il risultato finale non è assolutamente paragonabile a quello di un vero invecchiamento in botte. Le tempistiche e i costi di realizzazione, ovviamente inferiori, dovrebbero riflettersi sul costo finale del prodotto che dovrebbe essere minore rispetto a quello di una birra “barrel aged”.  Mi riferisco proprio al caso della Yeti Oak Aged, che non fa botte ma che mi capita spesso di vedere in vendita agli stessi prezzi, se non addirittura superiori, di birre invecchiate in botte.

La birra.
Torniamo in Italia con una bottiglia di Sleazy Way prodotta all’inizio del 2016. Il suo colore è un ebano piuttosto scuro che s'avvicina al nero, mentre la schiuma, cremosa e abbastanza compatta, rivela una buona persistenza. Al naso orzo tostato e caffè dominano la scena, in secondo piano accenni di legno affumicato e whisky, frutta sciroppata, carne. L'intensità, dopo due anni passati in bottiglia, è ancora buona mentre pulizia ed eleganza sono ampiamente migliorabili. Lo stesso si potrebbe dire del gusto: ci sono tutti gli elementi giusti ma non sono definiti con la dovuta precisione. Caramello, liquirizia, frutta sotto spirito e whisky danno il via ad una bevuta abbastanza dolce che vira poi, con un passaggio un po'  po' troppo brusco, verso un amaro intenso nel quale oltre al caffè e alle tostature c'è ancora il contributo dei luppoli. E' una imperial stout "dura" e tosta, maschia, sostenuta da un vigoroso ma non eccessivo tenore etilico che riscalda ogni sorso: più che il legno, è presente il distillato in cui l'elemento è stato immerso. Il risultato è nel complesso gradevole ma ancora lontano - problema endemico - dai migliori esempi che arrivano dagli Stati Uniti o dal nord Europa: mi riferisco a pulizia ed eleganza ma anche a quel mouthfeel che, sebbene morbido e leggermente oleoso, non riesce a regalare quella sensazione di pienezza, di cremosità e di "lussuria" che personalmente vorrei trovare quando decido di stappare una imperial stout dal contenuto alcolico (quasi)  in doppia cifra.
Formato 33 cl., alc. 9.5%, lotto 20 15, scad. 12/2021, prezzo indicativo 5.00-6.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 17 gennaio 2018

Northern Monk Heathen IPA

Tra le più belle sorprese del 2017 c’è stata senz’altro Northern Monk, birrificio attivo a Leeds dal 2013 e, dal 2016, importato anche in Italia almeno per quel che riguarda le birre “basiche”, quelle prodotte tutto l’anno. Nel periodo 2014-2016 la produzione Northern Monk è aumentata dal 750%, grazie all’aggiunta di nuovi fermentatori e un bollitore da 11 ettolitri in funzione sei giorni su sette: è già operativo un piano di espansione che prevede la messa in funzione di un nuovo impianto da 35 ettolitri ed altri fermentatori da posizionare in un secondo magazzino a pochi metri di distanza dallo splendido edificio in mattoni chiamato The Old Flax Store dove attualmente si trovano birrificio, taproom e spazio eventi. 
Le quattro lattine prodotte regolarmente (Eternal Session IPA,  New World IPA, Mocha Porter, Bombay Dazzler Indian Wit) sono affiancate da altrettante produzioni stagionali (Heathen IPA, Neopolitan Ice Cream Pale Ale, 822™ Double IPA, Strannik™ Russian Imperial Stout) e da varianti sul genere (Double Heathen IPA, Mango Lassi Heathen IPA, Black Forest Strannik Imperial Stout, Festive Star Christmas Mocha Porter). La gamma si completa poi con le molte collaborazioni realizzate sotto il nome di Patrons Project.

La birra.
Il sito internet di Northern Monk la include tra le produzioni stagionali ma sulla lattina viene riportata la scritta “core”, ossia prodotta tutto l’anno. E’ probabile che il suo successo abbia convinto il birrificio a produrla non soltanto nei mesi estivi: ha debuttato nel giugno 2016. Parliamo della Heathen IPA, definita una “Citra India Pale Ale” ma questo luppolo americano è utilizzato solamente in dry-hopping (16 kg utilizzati in tre diversi momenti); in verità nella fase di bollitura vengono anche impiegate piccole quantità di altre varietà non specificate di luppoli inglesi e americani. 
Il risultato non è dichiaratamente New England ma la birra si presenta nel bicchiere di un color oro/arancio piuttosto opalescente; la schiuma biancastra è cremosa e abbastanza compatta, con una buona persistenza. Al naso c’è una bella macedonia tropicale composta dai soliti elementi: pompelmo e arancia, mango e ananas, un po’ di passion fruit. L’intensità è buona,  il bouquet è gradevole ma pulizia e finezza potrebbero essere migliori.  Ottima invece la sensazione palatale, morbidissima, vellutata, a tratti quasi impalpabile, senz’altro memorabile: merito dell’avena. La bevuta è ovviamente dominata dal dolce della frutta tropicale che quasi eclissa la componente maltata (pane): mango e ananas guidano le danze, in sottofondo c’è una ulteriore patina dolce che alla cieca mi farebbe scommettere sull’utilizzo di lattosio che non è tuttavia specificato tra gli ingredienti.  La chiusura amara, resinosa, è di modesta intensità e breve durata, l’alcool (7.2%) è abbastanza ben nascosto e scorrevolezza è piuttosto buona. 
La Heathen di Northern Monk è una IPA che guarda da vicino la tendenza del “juicy” senza tuttavia restarne schiava: il succo di frutta c’è ma è accompagnato anche da un po’ d’amaro. La bevuta è intensa e piuttosto godibile ma non troppo pulita e definita, con ampi margini di miglioramento per quel che riguarda finezza ed eleganza. Anche sul versante della freschezza c’è già qualche segno di cedimento, non credo che la lattina possa arrivare alla data di scadenza indicata di agosto 2018.  
Formato 44 cl., alc. 7.2%, IBU 30, lotto SYD046, scad. 25/08/2018.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 16 gennaio 2018

Põhjala Öö Cassis

Põhjala, birrificio estone attivo dal nel 2011 come beerfirm e  dal 2014 come birrificio, sta ottenendo sempre più successo e il mezzo milione di ettolitri attualmente prodotto sarà presto incrementato dalla messa in funzione del nuovo impianto di Kalamaja, quartiere periferico di Tallinn: un ambizioso piano d’espansione da quattro milioni di euro lanciato dai fondatori Enn Parel e Peter Keek, assieme ad altri soci. 
“Põhjala  no solo IPA”, potremmo dire: sono le birre “scure”, che nel nostro paese non hanno una grande diffusione, ad aver maggiormente contribuito all’affermazione del birrificio guidato in sala cottura da Chris Pilkington ed il suo team di birrai;  il mercato del nord europa, nel quale Põhjala è molto attivo, ama stout e porter, meglio se in versione “imperial” o affinate in botte e,  ça va sans dire, le baltic porter delle quali i paesi affacciati sul mar Baltico ne sono stati la culla. 
Sono quattro le (imperial) baltic porter prodotte da Põhjala e note con il nome di Öö: la versione base (10.5%) l’avevamo assaggiata in questa occasione, all’appello mancano la sua versione invecchiata in botti di Cognac (Öö XO, 13.9%), la più “leggera” Talveöö (9%, con aggiunta di cocco, vaniglia e cardamomo) e la sua variazione al riber nero chiamata Öö Cassis (10.5%): vediamola.

La birra.
La sua ricetta è identica alla Öö base, fatta eccezione per l’aggiunta delle bacche; quindi malti Pale ale, Monaco, Carafa II Special, Special B, Chocolate, Crystal 300 e zucchero  Demerara, luppoli Magnum e  Northern Brewer. All’aspetto si presenta quasi nera e forma un discreto cappello di schiuma cremosa e abbastanza compatta, dalla buona persistenza. 
Il naso è dolce e, sebbene pulizia ed eleganza non siano le sue caratteristiche principali, regala comunque un gradevole bouquet composto da pane nero, ribes nero, pane tostato, prugna e uvetta. Al palato è morbida e leggermente viscosa: poche bollicine e corpo tra il medio ed il pieno avvolgono il palato senza ricoprirlo di quella guaina catramosa che spesso caratterizza la produzioni del nord Europa. Il primo sorso è davvero soddisfacente: una baltic porter “on steroids” nella quale al dolce quasi sciropposo di ribes, prugna, uvetta, caramello e melassa, cerca di contrapporsi un finale leggermente amaro di pane tostato e ricordi di caffè. Sottolineo il primo sorso perché è quello di cui conservo il miglior ricordo: continuando la bevuta, la componente dolce sciropposa tende inevitabilmente a saturare il palato sino al (mio) punto di non ritorno.  Non è una birra fatta male, ma deve piacervi (e molto) il dolce: l’alcool riscalda in maniera educata e cerca, per quanto può, di mitigarlo e “asciugarlo”. E la bevuta non sarebbe neppure troppo difficile se paragonata alla gradazione alcolica (10.5%) ma il sorseggiare è inevitabilmente rallentato dal dolce. Finezza e pulizia non sono certo le sue caratteristiche principali, il risultato è una baltic porter molto ricca ma grossolana, per me da prendere in piccole dosi. O almeno affiancateci una tavoletta di cioccolato fondente e soddisfate il vostro fabbisogno calorico quotidiano.
Formato 33 cl., alc. 10.5%, IBU 60, lotto 357, scad. 13/12/2017, prezzo indicativo 4.00-5.00 Euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 15 gennaio 2018

Brew Age Alpha Tier New England IPA

Ritorna sul blog Brew Age, beerfirm austriaca che avevamo incontrato qualche tempo da con due birre non molto convincenti ma probabilmente penalizzate dall’assenza di freschezza. 
La craft beer revolution si sta espandendo in Austria e alcuni birrifici cercano già di stare al passo con le tendenze internazionali: quella attualmente più in voga è ovviamente quella delle New England IPA. Un sottostile molto discusso la cui realizzazione non è così semplice e i risultati possono essere disastrosi, soprattutto per chi le beve.  Brew Age, i cui uffici di Vienna in Mittelgasse 4 dispongono anche di un piccolo beershop nel quale potete acquistare a buoni prezzi le bottiglie, ha deciso di correre il rischio. La beerfirm fondata  da Johannes Kugler (birraio),  Michael  e Thomas Mauer (commerciali) e Raphael Schröer (amministrazione) si cimenta con il “juicy” per la prima volta nel giugno del 2017, quando realizza la Juicebumps assieme al birrificio Bierol. Non so se si tratti in assoluto della prima NEIPA austriaca, ma a quanto leggo la birra ottiene un buon successo e va subito esaurita: ciò basta a convincere Brew Age, poche settimane dopo, a propone la propria NEIPA, credo realizzata come al solito sugli impianti  del birrificio Gusswerk. L’Alpha Tier, questo il nome scelto, debutta in fusto  a fine giugno all'Home Café di Vienna, locale che ora mostra nel proprio logo lo stesso animale dell'etichetta della birra, ed è seguita a breve distanza dalle bottiglie.

La birra.
Malti Pilsner, Vienna e Monaco, avena, luppoli Amarillo, Centennial, Citra, Mosaic. Il protocollo NEIPA viene perfettamente rispettato per quel che riguarda l’aspetto: arancio opalescente, schiuma biancastra abbastanza compatta e dalla buona persistenza. L’aroma non è l’esplosione tropicale che spesso caratterizza le Juicy IPA ma c’è comunque quel dolce cocktail di frutta che vi dev’essere: nello specifico abbiamo arancio, pompelmo, mango e ananas. C’è pulizia, c’è ancora freschezza e l’aroma è gradevole anche se non incolla le narici al bicchiere. 
Lo stesso si può dire del gusto, che lo ricalca quasi fedelmente: è una NEIPA che si beve bene, senza picchi ma anche senza quelle spigolature che a volte danno un po’ fastidio. Il dolce di mango e ananas guida le danze, fa capolino un po’ di pompelmo, l’amaro resinoso finale è delicatissimo e di breve durata, quasi inavvertibile: l’alcool (5.6%) non è pervenuto. La sensazione palatale è morbida, gradevole e non particolarmente ingombrante: la scorrevolezza ne trae giovamento, la pressoché assenza d’amaro la rende quasi levigata e priva di qualsiasi “effetto pellet”. Il risultato è senz’altro positivo: è una NEIPA succosa, pulita ed educata, ma un po’ ingessata e che procede con il freno a mano un po' tirato. Una caratteristica tuttavia che ritrovo anche in molte IPA (senza scomodare il juicy) realizzate da birrifici tedeschi o austriaci: non ci sono estremismi, non ci sono spunti espressivi o emotivi, tutto è un po’ ovattato ma nel complesso gradevole. 
Anche in assenza di fuochi artificiali si può quindi bere con gusto: a voi scegliere se adagiarvi in questa sicurezza o se ricercare itinerari più arditi, anche a costo d’affrontare qualche asperità.
Formato: 33 cl., alc. 5.6%, IBU 45, lotto 73017050, scad. 24/08/2018, prezzo indicativo 2.80 Euro (beershop, Austria)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 14 gennaio 2018

Pipeworks Coffee Break Abduction Imperial Stout

Abduction, "rapimento": questo  il nome di una serie di imperial stout  che ha contribuito al successo del birrificio Pipework, Chicago: qui la sua storia.  Il rapimento avviene ad opera di alieni e ogni etichetta ne rappresenta diverse scene: l'imperial stout viene realizzata da Beejay Oslon e Gerrit Lewis quando ancora erano homebrewers ma le loro birre ottenevano già grossi consensi tra gli appassionati di Chicago.  
Si tratta di un'imperial stout prodotta con scorze d'arancia che è stata poi riproposta nel corso degli anni nelle solite molteplici varianti per la gioia dei beergeeks e di chi è sempre in cerca della novità. Tra fusti e bottiglie ne sono state realizzate ad oggi una dozzina di diverse versioni; all'appello mancano quelle "barrel aged", visto che Pipeworks ha iniziato ad accumulare e ad usare le botti solamente da poco tempo. Qualche fusto è già circolato nei bar di Chicago, le bottiglie non dovrebbero tardare ad arrivare.
Ecco le diverse Abduction realizzate sino ad ora in una rapida carrellata: Raspberry Truffle Abduction (con lamponi, vaniglia e cacao), Coffee Break Abduction (caffè e vaniglia), Cherry Truffle Abduction (ciliegia, vaniglia e cacao), Mocha Abduction (caffè, vaniglia e cacao), Orange Truffle Abduction (scorza d'arancia e cacao), Pistachio Abduction (pistacchi, vaniglia, cacao e sale), Vanilla Abduction (vaniglia e cacao), Mint Truffle Abduction (vaniglia, cacao e foglie di menta), Cinnamon Abduction (cannella, cacao e vaniglia), Passion Abduction (frutto della passione, cacao e vaniglia), Coconut Almond Abduction (cocco tostato, mandorle, cacao e vaniglia). A voi scegliere la combinazione d'ingredienti che più vi gusta.

La birra.
Arriva nel 2013, ad un'anno dall'apertura del birrificio, la variante Coffee Break della Abduction; alla base imperial stout vengono aggiunti vaniglia e caffè prodotto dalla Dark Matter di Chicago che si trova a qualche chilometro di distanza dal birrificio. 
Il suo colore è prossimo al nero ma nel bicchiere non si forma praticamente schiuma: questa bottiglia dovrebbe essere del 2016 e l'anno che è trascorso non è certo il massimo per apprezzare il caffè. L'aroma tuttavia mostra ancora una buona intensità, anche se eleganza e finezza non sono le sue caratteristiche principali. C'è il caffè "americano" affiancato da dolci note ci vaniglia e caramello, in secondo piano orzo tostato, cuoio, alcool. L'aroma non è esattamente quello di una birra dessert e anche il mouthfeel non indulge in eccessi particolarmente cremosi: corpo medio, bollicine contenute, una leggera oleosità a garantire una buona scorrevolezza. Il gusto segue con rigore l'aroma, mostrandone gli stessi limiti per quel che riguarda pulizia ed eleganza. Nel complesso è un'imperial stout godibile che non scivola nel baratro del pastry (birra dessert) ma che non regala particolari emozioni o spunti d'eccellenza: la bevuta è prevalentemente dolce con caramello e vaniglia guidare le danze, affiancate da qualche note di cioccolato al latte. A bilanciare arriva l'amaro del caffè e del tostato, che non reclama un ruolo da protagonista, e nel finale emerge finalmente una rinfrancante nota etilica che riscalda e si porta dietro un po' di frutta sotto spirito. 
Il bilancio è positivo ma  ci sono ampi margini di miglioramento in questa imperial stout che si lascia bere con facilità ma dimenticare quasi con altrettanta disinvoltura; una bevuta gradevole che tuttavia lascia un po' per strada pulizia ed eleganza, sopratutto per quel che riguarda l'ingrediente che dovrebbe maggiormente caratterizzarla, il caffè.
Formato: 65 cl., alc. 10.5%, lotto e scadenza non riportati, prezzo indicativo 15.00 Euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 12 gennaio 2018

Whiplash Body Riddle

Da Kildare, venti chilometri ad ovest di Dublino, arriva la giovane beerfirm  Whiplash. A fondarla sono Alex Lawes e Alan Wolfe, entrambi fuoriusciti dalla Rye River Brewing Company, uno dei più grandi birrifici indipendenti irlandesi.  Lawes, un homebrewer,  vi arriva nel 2014 come assistente birrario: la sua permanenza doveva durare solamente un anno, tempo necessario per “imparare” il mestiere e mettersi poi in proprio. L’apprendimento passa anche dall’osservazione dell’attività di Alan Wolfe, attivo nella parte commerciale. 
Nel 2015 la Rye River si trova tuttavia improvvisamente senza birraio e, dopo alcuni infruttuosi colloqui, Wolfe offre a Lawes il ruolo di head brewer. Colui che era diventato ormai un amico e compagno di frequentazioni di festival birrari inizialmente rifiuta, per poi farsi convincere dalle sue promesse: “scegli tu le materie prime, riparti da zero, modifica le ricette esistenti, creane nuove, smetti di fare le birre che non ti piacciono, divertiti”.
A Lewes viene anche concesso di iniziare a produrre sugli stessi impianti le birre della sua nuova beerfirm, inizialmente chiamata White Label, non fosse che il nome era già utilizzato da un'altra azienda operante nel settore beverage; onde evitare problemi legali, decide di modificarlo in Whiplash e chiede a  Wolfe di aiutarlo nella parte commerciale. L’amico accetta, mettendo però in chiaro che lo farà nel tempo libero dai suoi impegni con la Rye River. 
Dopo due anni la Rye River arriva a produrre 2,3 milioni di litri all’anno al ritmo di 6-8 cotte al giorni su di un impianto da 2500 litri: Lawes vuole però concentrarsi sul suo progetto e, alla fine dello scorso dicembre, lui e Wolfe hanno lasciato la Rye per dedicarsi completamente alla Whiplash. La beerfirm aveva debuttato nell’aprile 2016 con due birre: la Scaldy Porter, una delle birre avevano ottenuto il maggior successo tra gli amici di Lewes quando ancora la produceva in casa, e la Double IPA Surrender to the Void. Oggi il portfolio ne annovera quasi una ventina.

La birra.
Body Riddle è secondo le intenzioni di Whiplash un’American Pale Ale moderna prodotta con malti Pale, Carapils e frumento maltato; la luppolatura include  Lemondrop, Galaxy, Simcoe e  Ekuanot, l’etichetta è opera della grafica Sophie De Vere. La sua presentazione avviene a giugno 2017 nel corso di un tap takeover alla Taphouse Ranelagh di Dublino.  
Il suo colore è un dorato piuttosto pallido e alquanto velato, la schiuma biancastra non è particolarmente generosa ed ha una discreta persistenza. L’aroma non è intenso ma c’è una buona pulizia che permette di apprezzare i profumi di arancia e pompelmo con qualche nota tropicale in sottofondo: mango, ananas e passion fruit sono i soliti imputati.  E’ un’American Pale Ale che si trova sulla soglia della sessionabilità (4.5%) e la sensazione palatale le permette di scorrere senza intoppi. Corpo medio, delicate bollicine, dal punto di vista tattile potrebbe essere forse ancora più leggera: al palato non c’è molta personalità ma è comunque una birra che fa il suo dovere, ossia dissetare e rinfrescare piacevolmente, senza richiedere grosse attenzioni. Il dolce della pesca e della polpa d’arancia guidano i passi iniziali di una bevuta che poi vira verso la scorza degli agrumi, chiudendo con un finale secco e delicatamente amaro tra lo zesty e il terroso.  Non posso dire se si tratti dello stesso lotto prodotto a giugno 2017 ma indubbiamente la fragranza del contenuto di questa lattina potrebbe essere migliore e questo va un po’ a penalizzare quella che sarebbe una APA onesta e semplice, dalla buona intensità, che non provoca grossi sussulti ma che si beve con piacere.
Formato: 33 cl., alc. 4.5%, IBU 26, lotto 17250, scad, 07/09/2018, prezzo indicativo 4.00-4.50 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 11 gennaio 2018

Birra del Carrobiolo O.G. 1111 (2014)

Non l’ho inclusa tra le birre natalizie bevute nelle scorse settimane ma il suo posto poteva tranquillamente essere lì: parliamo della O.G. 1111, birra invernale o “winter warmer” prodotta dal birrificio del Carrobiolo, già ospitato sul blog in più di una occasione. Questa stessa birra il cui nome, lo ricordo, altro non è che l’indicazione della Original Gravity (ovvero la quantità di zuccheri presenti all'inizio della fermentazione misurata con il densimetro), era già apparsa sul blog nel 2013: rispetto a quell'edizione l'etichetta ha subito un leggero re-styling e mette ora in evidenza il fuoco, quello di un caminetto, ideale luogo dove potersi bere questa birra dalla importante gradazione alcolica (13%). 
Ricordo brevemente che il microbirrificio, fondato nel 2008 da alcuni soci tra cui il birraio Pietro Fontana all'interno delle "mura" del convento dei Padri Bernabiti di Piazza Carrobiolo, ha spostato nel 2014 la produzione nel brewpub con cucina della vicina Piazza Indipendenza a Monza; la sede storica è ora dedicata solo alla vendita d'asporto delle bottiglie. Ad aiutare Fontana in sala cottura nel 2013 è arrivato Matteo Bonfanti, laurea in Scienze e Tecnologie Alimentari, tirocinio in Scozia presso BrewDog e poi esperienza in Svizzera presso Birrificio Ticinese.

La birra.
La O.G. 1111 del Carrobiolo è una birra invernale, da "divano" o da invecchiamento, ma non è una birra affatto facile, meglio mettere la cose in chiaro da subito. L'aspetto non è certamente il suo punto di forza: un ambrato carico torbido sulla cui superficie si formano delle grossolane bolle biancastre che si dissolvono rapidamente. 
Il malto torbato caratterizza subito l'aroma, affiancato da note di carne e caramello, datteri e uvetta, alcool, qualche ricordo di vino fortificato. La sua consistenza è leggermente oleosa, di quel tanto necessario per costruire un mouthfeel appropriato a sorreggere l'alcool: il corpo è quasi pieno, le bollicine sono molto poche.  Il birrificio un tempo la definiva come un ipotetico incontro tra whisky torbato e barolo chinato e il gusto mantiene le promesse: caramello, qualche nota biscottata, tanta frutta sotto spirito (uvetta e datteri) e ricordi di vini fortificati costruiscono una bevuta sostenuta da una potente nota etilica che obbliga ad un lento ma soddisfacente sorseggiare ma che contribuisce in maniera decisiva ad asciugare la dolcezza. Il cerchio si chiude con il ritorno del torbato, sebbene in quantità minore rispetto all'aroma.
A tre anni dalla messa in bottiglia questa OG 1111 è ancora potente e non mostra segni d'ossidazione: non è una birra per palati inesperti ma per chi non ha fretta di "studiarsela" o vuole godersela senza guardare le lancette dell'orologio, perché la sua bevibilità è giocoforza piuttosto limitata. Non è un mostro di complessità o profondità ma è comunque capace di regalare gran belle soddisfazioni e sembra poter affrontare ancora altro tempo in cantina. 
Formato: 37.5 cl, alc. 13%, IBU 75, lotto 1438, scadenza non riportata, prezzo indicativo 8.00-10.00 Euro. 

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

Wylam Remember 430 & Wylam 45:33

Altro debutto sul blog, anche questo dal Regno Unito: Wylam Brewery, microbirrificio attivo dal 2000 che nasce nel piccolo e omonimo villaggio del Northumberland inglese, ai confini con la Scozia. A fondarlo furono John Boyle e Robin Leighton, quest’ultimo un ex ufficiale di marina mercantile in pensione ed esperto homebrewers: le qualità delle sue produzioni casalinghe impressionarono Boyle, appassionato di Real Ale, al punto da spronare l’amico a tentare l’avventura tra i professionisti. La loro prima birra, la bitter Landlord’s Choice, ottenne un successo tale da costringerli a trasferirsi in breve tempo dal proprio garage ai locali presi in affitto all’interno delle South Houghton Farm a Heddon on the Wall, Wylam, dove viene installato un impianto da cinque ettolitri, che nel giro di tre anni satura la propria capacità.
Nel 2005 Leighton all’età di 63 anni muore improvvisamente a causa di un infarto e, sebbene le sue figlie decidano di rimanere in società, Boyle si trova a dover gestire il birrificio da solo: ad aiutarlo arriva il figlio Matt che, dopo alcuni tentennamenti, accetta di rientrare dalla Spagna per lavorare a fianco del padre e poi prendere il comando delle operazioni, al suo pensionamento. Il birrificio trasloca in locali più ampi nella periferia di Wylam, l’impianto viene ingrandito per permettere alla produzione di triplicare e raggiungere i 30 ettolitri l’anno.
Ma la vera svolta per Wylam avviene nel 2010 quando entrano in società Dave Stone e Rob Cameron: i due provengono dal mondo della musica, avendo organizzato per 25 anni concerti, DJ-set ed eventi a Londra, Brighton e nel nord-est dell’Inghilterra. Arrivati a cinquant’anni i due vogliono abbandonare la vita notturna per dedicare più tempo alle proprie famiglie: fondano la società Greenan Blueaye e lanciano due gastropub a Newcastle, il Town Wall e la Bridge Tavern, iniziando a collaborare con il birrificio Wylam che li rifornisce di birre. Nel 2015 la collaborazione si trasforma in una vera e propria partnership nella quale la Greenan Blueaye investe 750.000 sterline, quota di un ambizioso piano di espansione da quasi 2 milioni che si concretizza nella ristrutturazione del Palace of Arts dell’Exhibition Park di Newcastle, ultimo edificio superstite della la North East Coast Exhibition del 1929. La palazzina, che giaceva da dieci anni in uno stato di desolante abbandono, viene acquistata da Freddy e Bruce Shepherd, ex presidenti del Newcastle United Football Club, che entrano in società assieme a Wylan e Greenan Blueaye. La ristrutturazione include l’installazione di un nuovo impianto da 35 ettolitri, la costruzione di taproom con 12 spine e 6 casks, bar, beer-garden, ristorante ed un spazio per organizzare eventi, matrimoni, concerti e serate, attività nelle quali Stone e Cameron sono esperti. Il vecchio birrificio a Heddon continua ad essere utilizzato come magazzino e come impianto pilota.
Il nuovo corso Wylam, inaugurato a maggio 2016, coinvolge anche il portfolio birrario che viene rinnovato e ampliato; arrivano le lattine, che vengono ovviamente riempite con quel liquido opalescente amato dai beergeeks chiamato New England IPA.
 
Le birre.
Partiamo da un’American Pale Ale che ci riporta indietro nel tempo al Twin Peaks di David Lynch, conclusosi con la frase: ricorda 430. Richard e Linda. Due piccioni, una fava. L’etichetta ripropone, sebbene in colori diversi, il pattern grafico del pavimento della Loggia Nera. Avena, frumento e destrine hanno il compito di renderla opalescente e di donarle un mouthfeel “cremoso”, mentre il doppio dry-hopping di Citra e Mosaic quello di renderla “juicy”.
All’aspetto è di colore arancio pallido opalescente e forma un cappello di schiuma biancastra cremosa ma un po’ scomposta, dalla buona persistenza. Il naso, fresco, pulito e discretamente elegante, offre una macedonia di agrumi (arancia, mandarino e pompelmo), pesca e frutti tropicale (ananas, mango). Al palato è leggera, scorrevole e, nonostante l’uso di avena non noto un mouthfeel particolarmente ”cremoso”  o “chewy” come vorrebbe il “protocollo New England IPA”. La bevuta è piuttosto intensa ma il succo di frutta non è del tutto convincente e mostra qualche spigolosità che andrebbe limata: ci sono soprattutto agrumi, con un sottofondo dolce appena accennato di mango e ananas. L’asprezza degli agrumi la rende molto secca ma anche un po’ ruvida, l’amaro zesty ed erbaceo è abbastanza intenso ma dall’eleganza piuttosto discutibile, per non arrivando a “raschiare” il palato. Pulita e gradevole, si beve con qualche pausa di troppo e non è un complimento per una birra dal contenuto alcolico del 5.5%: godibile ma con margini di miglioramento che possano aumentarne la fruibilità.
Dal cinema passiamo alla musica con la Double IPA chiamata 45:33: i numeri sono quelli dell’omonimo disco degli LCD Soundsytem; un’unica traccia, della durata di 45 minuti e 33 secondi, commissionata dalla Nike nel 2006 al gruppo statunitense come “colonna sonora” per la corsa. La strobosfera in etichetta è un altro riferimento al gruppo guidato da James Murphy. Il birrificio la descrive come una “multispeed Double IPA prodotta con dosi psichedeliche di luppolina Cryo: Amarillo, Citra e Chinook”. Anche lei è ovviamente opalescente e il suo color arancio pallido è sormontato da un piccolo cappello di schiuma biancastra che svanisce piuttosto rapidamente. Il naso è fresco e dolce, ricco di mango e pesca, ananas, frutto della passione; in secondo piano un lieve “dank”, poi arancia e pompelmo. A voler essere precisi anche in questo il mouthfeel non è così cremoso come ci si aspetterebbe da una NEIPA, ma non è un grosso problema: il gusto segue l’aroma con buona corrispondenza anche se con intensità leggermente inferiore. Si avverte un timida presenza maltata (crackers) ma è la dolce frutta tropicale a guadagnarsi subito il palcoscenico; l’amaro, resinoso e pungente, è di buona intensità e di breve durata, chiudendo la bevuta con eleganza. L’alcool apporta senza eccedere un discreto tepore giusto per avvertire che nel bicchiere c’è una Double IPA pericolosa, la cui facilità di bevuta non è tuttavia elevatissima: anziché berla, si sorseggia con discreta frequenza. Pulita e fresca, abbastanza elegante, la 45:33 di Wylan ha ancora qualche spigolo da smussare ma non le manca molto per raggiungere gli altri birrifici inglesi che stanno cavalcando l’onda del “juicy”: non solo l’hype di Cloudwater ma anche Northern Monk, Verdant, Deya.
 Nel dettaglio:
Remember 430, formato 44 cl., alc. 5.5%, scad. 25/04/2018, prezzo indicativo 7.00 euro (beershop)
45:33 Double IPA, formato 44 cl., alc. 8.4%, scad. 30/05/2018, prezzo indicativo 8.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.