domenica 31 dicembre 2017

Warpigs Ominous Drip

Il 2017 è giunto agli sgoccioli e per salutarlo ci vuole una grande birra che faccia serata da sola: grande nel formato e nella gradazione alcolica, la imperial stout Ominous Drip di Warpigs sembrerebbe avere il potenziale per l'occasione.
Warpigs è un brewpub a Copenhagen nato dall'unione delle forze di Mikkeller e Three Floyds, birrificio dell'Indiana (USA): l'avevamo incontrato qualche mese fa.  Inaugurato ad aprile 2015, l'impianto BrauKon da 10 ettolitri con potenziale annuo da 250.000 litri è stato guidato sino allo scorso settembre da Kyle Wolak, birraio americano "prestato" dai Three Floyds. Wolak è rientrato negli Stati Uniti per andare a lavorare presso Hill Farmstead, in Vermont, e head brewer è stata nominata la birraia Lan-Xin Foo, sua assistente sin dall'apertura e, in precedenza, operativa sugli impianti pilota dove Mikkeller testa le proprie ricette prima di produrle su grande scala. 
Nel frattempo Warpigs ha anche debuttato nel continente americano, con le ricette danesi che vengono realizzate sugli impianti della Great Central Brewing  (Chicago) e della Wisconsin Brewing: è da anni che si vocifera sull'apertura di un brewpub a Chicago da parte di Three Floyds, chissà che l'idea non venga invece realizzata con il marchio Warpigs.

La birra.
Omnious Drip è una massiccia imperial stout (11.4%) che viene commercializzata per la prima volta all'inizio del 2017; la sua ricetta, tra altri ingredienti non specificati, prevede avena, zucchero di canna e zucchero candito belga.
Nel bicchiere si presenta completamente nera con un piccolo ma cremoso e compatto cappello di schiuma color nocciola, dalla buona persistenza. L'aroma è intenso e opulente, un dessert nel quale abbondano zucchero candito, melassa, fruit cake, caffè e cioccolato: l'eleganza non è la sua caratteristica principale ma si fa perdonare per la sua ricchezza, enfatizzata da una netta nota alcolica con non intende nascondersi. Il corpo è quasi pieno, l'avena le dona una morbidezza palatale cremosa che non sconfina in quel denso "petrolio" tipico di molte imperial stout scandinave. Il gusto riprende la ricchezza e la dolcezza dell'aroma, riproponendo melassa, fruit cake, frutta sotto spirito, cioccolato: l'alcool riscalda con vigore ogni sorso, obbligando ad un lento ma piacevole sorseggiare e contribuisce a bilanciare la dolcezza, asciugandola. Il finale amaro è corto e caratterizzato più della noti pungenti del luppolo che dalle tostature e dal caffè, nel retrogusto c'è anche una punta di carne affumicata. 
Imperial stout esuberante ed esagerata, un botto di fine anno: tutto molto bene, l'amaro finale un po' sgraziato le fa perdere qualche punto ma è una birra capace di fare serata, da gustarsi senza fretta, prendendosi tutto il tempo necessario: la bottiglia da 75 può soddisfare tranquillamente 3-4 persone, a piccole dosi. Qualche altro mese di cantina le avrebbe probabilmente giovato, ma anche così è una bevuta che soddisfa e appaga.
Formato 75 cl., alc. 11.4%, scad. 14/12/2021, prezzo indicativo 18.00-20.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 30 dicembre 2017

Cloudwater Brew Co.: Saison Tettnanger & Sour Mormora

Il birrificio di Manchester Cloudwater (qui la sua storia) è attualmente in testa alle classifiche del beer-geekismo inglese ed europeo sopratutto grazie alle proprie IPA e Double IPA, la maggior parte delle quali ha ovviamente sposato la filosofia del New England/ Juicy. Tutto bene, o quasi, quando si tratta di lavorare il luppolo, ma tutto il resto? Vediamo oggi il birrificio guidato da Paul Jones e James Campbell alle prese con una Saison e una Sour Ale. 
La prova con la tradizione belga, una delle più difficili d'affrontare, è una Saison prodotta con ben otto varietà di cereali (malto Pilsner e Smoked, farro, segale, frumento, cena, malto di segale Red Crystal), luppoli Tettnanger e Nelson Sauvin in aroma, estratto di luppolo Pilgrim in Co2 per l'amaro e tre ceppi di lievito: WLSP644, WLP585, WLP565. Tanta carne al fuoco alla quale si aggiunge il succo di chuckleberry, una sorta di mirtillo nero.
All'aspetto è di colore arancio pallido, velato, e forma un bel cappello di schiuma cremosa e abbastanza compatta. L'aroma è piuttosto fenolico con bubblegum, coriandolo, qualche lieve accenno di plastica bruciata; ma ci sono anche pera e limone, arancia, note rustiche che richiamano la paglia e l'erba. Il gusto purtroppo non è altrettanto intenso e variegato come l'aroma: base biscottata, un dolce sciropposo non ben definito (chuckleberry?), pera e qualche scivolone acquoso che non dovrebbe esserci. Nel finale un po' d'astringenza e un nuovo accenno di plastica bruciata accompagnano l'amaro terroso. E' una Saison non troppo secca, che lascia sempre un lieve residuo zuccherino al palato: bene invece la sensazione palatale, ottima scorrevolezza e un'elevata carburazione a renderla vivace. Bevuta solo discreta, incompiuta, con diverse imprecisioni che scaturiscono forse/anche dall'aver messo tanta carne sul fuoco: il rischio di bruciarla aumenta e il Belgio, quello vero, è ancora molto lontano.

Le cose peggiorano drasticamente stappando la lattina di Mormora Sour che Cloudwater ha realizzato assieme alla torrefazione Square Mile di Londra. Si tratta di una Sour Ale fermentata però con lievito WLP095 (Burlington Ale) e prodotta con malto Golden Promise, frumento maltato e il solito estratto di luppolo Pilgrim in Co2 per l'amaro che Cloudwater sembra utilizzare in ogni sua birra. Due varietà di caffè Mormora (Etiopia) sono poi stati utilizzate sia durante la fase di bollitura che a freddo. Il suo colore è un dorato antico che sorprende per l'assoluta limpidezza. Il naso è completamente dominato dal caffè con un risultato davvero elegante e raffinato, pulitissimo: chiudete gli occhi e giurerete d'avere davanti a voi un sacchetto aperto di chicchi di caffè. Fin qui tutto bene, ma al primo sorso di Mormora Sour le domande nascono spontanee: che cos'è? Che cos'hanno voluto fare? Il problema di questa birra è che il gusto replica l'aroma, quindi solo acqua e caffè. Non c'è assolutamente altro, se non una lieve asprezza (insapore) a giustificare la parola "sour". Il caffè è anche qui netto, molto ben definito e pulitissimo, ma il risultato finale è quello di bere un bicchiere d'acqua nel quale sono stati messi in infusione dei chicchi di caffè. Già a priori l'accoppiamento sour-caffè non mi sembrava particolarmente intrigante ma, pur cercando di bere questa Mormora Sour con la massima apertura mentale possibile, ammetto di non averla  proprio capita. Per me è una birra priva di senso che non sarebbe neppure dovuta uscire dal birrificio: benissimo l'espressività del caffè, peccato manchi la birra.
Nel dettaglio: 
Saison Tettnanger, 44 cl., alc 6.5%, imbott. 08/09/2017, scad. 02/2018.
Sour Mormora, 44 cl., alc. 5.3%, imbot. 07/09/2017, scad. 03/2018.


NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 28 dicembre 2017

Dry & Bitter As Seen On TV


Tra i protagonisti dell'anno che sta per concludersi mi sembra doveroso includere anche il birrificio danese Dry & Bitter, che continua a sfornare birre di ottima qualità e che arrivano in Italia piuttosto fresche.  
La sua storia, abbastanza contorta, l'avevo cercata di ricostruire qui: alla guida ci sono Søren Wagner e Jay Pollard, proprietari anche del noto beer bar di Copenhagen chiamato Fermentoren,  24 spine tutte dedicate al craft e una succursale aperta di recente ad Aarhus. Nel 2015 i due soci rilevano anche il birrificio Ølkollektivet che produce per moltissime beer firm danesi e lo utilizzano, oltre che per realizzare le birre destinate al Fermentoren, anche per lanciare il loro marchio Dry & Bitter. Da notare che Wagner possiede già un'altra beefirm, Croocked Moon.
Dopo un avvio scoppiettante, con cinquanta diverse birre realizzate in poco più di un anno di vita, i ragazzi di Copenhagen hanno rallentato leggermente il ritmo e oggi ne annoverano un'ottantina, con IPA e dintorni sempre a farla da padrone. Tra le loro birre di maggior successo vi è infatti la serie delle Bale Ale, cinque diverse single-hop Session IPA; di questo sotto stile fanno anche parte la Myrcia Dreams, realizzata inizialmente assieme agli inglesi di Buxton e la collaborazione con Cloudwater chiamata Draining The Swamp.
Non bastassero, a luglio 2017 Dry & Bitter ha presentato al Fermentoren i primi fusti di As Seen on TV, Session IPA che promette grazie all'utilizzo di avena e frumento, un corpo molto più sostenuto di quello che vi aspettereste. Non sono stati precisati gli altri ingredienti.

La birra.
Nel bicchiere è di un bel arancio pallido, velato e sormontato da una cremosa e compatta schiuma biancastra, molto persistente. Il naso è fresco e presenta un bel cesto di frutta composto sopratutto da cedro e pompelmo che relegano in sottofondo pesca, ananas e mango. Bene pulizia e intensità, l'ampiezza dello spettro aromatico è buona ma potrebbe essere migliore. Il mouthfeel è effettivamente sorprendente, considerando che si parla di una session beer (4.2%): corpo medio, consistenza cremosa e morbida, leggermente chewy. La gratificazione edonistica è garantita, ne viene un po' penalizzata la velocità di bevuta: è una birra facile ma che gioco forza si sorseggia (ad alta frequenza) anziché tracannare. Il gusto è di una intensità impressionante, quello che vorresti sempre trovare in birre dalla bassa gradazione alcolica. E' una Session IPA molto fruttata ma che non sconfina nel territorio del juicy, benché ne voglia riproporre la sensazione palatale: il dolce sottofondo di mango, ananas e pesca supporta un amaro elegante e di buona intensità caratterizzato da resina e un po' di pompelmo, protagonisti anche di un finale piuttosto lungo. 
Ottima pulizia e  grande secchezza in una birra che regala intensità di profumi e sapori, accompagnandoli con poco alcool: tutto quello che ci dev'essere in una "session". Livello alto, birra molto ben riuscita, avesse anche un prezzo "sessionabile" sarebbe perfetta. 
Formato: 33 cl., alc. 4.2%, imbott. 10/11/2017, scad. 10/05/2018, prezzo indicativo 4.50-5.00 euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.


mercoledì 27 dicembre 2017

Birrificio del Vulture West Cost

Sono circa una dozzina, tra birrifici e beerfirm, i protagonisti della scena brassicola lucana, una delle più piccole e giovani della nostra penisola. Tra queste vi è il Birrificio del Vulture, operativo dal 2015 a  Rionero in Vulture (Potenza). Alla guida Ersilia D'Amico e Donatello Pietragalla, homebrewers che dal 2009 hanno affrontato tutte le tappe (birra da kit, all grain, corsi e periodi di pratica presso altri birrifici) prima di entrare nel mondo dei professionisti. 
In una terra - come molte altre regioni italiane - a vocazioni vinicole, madre dell'Aglianico, è stato posizionato un impianto da 2,5 ettolitri che grazie a numerosi fermentatori produce all'incirca 150 ettolitri l'anno. Il birrificio dispone anche di una piccola taproom con tre spine e un punto vendita per l'asporto.  
Cinque sono le birre prodotte regolarmente tutto l'anno (la golden ale Rocco 'n' Rool, la weizen Bramea, la IPA West Cost, la blanche Bianchina e la stout Gnostr) affiancate da alcune produzioni stagionali come ad esempio la harvest IPA Gaddina Young, l'imperial stout So' biologa, la birra alle castagne Druda. 

La birra. 
Nasce a novembre 2015 la prima IPA del birrificio Del Vulture che rappresenta anche il debutto del formato 33 centilitri. L'etichetta, realizzata da Francesco Moretti della Basthard Design, raffigura l'orologio della Orologio della Costa di Rionero in Vulture; ma la West Co(a)st, ovvero l'Oregon, è anche la regione di provenienza del luppolo utilizzato per produrla, in questo caso il Cascade. 
Niente da dire sul gioco di parole, ma per qualsiasi appassionato di birra leggere sull'etichetta di una American Ipa la frase "West Cost" genera delle aspettative che dovrebbero secondo me essere  poi mantenute. L'Oregon è indubbiamente sulla West Coast, ma la patria d'origine delle West Coast IPA è la California: Russian River, Pizza Port, Ballast Point, AleSmith, Green Flash, Alpine. 
E di West Coast, quella vera, in questa bottiglia non ce n'è proprio traccia. A partire dal colore, un ambrato che si discosta nettamente da quel dorato-arancio che anima tutte le IPA dei birrifici sopracitati. Al naso la presenza di luppoli è davvero scarna: l'aroma è dolce, zuccherino, emergono i malti (biscotto e caramello) in modo non particolarmente fragrante  e accompagnati  da una nota etilica. In sottofondo c'è un po' di marmellata d'arancia, ma l'intensità è davvero bassa. Il gusto purtroppo prosegue nella stessa direzione con un ingresso troppo acquoso nel quale cercano di farsi notare caramello e biscotto, incalliti da un amaro resinoso di discreta intensità. Non ci sono off-flavors, ma una IPA da 7.2% dovrebbe avere ben altra intensità; la data di scadenza (ottobre 2018) mi fa pensare ad una produzione piuttosto recente. 
Più che la West Coast (tropicale e pompelmo  -quest'ultimo caratteristica tipica proprio del Cascade - assolutamente non pervenuti) il risultato ricorda alla lontana le IPA della costa ad Est, quella "vecchia" scuola che giocava la sua partita sulla contrapposizione caramello-resina. Ma anche spostandoci geograficamente, quello che c'è in questa bottiglia (sfortunata?) è davvero troppo timido e modesto per risultare accettabile, benché sia bevibile. Spiace sempre parlare "male" di una birra ma in questo caso la strada da fare, sia che si voglia andare a ovest o ad est, sia che si voglia  fare una IPA bilanciata o estrema, è davvero tanta. 
Formato 33 cl., alc. 7.2%, IBU 57, lotto 29/2017, scad. 10/2018, prezzo indicativo 4.00-4.50 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 26 dicembre 2017

Brew By Numbers 10/10 Coffee Porter Imperial - Duromina

Ritroviamo dopo un'assenza di oltre tre anni il birrificio londinese Brew By Numbers, fondato alla fine del 2012 da Tom Hutchings e David Seymour inizialmente nel seminterrato di proprietà di un amico e trasferitosi dopo pochi mesi in quello che oggi viene chiamato il "London Beer Mile". Siamo a Bermondsey, zona ovest, dove nel giro di un chilometro, spesso sotto sotto le arcate della linea ferroviaria, trovate i birrifici Southwark, Anspach & Hobday, The Kernel, Ubrew, Partizan, Spartan, Affinity e Fourpure, i beershop di Eebria e Bermondsey, il locale The Rake.
L'impianto da 14 ettolitri di Brew By Numbers è stato costruito utilizzando tini e altri macchinari di seconda mano provenienti di caseifici o produttori di soft drinks. 
Brew By Numbers, ovvero “brassare per numeri”: tutte le loro birre sono infatti identificate da due serie di numeri. Il primo indica lo stile della birra (ad es. 01 =  Saison, 02 = Golden Ale, etc.); il secondo indica invece la ricetta utilizzata. Nel caso di questa bottiglia il numero 10 corrisponde ad una porter al caffè della quale ne sono state realizzate ad oggi già 11 varianti, ovvero utilizzando una diversa varietà di caffè. Fa eccezione solamente la ricetta 10 | 10 che, oltre ad impiegarne una tipologia inedita, viene anche "imperializzata".

La birra.
10/10 Coffee Porter Imperial Duromina  viene realizzata per il festival Uppers & Downers che si è tenuto a Londra lo scorso settembre proprio nei locali di Brew By Numbers; l'evento è organizzato da Michael Kiser, fondatore del sito Good Beer Hunting e il barista campione del mondo Stephen Morrissey. Il festival, che si tiene da tre anni anche a Chicago, è esclusivamente dedicato alle birre al caffè. All'edizione di Londra oltre a quello ospitante parteciparono i seguenti birrifici; Beavertown, Boundary (Irlanda), Cloudwater, Magic Rock, Nothern Monk e Weird Beard. Ottanta persone, al costo di trentacinque sterline, avevano diritto all'assaggio di tutte le birre, a un bicchiere serigrafato e ad una "swag bag" di Good Beer Hunting.
Imbottigliata il 4 settembre, la proposta di Brew By Numbers utilizza la varietà di caffé etiope chiamata Duromina: ne sono stati utilizzati dieci grammi per ogni litro di birra. All'aspetto è quasi nera, mentre la testa di schiuma che si forma ha una trama molto fine, è cremosa e compatta ed ha un'ottima persistenza. Al naso c'è quello che vorresti sempre trovare in una porter al caffè: l'eleganza e la pulizia dell'ingrediente sono davvero notevoli. L'accompagnano in secondo piano note di tabacco e liquirizia, orzo tostato, frutti di bosco. Anche la sensazione palatale è ottima: corpo medio, carbonazione molto contenuta, consistenza morbida ma non impegnativa, solo leggermente oleosa. A supportare un gusto completamente dominato dal caffè c'è un tappeto dolce e caramellato, mentre in sottofondo di scorgono liquirizia e qualche tostatura. L'acidità di caffè e malti scuri, affiancata da una decisa chiusura luppolata, ripuliscono per qualche attimo il palato prima di un ritorno di sua maestà il caffè nel retrolfatto, accompagnato da una delicata nota etilica. 
Una imperial porter che si sorseggia facilmente e con grande soddisfazione, amara ma non sbilanciata, completamente dominata dal caffè, in lungo e in largo. Pulizia ed eleganza sono a livelli piuttosto elevati, e se - come me - amate le birre al caffè quella di Brew By Numbers vi conquisterà al primo sorso. A chi invece non è della partita, consiglio di stare alla larga.
Formato: 33 cl., alc. 10%, imbott. 04/09/2017, scad. 04/09/2019.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 25 dicembre 2017

De Dolle Stille Nacht 2011

Il Natale 2017 del blog non poteva concludersi che con la birra natalizia per eccellenza, ovvero la Stille Nacht del birrificio belga De Dolle. Non è la prima volta che l'incontriamo e qui trovate la sua storia che ho tentato di ricostruire; di tanto in tanto ne appare anche una rara versione "Reserva" ovvero invecchiata in botti ex vino Bordeaux. 
Ogni volta mi piace sempre ricordare le parole di Lorenzo Dabove, alias Kuaska: "ogni millesimo di questa birra ha un qualcosa di magico ed un percorso diverso, e nonostante tutti gli sforzi dettati dall'esperienza, difficilmente classificabile. Può capitare un'annata che, giovanissima, appaia francamente deludente, facendoci dubitare sul lavoro di De Dolle e che, dopo pochi mesi o qualche anno, si schiude come una bellissima farfalla dalla sua crisalide. E viceversa, Stille Nacht battezzate dagli esperti come capolavori assoluti, che durante la maturazione perdano verve senza confermare le promesse di lunghissima vita e di gemma assoluta". 
Purtroppo - devo dirlo - ogni anno mi tocca annotare un preoccupante aumento di prezzo di quella che un tempo era una birra abbastanza "economica" da mettere in cantina. Sicuramente gli aumenti ci sono stati anche alla fonte, ma non al livello di quei 50 centesimi a bottiglia del mercato italiano: nel 2017 siamo ormai arrivati ai sette euro, prezzi che un tempo si pagavano per vintage d'annata! Da un lato è un bene che ci siano sempre più appassionati a richiedere questa birra, dall'altro si rischia lentamente di replicare quanto accaduto con Cantillon. 
Evito quindi volutamente l'acquisto dell'edizione 2017 ai prezzi italiani e attingo dalla cantina: del resto la Stille è una birra che, al di là del rito di berla fresca d'annata, va fatta invecchiare. Per quest'anno scelgo il millesimo 2011, quindi una bottiglia con sei anni di vita sulle spalle. A chi interessano i confronti, qui trovate una Stille di quattro anni mentre qui (2014 - 5,50 euro) e qui (2016 - 6,50 euro) due neonate.

La birra.
All'aspetto è di un bell'arancio carico con nuances ambrate, mentre il piccolo cappello di schiuma che si forma è abbastanza rapido nel dissolversi. Il suo aroma è una sorta di porta magica che si spalanca e ti travolge con suggestioni di vino liquoroso, passito, albicocca disidratata, arancia candita, datteri, zucchero a velo, marmellata d'arancia, pasticceria varia, soprattutto crostata. Bisogna davvero impegnarsi per scorgere le note negative dell'ossidazione, quel cartone bagnato che è presente in quantità infinitesimale. Le bollicine sono ovviamente poche e la bevuta è morbida e appagante, calda, emozionante: nel bicchiere c'è un vino passito affiancato da una crostata all'albicocca, c'è la marmellata d'arancia, la frutta disidratata, persino il panettone. L'alcool riscalda con con un soffice vigore (l'ossimoro è voluto) ogni sorso, il dolce viene perfettamente bilanciato dall'acidità e da una grande attenuazione. A sei anni di vita la Stille Nacht 2011 è ancora potente e in splendida forma, non mostra grossi segni di cedimento e sembra anzi suggerire di poter continuare la sua evoluzione. Il finale, lunghissimo, è quello di un grande vino liquoroso ma è una bottiglia che, sebbene offra tanto da raccontare, lascia senza parole. 
Più che una birra, nel bicchiere ci sono emozioni: quelle che, in un periodo in cui abbiamo a disposizione una quantità di etichette spropositata rispetto a una decina di anni fa, sono purtroppo sempre più rare.  Stille Nacht 2011 commuovente, senza dubbio alcuno è la miglior bevuta di questo  2017 che volge al termine.
Formato: 33 cl., alc. 12%, lotto 2011, scad. non riportata.

domenica 24 dicembre 2017

Cervisiam Krampus

La quinta birra di Natale 2017 coincide anche con il debutto sul blog della beerfirm norvegese Cervisiam: a fondarla sono tre homebrewers, Pushkin Hama, Shea Martinson e Martin Borander.    Dopo alcuni anni passati a trafficare con le pentole in casa, all'inizio del 2013 installano nel garage di Martin, nella periferia di Oslo, un impianto Braumeister da cento litri. Con il nome di Brewmance partecipano a numerosi concorsi per homebrewer, vincendone alcuni: uno dei premi in palio è la possibilità di produrre una birra su di un impianto professionale e i tre ragazzi realizzano la loro Citrus Lager (aromatizzata con lemon grass e scorza d'arancia) alla Crow Bryggeri di Oslo. I mille litri che vanno esauriti in tre settimane sono la molla che fa scattare in loro la decisione di entrare nel mondo dei professionisti con la beerfirm Cervisiam. Inizialmente si appoggiano al birrificio Ego, cento chilometri a sud di Oslo, per poi spostarsi alla Arendals e alla Amundsen, dove viene tutt'oggi prodotta la maggior parte delle birre. 
Anziché dotarsi d'impianti di proprietà, i Cervisiam hanno preferito concentrarsi su marketing e distribuzione e, sopratutto,  sull'apertura del locale Oculus a Oslo, un pub con venti spine la maggior parte delle quali riservate alle proprie birre e una buona selezione di bottiglie provenienti da tutto il mondo.

La birra.
IPA e Imperial Stout sono gli stili che Cervisiam frequenta maggiormente e quest'ultimo è anche quello scelto per l'offerta natalizia. Due le proposte: la Chocolate Salty Christmas Balls è una imperial stout con aggiunta di lattosio, sale, cannella, sciroppo d'acero e caramello, mentre la  ricetta della Krampus, che andiamo ad assaggiare, prevede aggiunta di lattosio, arancia, vaniglia e cioccolato.
Nel bicchiere non è nera ma poco ci manca, mentre la sua schiuma è molto cremosa, compatta e mostra un'ottima persistenza. Al naso domina invece un caffè che non è elencato tra gli ingredienti, e lo fa in maniera piuttosto elegante evocando i chicchi macinati; al suo fianco polvere di cacao, tabacco e vaniglia, tostature. La sensazione palatale è "festosa": corpo non ingombrante (medio-pieno), poche bollicine, consistenza vellutata, quasi soffice e quindi buona scorrevolezza, anche perché l'alcool (10%) si nasconde fin troppo bene. Vaniglia e caramello danno il via ad un'imperial stout piuttosto dolce che viene poi bilanciata dall'amaro del caffè e del cioccolato fondente, mentre in chiusura emerge anche una nota di tabacco e - sorpresa - di affumicato. Non c'è molta atmosfera natalizia in questa lattina ma la Krampus di Cervisiam è una birra ben fatta che dispensa un'aroma più amaro che dolce per poi ribaltare completamente le proporzioni in bocca: il naso rimane comunque più elegante e pulito del gusto, l'alcool si fa desiderare un po' troppo e arriva a riscaldare, molto debolmente, solo nel retrogusto. 
Formato: 33 cl., alc. 10%, lotto ?, scad. 20/08/2018, prezzo indicativo 6.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 22 dicembre 2017

Extraomnes Kerst 2014

L’unica birra italiana del Natale 2017 sul blog è la Kerst di Extraomnes, una birra che in verità mancava da un po’ di anni: l’avevamo incontrata per la prima volta all’inizio del 2012 con una bottiglia prodotta alla fine del 2010, ovvero un anno di vita.  Quest’anno andiamo un po’ più a ritroso stappando una bottiglia del 2014, che di anni in cantina ne ha ovviamente passati tre. 
“A Natale siamo tutti più buoni”, dicono a Marnate, dove ha sede Extraomnes “e anche la nostra Kerst vorrebbe esserlo, ma non riesce a togliersi di dosso l’istinto naturale a far del male. Attenzione, dunque”. Le prime avvisaglie di una birra “pericolosa” sono rappresentate da quell’iscrizione in fiammingo che compare sul guinzaglio del cirneco dell'Etna: “ik haat BC”, ovvero “odio BC”. Una dedica che Luigi “Schigi” D’Amelio fece a Bruno Carilli del Birrificio Toccalmatto, in un periodo in cui i due non andavano evidentemente molto d’accordo, soprattutto a causa di qualche battibecco su internet.  La pace tra i due birrai fu poi sugellata dalla birra collaborativa Tainted Love che realizzarono qualche mese dopo. 
E’ difficile pensare alla Kerst di Extraomnes senza evocare il fantasma della birra di Natale per eccellenza, ovvero la Stille Nacht prodotta da Kris Herteleer del birrificio De Dolle, una delle muse ispiratrici di Luigi D’Amelio: anche se la gradazione alcolica è differente (10,1% per l’italiana e 12% per la belga) nel bicchiere ci sono molti elementi in comune ed tutte e due possono essere considerate “birre da invecchiamento”. 
Entrambe vengono poi “glorificate” dalle rispettive edizioni barricate o “Reserva”: abbastanza agevole l’acquisto della Kerst, più complicato quello della Stille Nacht che è ufficialmente ancora ferma al millesimo 2010. Per assaggiare altre annate, da bottiglie misteriose o direttamente dalla botte, recatevi in pellegrinaggio ad Esen e implorate la clemenza del “dio” Kris Herteleer.

La birra.
Imbottigliata a marzo del 2014, questa Kerst di Extraomnes colora il bicchiere di un arancio piuttosto acceso e forma un mediocre cappello di schiuma color ocra, non molto compatta e dalla modesta persistenza; c’è anche una discreta flocculazione. L’aroma è poco intenso e rimane abbastanza guardingo; ci  vuole un po’ per sentire emergere profumi di frutta martorana, zucchero a velo, canditi e biscotto, il tutto inebriato da una buona componente etilica. Al palato non ci sono molte bollicine e la bevuta procede in linea retta riproponendo biscotto e frutta candita, con il dolce ben contrastato da una bella acidità. Il tempo passato in cantina le sembra però aver fatto più male che bene. Non ci sono ovviamente più le esuberanze della gioventù ma manca il fascino della vecchiaia: il finale, perfettamente attenuato come da copione, è purtroppo accompagnato da una marcata ossidazione che rovina un po’ la festa portando nel bicchiere molto cartone bagnato. L’alcool riscalda ogni sorso senza mai andare troppe le righe, riscaldando con garbo ad ogni sorso. La bevuta è un po’ monocorde e ha il fiato corto, pur risultando ugualmente godibile; una birra in netta parabola discendente che conserva ancora il cuore ma ha già perso la bellezza. L'appuntamento è al prossimo Natale con qualche altra annata.
Formato 33 cl., alc. 10,1%, lotto 077 14, scad. 31/03/2016, 4.50 euro (prezzo 2014, beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 21 dicembre 2017

Schloss Eggenberg Samichlaus 2009

Nel dicembre del 1998 Michael Jackson lamentava la morte di Santa Claus ovvero Samichlaus in Schwyzerdütsch, il tedesco parlato in Svizzera. La birra Samichlaus, che si era guadagna una citazione nel Guinness dei Primati in quanto bassa fermentazione più alcolica al mondo (14%) e che  veniva prodotta il 6 dicembre di ogni anno per essere poi messa in vendita dopo dodici mesi, non sarebbe più stata commercializzata. Il birrificio svizzero Hürlimann che la produceva era stato acquistato dal rivale Feldschlösschen che considerava la Samichlaus troppo laboriosa da realizzare e troppo poco redditizia. 
Ci vollero due anni e la mobilitazione di appassionati ed esperti (Michael Jackson a Robert Protz su tutti) per vederla riapparire: gli austriaci della Brauerei Schloss Eggenberg avevano trovato nel 1999 l’accordo per l’acquisizione della ricetta e del marchio e l’avevano prodotta in sordina per poi metterla in commercio, dopo la solita maturazione di 12 mesi, il 20 ottobre 2000, lo stesso anno in cui la Feldschlösschen venne acquistata dalla Carlsberg.  La Samichlaus andava così ad affiancare un’altra birra “potente” già prodotta da Schloss Eggenberg, la Urbock 23 (9.6%). 
La cotta di questa birra avveniva tradizionalmente la sera del 6 dicembre, vigilia del giorno in cui in Svizzera viene celebrato San Nicola; dopo le tre settimane di fermentazione la Samichlaus era trasferita a maturare per dieci mesi nei tini d’acciaio che si trovavano nelle cantine del birrificio Hürlimann; secondo Jackson la birra veniva di tanto in tanto trasferita da un tino all’altro per far ripartire la fermentazione secondaria. Il primo lotto fu prodotto nel 1980 utilizzando malti Pilsner, Monaco e Roasted, luppoli svizzeri e tedeschi (Perle, Magnum e Spalter Select); a quanto pare oggi il luppolo svizzero è stato sostituito da una varietà proveniente dalla Austria settentrionale (www.hopfenbau.at). 
Sin dall’inizio alla Hürlimann si trovarono in difficoltà nel rendere una birra così alcolica di quel colore chiaro desiderato; per molti anni ne realizzarono due versioni, chiara e scura, per poi abbandonare definitivamente la prima.  Un’idea che invece è stata ripresa dagli austriaci della Eggenberg, birrificio dal 1803 nelle mani della famiglia Forstinger / Stöhr: oggi la Samichlaus  oltre che nella versione “classic” è disponibile come “Helles”  e “Schwarzes”, anche’esse – dicono – prodotte il 6 dicembre e maturate poi per dieci mesi. Classic e Helles vengono anche commercializzate in versione barrique, ex-Chardonnay austriaco.

La birra.
Come detto la Samichlaus arriva sugli scaffali dopo aver già compiuto quasi un anno, ma è una birra che non teme lo scorrere del tempo e che potete tranquillamente dimenticarvi in cantina anche ben oltre la data di scadenza impressa sull’etichetta. La dimostrazione lo è questa bottiglia del 2009 che andiamo a stappare: ricordo che il millesimo riportato in etichetta si riferisce all’anno in cui la birra viene imbottigliata, quindi la birra in questione è stata prodotta a dicembre 2008. 
Il suo colore è uno splendido ambrato, piuttosto carico e limpido, arricchito da venature color rubino e rame: la schiuma è di dimensioni piuttosto modeste e rapida a dissiparsi. All'età di otto anni l’aroma non è di certo il suo punto di forzà: intensità piuttosto dimessa con alcool e un’evidente ossidazione (cartone bagnato) a dominare una dolcezza di fondo che si esprime soprattutto nel caramello. Fortunatamente al palato è tutta un’altra musica, a partire da un mouthfeel ancora pieno e morbido che non mostra grossi cedimenti. La Samichlaus è una birra per certi versi estrema ma non squilibrata, nella sua grande dolcezza: il gusto è ancora incredibilmente ricco di frutta sotto spirito, ciliegia e prugna, fichi e uvetta,  la bevuta è sciropposa ma non stucchevole, con l’alcool che riesce in qualche modo a contrastare la dolcezza ad ogni sorso. Prendetevela comoda, sedetevi in poltrona riscaldando il bicchiere con le mani e abbinateci del cioccolato fondente; emergeranno suggestioni di vini fortificati come porto, sherry o madeira, a voi lasciarvi guidare dal potere evocativo. Una birra calda e – a otto anni dalla mesa in bottiglia -  ancora potente, da bere in quelle piccole dosi che riescono comunque a dare soddisfazioni, a patto che il dolce non vi faccia paura e che non la vogliate bere tutti i giorni.
Formato 33 cl., alc. 14%, lotto 008908, scad. 03/2015, pagata 1,99 (supermercato, Austria).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 20 dicembre 2017

Põhjala Jõuluöö

Secondo episodio delle birre di Natale 2017; restiamo al nord e da Oslo, dov’eravamo ieri, spostiamoci virtualmente ad est a Tallinn in Estonia dove ha sede il birrificio Põhjala che abbiamo già incontrato sul blog in diverse occasioni. Quella fondata nel 2014 da Enn Parel e Peter Keek è una realtà in forte ascesa guidata in sala cottura dallo scozzese Chris Pilkington che oggi coordina un team di birrai provenienti da varie nazioni. 
Põhjala produce oggi mezzo milione di ettolitri l’anno grazie all’aggiunta di numerosi fermentatori alimentati da un impianto da 12 ettolitri che produce ormai senza sosta; per soddisfare tutte le richieste del mercato il birrificio ha già avviato un piano di espansione da 4 milioni di dollari che diventerà operativo – pare – nella seconda metà del 2018.   Il nuovo impianto verrà installato nel quartiere di Kalamaja all’interno di una fabbrica dismessa nella quale venivano un tempo prodotti dei sottomarini e nella quale troverà ovviamente posto anche una taproom. 
Põhjala ha costruito buona parte del suo successo grazie a birre “scure” (stout e porter, spesso imperializzate e anche invecchiate in botte) e anche la sua proposta natalizia, che debuttò nel 2016, prosegue in questa direzione.

La birra.
Jõuluöö, ovvero “la sera di Natale”: questo il nome scelto da Põhjala per una imperial porter necessaria a riscaldare le fredde notti di Tallin, magari dopo una giornata passata tra i vicoli del centro storico medievale che ospita anche l’immancabile mercatino natalizio. La sua etichetta richiama, con il classico minimalismo del birrificio estone, le luci di natale.  La ricetta prevede malti Munich, Cara pale, Carafa T-2 Special, Pale Chocolate, Cara 150, Chocolate  e Chocolate wheat, avena e lattosio; i luppoli utilizzati sono Magnum e First Gold. Alla birra vengono poi aggiunte fave di cacao, baccelli di vaniglia e chips di rovere francese. 
Nel bicchiere non è nera ma poco ci manca e forma una bella testa di schiuma cremosa e compatta dalla buona persistenza. L’aroma è piuttosto sottotono: non c’è quella festa golosa che gli ingredienti utilizzati suggerirebbero e l’intensità è davvero modesta. Si avvertono tuttavia vaniglia e liquirizia, legno, qualche nota speziata che richiama cardamomo e anice. Fortunatamente al palato c’è un netto miglioramento, a partire dal mouthfeel:  corpo medio, poche bollicine, una bevuta morbida anche senza eccedere in consistenze particolarmente cremose o oleose. Caramello, liquirizia, vaniglia e marshmallow danno il via ad una imperial porter dolce che vira progressivamente verso l’amaro della polvere di cacao, del caffè e del torrefatto. La pulizia non è eccelsa ma nel complesso c’è un gusto gradevole e soddisfacente, intenso anche se non troppo preciso e definito. L’alcool (8%) è secondo me fin troppo nascosto: la facilità di bevuta ne trae beneficio ma ci vorrebbe un po’ più di calore – e di emozione – per scaldare la notte della vigilia di Natale.
Birra un po’ scolastica anche nelle sue imprecisioni ma comunque buona, bilanciata e fatta con creanza, ovvero ben lontana da quelle odiate/amate birre-dessert. 
Formato: 33 cl., alc. 8%, IBU 40, lotto 531, scad. 10/12/2018, prezzo indicativo 6.00 euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 19 dicembre 2017

Amundsen Super Santa

Diamo il via alle bevute del Natale 2017 recandoci virtualmente in Norvegia alla Amundsen Bryggeri operativa ad Oslo come brewpub dal 2011, periodo in cui la capitale non offriva molte gioie agli appassionati di birra. In pochi anni la Amundsen, parte del gruppo Aker`s Hus Kafedrift AS, ha visto una crescita rapidissima dei volumi vedendosi costretta a sostituire nel 2013 l'impianto da 5 ettolitri con uno da 10. Nel 2016, a seguito di un nuovo piano d’investimenti da 1,5 milioni di euro, è stato ordinato il nuovo impianto BrauKon da 42 ettolitri da posizionare nella nuova sede da 3500 metri quadrati di Bjørnerudveien 14, una quindicina di chilometri a sud di Oslo, che garantirà una potenza di fuoco da quasi un milione di ettolitri l’anno. Attualmente Amundsen ne produce circa 200.000 ed è tra i dieci maggiori produttori norvegesi. 
Rimane operativo il brewpub Amundsen Bryggeri & Spiseri che si trova in pieno centro e a poca distanza dal municipio:  troverete una ventina di spine, un centinaio di etichette in bottiglia e impianto di produzione a vista.  Il gruppo Akershus possiede anche il brewpub Nydalen Bryggeri og Spiseri, nella periferia settentrionale di Oslo, e una moltitudine di locali nella capitale: Beer Palace, Burger Joint, Café Skansen, Fellini, Jarmann Gastropub, Royal Gastropub, Underbar  e Brasserie Hansken. 
La produzione Amundsen, solo lattine e keykegs, ruota attorno ad una dozzina di birre disponibili tutto l’anno ed altrettante stagionali; tra queste ci sono anche le due birre dedicate al Natale, ovvero la Christmas Pudding (una “toffee milk stout”) e – da quest’anno -  la Super Santa che andiamo ad assaggiare.

La birra.
Una tradizione americana vuole che i bambini, la sera della vigilia di Natale, lascino vicino al camino un bicchiere di latte e alcuni biscotti per Babbo Natale e magari anche qualche carota per le sue renne; un piccolo dono di sostentamento per aiutare Santa in una notte che lo vede molto affaccendato. Alla Amundsen sostengono che Babbo Natale odi il latte e ami invece la birra: questa Super Santa è dunque una stout al caffè per dargli energia ad aiutarlo a portare a termine il suo lavoro. La gradazione alcolica è piuttosto contenuta (4.7%) forse anche per permettergli di essere in grado di continuare a guidare la propria slitta. Oltre a caffè e lattosio, la ricetta prevede malti  Pilsner, Caraaroma, Carafoam, Caraamber, Caramunich I, Carafa Special I, Carared, Chocolate, luppoli Magnum e Bramling Cross, lievito London Ale. Il birrificio la consiglia in abbinamento ad uno stupido maglione natalizio e ad un caminetto. 
Si presenta di colore ebano scuro e genera una bella testa di schiuma fine e compatta, molto cremosa, dalla buona persistenza.  Al naso tanto caffelatte, qualche suggestione di vaniglia, cioccolato al latte: pulizia e intensità ci sono, l’eleganza lascia un po’ a desiderare in quanto nel complesso l’aroma ricorda un po’ una merendina industriale. Ci si può comunque accontentare. Lattosio e avena vanno a formare una sensazione palate piuttosto morbida e questa Super Santa ha una presenza ricca e ben più ingombrante di quanto ci si aspetterebbe da una birra con una gradazione alcolica modesta. Le buone premesse vengono tuttavia profondamente deluse da un gusto che rappresenta una drastica caduta in verticale, soprattutto per quel che riguarda l’intensità. Una marcata acquosità attraversa una bevuta scialba e avara, esattamente opposta al suo aroma:  vaghe tracce di caffelatte e cioccolato al latte non riescono a rendere sufficiente una stout priva di off-flavors ma che inizia e finisce nell’acquoso. Un vero peccato, se il gusto avesse anche solo la metà dell’intensità dell’aroma sarebbe una divertente e festosa milk stout (con etichetta natalizia). 
Formato: 33 cl., alc. 4.7%, lotto AB068, scad. 28/07/2018, prezzo indicative 4.50 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 18 dicembre 2017

Amager La Santa Muerte

Nuestra Señora de la Santa Muerte, divinità messicana dall’origine controversa che alcuni fanno risalire al periodo precolombiano ma della quale si ha un ricostruzione storica documentata (ma incerta) solo a partire dal diciottesimo secolo. Il suo culto ha iniziato però a diffondersi rapidamente alla fine degli anni ’90 e pare coinvolga oggi quasi dieci milioni di fedeli in Messico e America Latina. Nell’ottobre 2002 l’arcivescovo della Chiesa Cattolica a Città del Messico, David Romo Guillèn, provò a ottenere lo status di associazione religiosa per il culto della Santa Morte e per la sua “Iglesia Católica Tradicional MÉX-USA”, ma la sua richiesta fu respinta e il vescovo lo rimosse dall’incarico: sarebbe un controsenso teologico adorare quella morte che Cristo sconfisse. 
La  clandestinità del culto contribuì a far crescere attorno alla Santa Muerte la leggenda di "protettrice dei criminali" e i giornali spesso la dipingono legata agli ambienti del narcotraffico. Ma La Niña Blanca (o Flaquita o  Hermana Blanca, altri nomi con la quale viene chiamata): “non è solo la “santa dei narcos,” ma piuttosto della povera gente, degli abbandonati e di chiunque si senta precario e insicuro nella difficilissima società messicana: gli stessi narcos come i poliziotti, ma anche i carcerati, i venditori, le casalinghe, le donne delle pulizie, i disoccupati.  L’idea di base è che la morte equivale alla giustizia assoluta perché non fa distinzioni sociali.” 
Nata come statua, oggi la Santa Muerta trova la sua rappresentazione iconografica più diffusa nella forma del tatuaggio, simbolo perenne di devozione sulla pelle. Per la maggior parte  sono giovani con meno di 30 anni e provenienti dalle zone più povere del paese: portano con sé doni di ogni tipo: candele, cibo, bottiglie di tequila, sigarette e anche marijuana, che lasciano ai piedi della statua per chiederle favori e benedizioni. 
La Santa Muerte è rappresentata come uno scheletro vestito di una tunica, i cui colori si riferiscono ai diversi poteri che le vengono attributi: il “nero per la protezione dai pericoli, verde appoggio nei problemi legali, il giallo aiuto con le questioni di denaro, il rosso intercessione nelle questioni d’amore; e c’è anche una versione policroma, con sette colori, quindi “tuttofare”, con sette poteri. Spessissimo tiene in mano una falce e regge il globo terracqueo, ma è rappresentata anche con una bilancia, accompagnata da un gufo, alata, con una clessidra, con arco e frecce; si conoscono pure versioni in motocicletta, nella posa della Pietà di Michelangelo, e persino incinta!”

La birra.
Dal  Messico spostiamoci alla Danimarca dove quelli del birrificio danese Amager assicurano di aver assistito a celebrazioni della Santa Morte, nei giorni successivi ad Halloween, anche nella isolata area naturalistica di Kalvebod Fælled che si trova a pochi chilometri di distanza.  Qualcuno dice di aver trovato su quel terreno ossa di animali e umane. Se non ci credete, andate voi stessi a verificare: e se vi manca il coraggio per farlo, bevete questa bottiglia di Imperial Stout che vi aiuterà e vi proteggerà. 
La ricetta recita malti Pilsner, Crystal 150, Caraaroma, Chocolate, Black e orzo tostato; luppoli Herkules, Columbus e Simcoe; zucchero Demerara e miele: la Santa Muerte apparve per la prima volta a dicembre 2015 solo in fusto e l’anno successivo venne poi proposta in bottiglia. 
Nel bicchiere è assolutamente nera e forma un cremoso e compatto cappello di schiuma beige dall’ottima persistenza.  L’aroma offre un dolce benvenuto di miele e zucchero candito, orzo tostato, toffee e qualche nota fruttata che richiama soprattutto i cosiddetti “dark fruits” (prugna, mora, mirtillo..); non c’è molta complessità ma il bouquet è pulito e intenso. Stessa cosa si può dire del gusto, un po’ poco preciso nel quale i singoli elementi sono sono ben definiti ma che nel complesso risulta assolutamente gradevole. Il dolce quasi sciropposo miele e toffee fa da collante tra liquirizia e caffè, uvetta, frutti di bosco, qualche suggestione di creme brulée; la bevuta è poi bilanciata da un finale nel quale emerge soprattutto l’amaro del torrefatto. L'ottima sensazione palatale è oleosa e quasi vellutata, corpo tra medio e pieno: nel bicchiere non c'è il classico "catrame" scandinavo, per intenderci. L’alcool (10%) riscalda con criterio, diffondendo il suo tepore ad ogni sorso senza mai essere d’intralcio: è sicuramente l’imperial stout più dolce tra quelle proposte da Amager, che solitamente non lesina tostature e luppoli. Si chiude con una lunga scia etilica di caffè zuccherato e frutta sotto spirito capace di tenervi compagnia per molti minuti. 
Formato: 50 cl., alc.10%, lotto 1434, scad.  01/10/2018, prezzo indicativo 9,00 euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 15 dicembre 2017

Founders Sumatra Mountain Brown

Ad aprile 2016 il birrificio Founders di Grand Rapids, Michigan, annuncia l’arrivo di una nuova birra chiamata Sumatra Mountain Brown. Si tratta di una (Imperial) Brown Ale prodotta con caffè proveniente dall’isola di Sumatra, Indonesia, la sesta isola più grande del nostro pianeta.  La birra, anche nell’etichetta, sembra essere la continuazione di un progetto iniziato nel 2012 con il nome di Frangelic Mountain Brown Ale, birra che Founders aveva realizzato per la propria Backstage Series, ovvero esperimenti e prototipi realizzati in origine solo per la taproom del birrificio che vengono poi distribuiti in bottiglie da da 75 cl.; allora era stata usata una varietà di caffè alla nocciola. 
La Sumatra Mountain Brown, resa invece disponibile nel classico formato da 35,5 cl., viene commercializzata come birra stagionale che arriva di solito in primavera. La ricetta prevede malti caramello, chocolate e monaco, fiocchi d’orzo e luppolo Perle, tedesco; la Sumatra arriva così ad ampliare ulteriormente la proposta di “birre scure al caffè”  che già include Breakfast Stout, KBS Kentucky Breakfast Stout e CBS - Canadian Breakfast Stout. "Avevamo ordinato un po' troppo caffè al nostro fornitore - racconta il birraio Jeremy Kosmicki - e, un volta realizzata la Breakfast Stout, ci chiedemmo come potessimo utilizzarlo. Prendemmo uno stile un po' sottovalutato, quello delle Brown Ales, lo "impermalizzammo" e utilizzammo il caffè rimasto in infusione. Ecco nata la Sumatra!"

La birra.
Nel bicchiere è di un bell'ebano scuro, limpido e arricchito da bellissime venatura rosso rubino; la schiuma beige è cremosa e compatta, ed ha un'ottima persistenza. L'aroma mantiene le aspettative ed è ovviamente monopolizzato dal caffè, in maniera elegante e ancora piuttosto intensa, nonostante la bottiglia abbia ormai nove mesi di vita. 
Chi ama e conosce la Breakfast Stout di Founders non potrà non notare un profilo piuttosto simile che richiama sia il caffè in chicchi che quello liquido. A fare da contorno troviamo note di tabacco e frutti di bosco. Il gusto impiega un po' più tempo del necessario per "aprirsi" ed è necessario attendere che la Sumatra Mountain Brown si avvicini alla temperatura ambiente. Il suo profilo è semplice e rigoroso, con il minimo indispensabile a supportare il caffè permettendogli di recitare il ruolo del protagonista: cammello e orzo tostato danno il via a danze che proseguono con un crescendo di caffè espresso e tostature, il cui amaro è rafforzato da una generosa luppolatura. L'alcool si mantiene quasi delicato e in un birra da 9 gradi onestamente ne vorresti sentire un pochino di più. Una lieve acidità alleggerisce per qualche secondo il palato prima di un bel finale lungo nel quale è ovviamente protagonista il caffè con un po' di frutta sotto spirito.
Pulizia, equilibrio e precisione sono i cardini di questa bella Imperial Brown Ale di Founders, nella quale il caffè si esprime con eleganza: si potrebbe chiederle un po' più di complessità, ma è un desiderio che si mette volentieri da parte se quello che c'è nel bicchiere lascia ugualmente soddisfatti.
Formato: 35.5 cl., alc. 9%, IBU 40, imbott. 31/03/2017, prezzo indicativo 5.00-6.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 14 dicembre 2017

Struise XXXX Quadrupel 2013

Birrificio De Struise e Quadrupel/Belgian Strong Dark Ale: un mondo piuttosto variegato e ambiguo che parte dalla serie delle PannepotPannepøt (Pannepeut) e arriva a quello delle St. Amatus e delle XXX o XXXX.  Meglio non farsi troppe domande e concentrarsi su quello che c’è nel bicchiere, spesso di ottima qualità. 
Nel 2012 gli Struise, che ancora producevano la maggior parte delle loro birre presso gli impianti della Deca di Oostvleteren, misero in commercio una quadrupel “scura”, chiamata appunto St. Amatus (10.5%) e una “chiara” che nelle loro intenzioni era chiamata XXX Quadrupel (12%). Il disegnatore grafico che stava assemblando l’etichetta pensò che la parola Quadrupel non andasse d’accordo con le tre X e, pensando in un errore, cambiò di sua iniziativa il nome in XXX Tripel e mandò tutto in stampa. Le prime bottiglie uscirono quindi con il nome XXX Tripel, e così si continuò sino ad esaurimento scorta etichette. 
Un'altra versione della storia  (perché quando si parla di birrai belgi non c’è niente di scontato) raccontata da Carlo Grootaert parla invece di una Quadrupel che sugli impianti della Deca risultò essere di colore più chiaro rispetto a quanto voluto: da qui la decisione di chiamarla XXX Tripel. Il nome fu cambiato in XXXX Quadrupel nel momento in cui gli Struise iniziarono a produrla sui propri impianti, rendendola più scura.
Per ricapitolare, XXX Tripel e XXXX Quadrupel (e XXX Rogge Tripel) sono la stessa identica birra "alla segale", anche nelle immancabili versioni barricate chiamate XXX Reserva, XXX Rye Quad Reserva, XXXX Quadrupel Reserva. Sino al 2013 le X sono state tre, a partire dal 2014 – bottiglie messe in commercio come “millesimo 2015” è stata aggiunta la quarta. Confusi? Meglio berci sopra.

La birra.
All’aspetto è di un ambrato piuttosto carico con intense venature rossastre ma un po’ sporcato da un’abbondante flocculazione; la schiuma è cremosa e compatta ma non particolarmente generosa o persistente. Il naso è dolce e caldo, ricco di caramello e biscotto, zucchero candito e uvetta, fico, prugna, qualche accenno di mela al forno. Il corpo di questa XXXX è medio ma dal punto di vista tattile risulta molto più viscosa e ingombrante di una classica Quadrupel/Belgian Dark Strong Ale belga: il risultato è morbido e avvolgente, molto gratificante per il palato. Con passo compassato, la bevuta procede sullo stesso percorso con uguale pulizia e intensità, l’alcool si fa sentire senza esagerare elargendo coccole ad ogni sorso. La bevuta è dolce ma termina con una secchezza quasi sorprendente che “asciuga” benissimo il palato , senza amaro. Il retrogusto è lungo e caldo, ricco di frutta sotto spirito. 
Una birra ancora molto potente e solida nonostante siano passati ormai quattro anni dalla messa in bottiglia: non c’è forse molta complessità o  profondità ma l’alcool è splendidamente amalgamato con i sapori, riuscendo a regalare qualche suggestione di vino fortificato. Un’ottima compagna con la quale passare una bella serata. 
Formato 33 cl., alc. 12%, IBU 41, lotto 100506142013, scad. 30/05/2019, prezzo indicativo 5.50-7.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 13 dicembre 2017

Alus Darbnīca Labietis: Soho Švītinš Bitter & Mežs Red Ale

Arriva sul blog anche la Lettonia, nazione che ancora mancava all'appello. Ammetto la mia completa ignoranza sulla scena brassicola di un paese che ottenuta l’indipendenza nel 1991 ha visto crescere lentamente un piccolo sottobosco di birrifici artigianali.  Tra quelli di recente apertura figura Alus Darbnīca Labietis, ovvero “Laboratorio di Birra Labietis”, fondato a Riga da  Reinis Pļaviņš  e Edgar Melnys nel 2013, due homebrewers che dopo aver collezionato medaglie ad alcuni concorsi nazionali riservato alle produzioni casalinghe si sono lanciati nel mondo dei professionisti. 
Labietis, antico nome col quale venivano chiamati alcuni guerrieri lettoni – una sorta di samurai -  ha iniziato l’attività in un brewpub da 170 metri quadrati che si trova nel quartiere “creativo”  di Riga (Aristīda Briāna 9a-2) e si è poi espansa con una seconda sede – non produttiva – all’interno del mercato centrale. Se ho ben capito è in costruzione un nuovo stabilimento a Eimuri, 20 km da Riga, che consentirà di aumentare ulteriormente la capacità produttiva. 
Nonostante i protagonisti di molte birre Labietis siano i luppoli americani, il birrificio dichiara di tenere in massima considerazione le erbe officinali locali. “Prima di aprire Labietis avevo intenzione di fondare una specie di “erboristeria o farmacia birraria“ -  dice Reinis - immaginate di entrare in un bar e chiedere qualcosa per lenire il vostro mal di pancia o altri malanni grazie ad una serie di birre realizzate con una diversa combinazione di erbe officinali”. 
La gamma Labietis conta oggi una cinquantina di birre che sono state raggruppate a seconda del colore dell’etichetta, a sua volta collegato al contenuto alcolico ed al prezzo di vendita: l’etichetta bianca-grigia identifica birre “semplici” con contenuto alcolico inferiore al 5%;  si vestono di giallo birre più “ricche o corpose”, con ABV tra 4 e 6%; il rosso alza l’asticella sino all’8%, il nero la supera. Il colore viola è infine riservato a produzioni occasionali e speciali particolarmente alcoliche, oltre il 10%.

Le birre.
Partiamo dalla Soho Švītinš (letterlmente il Dandy di Soho) una bitter inglese vincitrice nel 2012 di un concorso lettone per homebrewers. L’etichetta parla di una bitter classica (cinque varietà di malto e luppolo E.K. Goldings) con tocco di modernità donato dal Galaxy. Fortunatamente questo luppolo è usato con creanza e parsimonia e non stravolge il carattere inglese, prerogativa per me imprescindibile se si vuole utilizzare il termine “bitter“. 
Il suo colore oscilla tra l’ambra, l’oro e il rame, la schiuma è cremosa e compatta e il naso regala profumi di biscotto e caramello secca, cereali e quel nutty/frutta secca tipicamente inglese. Al palato è forse un pelino troppo pesante in quanto "session beer" ma è ugualmente morbida e gradevole. La bevuta prosegue rigorosa e semplice, tutta imperniata sull'asse caramello-biscotto-nutty: ci regala qualche nota di prugna e un bel finale amaro che si sviluppa tra il terroso e la mandorla. Bitter molto pulita, intensa ma facile da bere, una birra perfetta per accompagnare le chiacchiere di una serata al pub, inglese ovviamente. Piacevolissima sorpresa.

Mežs, ovvero "foresta" dovrebbe essere la birra più venduta di Labietis: si tratta di una read/amber ale prodotta con bacche di ginepro e caratterizzata da un generoso dry-hopping di Kazbek, un luppolo boemo.  Nel bicchiere è di un bell'ambrato molto carico e impreziosito da venature rossastre; la schiuma è impeccabilmente cremosa e compatta. Il naso è piuttosto dolce e si compone di ciliegia e prugna, ginepro, caramello e biscotto, frutti di bosco.  Un ottimo livello di pulizia ed intensità che tuttavia, sopratutto per quel che riguarda quest'ultima, non trova riscontri in bocca. La bevuta mostra infatti un drastico calo e, dopo un inizio biscottato e caramellato scivola progressivamente nell'acquoso e un finale amaro e terroso, molto timido. Non ci sono evidenti difetti ma la birra risulta piuttosto blanda e noiosa, quasi priva di vita: si beve con sufficienza ma dopo un aroma così interessante è impossibile non restare delusi. 
Nel dettaglio:
Soho Švītinš, formato 50 cl., alc. 4,4%, IBU 21, lotto 17 195, scad. 01/06/2018
Mežs, formato 50 cl., alc. 5.5%, IBU 7, lotto 17 211, scad. 01/08/2018

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 12 dicembre 2017

Jackie O’s Pub & Brewery: Elle Saison & Oro Negro Imperial Stout

Doppio appuntamento con Jackie O's, birrificio dell'Ohio che vi avevo presentato non molto tempo fa; alcune delle loro birre sono finalmente reperibili anche in Europa, a prezzi non propio economici, ma per chi ha comunque voglia di provarle l'occasione è quella giusta.

Le birre.
Partiamo senza indugiare da una birra che tuttavia non credo sia tra quelle importate nel nostro continente; si tratta di Elle, una saison chiamata con il nome della stanza - a forma di "elle" - che il birraio Brad Clark usa per creare, fermentare e imbottigliare - su di una linea rigorosamente dedicata - tutte le birre acide. Dopo una prima fermentazione con lievito saison, Elle riceve un mix di lieviti selvaggi e batteri che l'accompagna per sei mesi in foudres di rovere. 
Il risultato è una saison sorprendentemente limpida nel bicchiere e di colore oro pallido: i profumi parlano di fiori, uva bianca, vino, limone e pompelmo, mela acerba e un rustico che richiama il legno e la paglia. Al palato è perfetta, scorrevolissima e vivacemente carbonata, leggera dal punto di vista tattile: la delicatezza di pane, crackers e frutta a pasta gialla fanno da contraltare ad une bevuta ricca di uva aspra, limone. Il finale è ben secco, l'amaro zesty e terroso è delicato quanto basta a ripulire il palato e renderlo bisognoso di un nuovo sorso. Note rustiche e di legno completano una saison semplice ma pulitissima, solare, attraversata da un'acidità contenuta, perfetta per dissetarsi in un giorno d'estate: molto evidente la componente vinosa, nonostante i foudres in cui Elle matura non abbiano ospitato vino in precedenza. Venti dollari al litro negli Stati Uniti spesi senza rimpianti perché il livello è piuttosto alto.

Dalla luce passiamo alle tenebre della Oro Negro: si tratta di una variante della Oil of Aphrodite - un'altra imperial stout di Jackie O's - alla quale sono stati aggiunti fave di cacao, baccelli di vaniglia, cannella e peperoncini habeneros. Nei tini d'acciaio, dove la birra ha maturato per tre mesi, sono poi state immerse delle doghe di rovere.
Nera di nome e di fatto, questa imperial stout di Jackie O's forma una perfetta testa di schiuma color nocciola, cremosa e compatta, dall'ottima persistenza. Al naso molta vaniglia, cioccolato al latte, lievi tostature e frutta secca, peperoncino; è un naso dolce che mostra buona intensità e pulizia ma che non accende grossi entusiasmi. Il mouthfeel è molto morbido, vellutato piuttosto che viscoso: la sensazione tattile è molto gradevole e la bevuta procede ricca di cioccolato al latte e vaniglia, caramello, suggestioni di gianduia. Il dolce è progressivamente bilanciato da caffè e moderate tostature che annunciano il calore dell'habanero, vero e proprio protagonista del finale di questa birra. Difficile dire dove finisce il peperoncino e dove inizia l'alcool, fatto sta che Oro Negro si congeda con un piccolo incendio che scalda lo stomaco e il cuore. Imperial Stout bilanciata e piuttosto tranquilla per 3/4 del suo percorso, fino a quando il piccante entra in scena: è un avviso ai naviganti, nel caso non lo gradiscano molto. Qui si sente abbastanza. Il livello è complessivamente alto ma non altissimo, anche se ammetto di non essere un appassionato di peperoncino.

Nel dettaglio:
Elle, 50 cl., alc. 5.1%, lotto 2017, pagata 10.95 dollari (beershop, USA)
Oro Negro, 37.5 cl., alc. 10%, lotto 2017, prezzo indicativo 13.00-20.00 Euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 11 dicembre 2017

Northern Monk: Patrons Projects 6.03 Slamdank & Patrons Projects 2.03 City of Industry

Torno con piacere a parlare di Northern Monk, birrificio di Leeds che avevamo incontrato per la prima volta un anno fa. Russell Bisset ne è il fondatore e Brian Dickinson il birraio alla guida di una delle realtà più interessanti della scena brassicola inglese “moderna”:  quattro lattine prodotte regolarmente (Eternal Session IPA,  New World IPA, Mocha Porter, Bombay Dazzler Indian Wit) sono affiancate da un numero sempre più crescente di produzioni occasionali, speciali e collaborazioni, per offrire agli appassionati sempre qualcosa di nuovo da bere.  Nel periodo 2014-2016 la produzione Northern Monk è aumentata dal 750%, grazie all’aggiunta di nuovi fermentatori e un bollitore da 11 ettolitri in funzione sei giorni su sette: è già operativo un piano di espansione che prevede la messa in funzione di un impianto da 35 ettolitri ed altri fermentatori da posizionare in un nuovo magazzino a pochi metri di distanza dallo splendido edificio in mattoni chiamato The Old Flax Store dove attualmente si trovano birrificio, taproom e spazio eventi di Northern Monk. 
A luglio 2016 il birrificio ha inaugurato il Patrons Project, ovvero una serie di collaborazioni con artisti, atleti e talenti creativi di Leeds: un progetto che non coinvolge quello che c’è dentro alle lattine ma quello che viene incollato su di esse fuori. In questo caso il contenitore di latta è un vero e proprio supporto fisico per l’esposizione dei lavori artistici; a questo proposito Northern Monk annuncia orgoglioso di essere il primo birrificio ad utilizzare etichette del tipo “peel and reveal” realizzate dalla CS Labels. In pratica sulla lattina vi sono due etichette incollate l’una sull’altra: su quella esterna viene dato il massimo spazio possibile alla grafica e sul suo retro vengono fornite informazioni sull’artista che ha partecipato alla collaborazione. Dopo aver rimosso questa prima etichetta ne viene rivelata un’altra con il logo del birrificio e informazioni “tecniche” sulla birra.

l Patrons Project è stato inaugurato nel 2016 con la Raw Emotions Coffee Porter realizzata in collaborazione con il fotografo di Leeds Tom Joy: tre birre diverse le cui lattine hanno ospitato una sorta di mini “mostra” personale dell’artista.

Le birre.
Vediamo due delle più recenti collaborazioni; partiamo dalla Patrons Projects 6.03 Slamdank, uscita all’inizio di ottobre e realizzata assieme al designer Jon Simmons. L’artista è in realtà un collaboratore di Northern Monk da lunga data, avendo già curato alcune etichette, il merchandising e tutte le grafiche per il festival The Hop City organizzato ad aprile 2017 nel quale si potevano assaggiare, oltre alle birre di numerosi birrifici inglesi (Cloudwater, Deya, Verdant, Kernel, Siren..)  anche quelle di The Alchemist e Other Half. 
La birra Slamdank fa il verso al famoso manga giapponese ambientato nel mondo della pallacanestro liceale con una splendida etichetta nella quale due cestisti si contendono un pallone/cono di luppolo. Si tratta di una West Coast IPA reinterpretata in un’ottica New England: i luppoli vengono quindi utilizzati in bollitura per regalare un po’ di amaro a bilanciare il solito succo di frutta. Nello specifico parliamo di Simcoe, Amarillo, Citra, Mosaic e Columbus. 
Nel bicchiere è di un bel dorato opalescente e forma una cremosa testa di schiuma biancastra, abbastanza compatta. Nonostante siano passati poco più di due mesi dalla messa in lattina l’aroma non mi sembra all’apice della fragranza, ma c’è comunque un soddisfacente bouquet di pino e resina, pompelmo e frutta tropicale in sottofondo, qualche accenno “dank”. La sensazione palatale è ottima: birra che scorre senza intoppi con una leggera cremosità che non arriva agli eccessi di una NEIPA. Al palato è di fatto una West Coast IPA con la sua base maltata leggera (pane e miele), il suo tocco di frutta tropicale, il pompelmo un amaro di buona intensità (solo 20 le IBU dichiarate?) resinoso e pungente, nel quale il "dank/cannabis" era forse più evidente qualche settimana fa. Una IPA pulita, davvero ben fatta, intensa ma facile da bere: un palato "allenato" (o rompiscatole) non può non notare il precoce calo di fragranza a soli due mesi dalla nascita, ma è un dettaglio sul quale si può tranquillamente soprassedere. In gola l'amaro lascia un altrettanto piccolo "raschietto vegetale": è lieve, ma c'è. Trattandosi di una West Coast IPA, mi chiedo se non era possibile proprio eliminarlo anche a costo di sacrificare l'aspetto "hazy/opalescente": alla moda forse no, ma alla birra avrebbe sicuramente giovato.

City of Industry è una delle ultima Patrons Project realizzata da Northern Monk alla metà di ottobre; una sorta di tributo al passato di Leeds, un tempo nota come "la città delle mille aziende. L'edificio in qui si trova il birrificio, nella zona di Holbeck, era utilizzato nel diciannovesimo secolo come un deposito di lino. Alle grafiche hanno collaborato  gli artisti di strada Nomad Clan e Tank Petrol; il primo è divenuto famoso per aver dipinto a Leeds il più grande murale di tutto il Regno Unito. Quello che vedete in etichetta non è altro che la riproduzione fotografica di un grande murale che i due artisti hanno dipinto su di un muro adiacente al birrificio. I luppoli utilizzati per questa Double Dry Hopped IPA sono stati Amarillo, Citra, Mosaic e Simcoe; al frumento e ai fiocchi d'avena il compito di rendere il mouthfeel cremoso. 
Si presenta molto torbida, di colore arancio pallido e con una testa di schiuma cremosa e abbastanza compatta, dalla buona persistenza. Nessuna sorpresa al naso; succo di frutta doveva essere e succo di frutta è. Ananas, mango e papaia, pompelmo e mandarino sono i frutti scelti: pulizia, intensità e finezza sono soddisfacenti. Il gusto ripropone lo stesso scenario con una pulizia leggermente minore ma amplificandone l'intensità. E' un succo di frutta tropicale con qualche incursione agrumata e un finale amaro molto corto e delicato che riduce "l'effetto pellet" davvero ai minimi termini. C'è una bella secchezza, una sensazione palatale davvero cremosa enfatizzata da poche bollicine: il retrogusto è di nuovo un tuffo dolce ai tropici, l'alcool (6.6%) è molto ben nascosto e la bevuta risulta perfettamente rinfrescante e dissetante, anche se procede ad un ritmo compassato. Livello davvero alto, NEIPA molto ben fatta che tiene assolutamente il passo di quelle realizzate da altri birrifici inglese molto più alimentati dall'hype, Cloudwater in primis. Inlattinata solo pochi giorni dopo la Slamdank, risulta sorprendentemente più fragrante senza dare ancora nessun segno di cedimento.
Northern Monk, birrificio in grande crescita: segnarsi il nome sul taccuino e non farsi scappare l'occasione di provarlo. 
Nel dettaglio:
Patrons Projects 6.03 Slamdank, 44 cl., alc. 7,4%, IBU 20, lotto SYD047, scad. 01/2018.
Patrons Projects 2.03 City of Industry, 44 cl., alc. 6.6%, IBU 18, lotto 51, scad. 04/04/2018

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.