martedì 23 luglio 2019

Hanssens Experimental Cassis 2015

Bartholomeus Hanssens, un tempo sindaco di Dworp (diciassette chilometri a sud di Brussels), iniziò a produrre lambic nel 1871 nei locali che ospitavano il birrificio Sint Antonius. Nel 1896 la produzione si trasferì in una casa di campagna nella Vroenenbosstraat a Dworp dove tutt'ora gli Hanssens risiedono. Non troverete però nessun impianto produttivo: fu l'invasione dell'esercito tedesco nel corso della prima guerra mondiale a farli sparire definitivamente. Il rame era un metallo molto prezioso ed utile per l'industria bellica, e tutti i macchinari furono sequestrati. Da allora la produzione non è più ripartita e gli Hanssens hanno iniziato ad acquistare lambic altrove per poi assemblarlo. Secondo quanto riporta il sito lambic.info, i fornitori furono Van Haelen a Beersel (chiuso nel 1957), Van Haelen-Coche a Uccle (chiuso nel 1968), La Fleur d’Or a Brussels (chiuso nel 1969), Timmermans a Itterbeek e  Winderickx a Dworp (chiuso nel 1969); attualmente Hanssens utilizza lambic proveniente da Lindemans, Girardin e Boon. 
Nel corso degli anni il testimone è passato da Bartholomeus al figlio Theo e, nel 1974, al nipote Jean: oggi alla guida c'è Sidy, figlia di Jean, assieme al marito John, che svolgono questo lavoro part -time parallelamente ad altre attività. Pochissimi investimenti, la stessa imbottigliatrice in funzione dal 1954, nessun sito internet; non è questo il Belgio che tutti amiamo? Il venerdì e il sabato potete acquistare le bottiglie direttamente dalla casa degli Hanssens che vi aprono le porte. Secondo quanto riporta Van Den Steen nel libro “Geuze & Kriek: The Secret of Lambic Beer (2012)”  Hanssens fu il primo produttore ad apporre in etichetta le denominazioni protette “Oude Geuze” e “Oude Kriek”.

La birra.
L’aggettivo “Experimental” non tragga in inganno: non si tratta di produzione occasionale o limitata. I due lambic con ribes nero (Experimental Cassis) e lampone (Experimental Raspberry) furono prodotti per la prima volta nel 2009  (dieci casse cadauna) su specifica richiesta dell’importatore americano ed entrarono poi a far parte stabilmente della gamma Janssens. 
Experimental Cassis si presenta con un bellissimo vestito rosso porpora; in superfice si forma un piccolo pizzo di bolle biancastre. A quattro anni dalla messa in bottiglia la componente fruttata è ovviamente scivolata in secondo piano e l’aroma è caratterizzato da aceto di mela, legno e dai classici “profumi” del lambic: in questo caso formaggio, sudore, solvente, un po’ di vomito.  Purtroppo la carbonazione non è particolarmente vivace e la bevuta ne risente perdendo un po’ di vitalità. Un’acidità molto marcata, a tratti tagliente, attraversa questo Experimental Cassis da cima a fondo: limone, lime, frutta aspra, legno e qualche ricordo sbiadito di ribes, accompagnato da una suggestione (o una speranza?) dolce di frutti di bosco. Molto secca, leggermente astringente, termina il suo percorso con una rapida transizione dal lattico all’aceto di mela e un delicato tepore etilico.  Un lambic per palati forti, come molti prodotti Hanssens: ma in questo caso lo sforzo necessario per sopportarne acidità d asprezza non è ricompensato dall’accesso a particolari complessità o profondità:  lasciarla in cantina si è rivelato probabilmente un errore. In una bottiglia fresca avrei perlomeno goduto della sua componente fruttata.
Formato 37,5 cl., alc. 6%, imbott. 03/2015, prezzo indicativo 10.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia/lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 18 luglio 2019

Perennial Sump 2018

Eccoci di nuovo a parlare di Perennial Artisan Ales, birrificio americano operativo a St. Louis (Missouri) dal 2011: la loro storia l’avevo raccontata qui. Prima di mettersi in proprio Phil Wymore ha lavorato come birraio al brewpub Grindstone e soprattutto alla Goose Island e alla Half Acre di Chicago. Nelle sue intenzioni Perennial Artisan Ales doveva colmare quel vuoto di birre ispirate alla tradizione belga che c’era nella sua zona: sono invece state le imperial stout a renderlo famoso, a partire da quella Abraxas che ha iniziato ad attirare a St Louis beergeeks da tutti gli Stati Uniti, e non solo. In questo senso la sua esperienza come birraio a Chicago è stata fondamentale: “alla Goose Island occupavo il ruolo di Cellar Manager e supervisionavo la produzione delle birre barricate. Ho prodotto moltissime Bourbon County, riempiendo e impilando centinaia di barli; non è una birra facile da fare. Produrla è una vera rottura di coglioni…  macinare e fare il mash con tutto quel malto per ottenere una quantità di liquido relativamente modesta”.   Wymore aveva poi realizzato da Half Acre la imperial coffe stout Big Hugs. 
Perennial inizia a produrre stout quasi per caso; nel 2012 per celebrare il giorno di San Patrizio viene prodotta la 17, imperial stout con fave di cacao e menta. Il suo successo fece nascere rapidamente  Sump, imperial stout al caffè,  Maman, imperial stout “semplice” invecchiata in botti di Rittenhouse Rye e Elijah Craig e la già citata Abraxas.   Oggi il 25% della produzione Perennial riguarda stout e imperial stout: “quando produci una birra come Abraxas che sembra piacere moltissimo alla gente, devi seguire il mercato e cercare di aumentarne la disponibilità.  Il nostro mantra è sempre stato  ‘ascolta il mercato e dai alla gente quello che vuole, finché sei orgoglioso di farlo’. Se fossimo famosi per qualcosa che non siamo orgogliosi di produrre ci porremmo senz’altro delle domande. Allo stesso modo forse non continueremmo a fare una Brown Ale prodotta con orgoglio ma che nessuno compra”.

La birra.
L’imperial coffee stout Sump (11.5%)  di Perennial prende il nome dalla torrefazione di St. Louis che rifornisce Perennial.  La versione “classica” utilizza la varietà La Virgen proveniente dalla Colombia, ma me vengono realizzate spesso varianti con altre tipologie di caffè.  Sump è arrivata anche in Europa e ciò significa inevitabilmente due cose: la produzione è aumentata  e l’hype dei beergeeks americani si è spostato altrove. Ad esempio sulla sua versione Barrel Aged. 
Il Sump Day 2018 si è tenuto al birrificio dal 19 al 23 dicembre: occasione ghiotta per bere la Sump con qualche settimana di anticipo rispetto alla normale distribuzione, avvenuta a gennaio 2019 e, soprattutto, per assaggiare alcune varianti. Erano disponibili all’acquisto due box da tre e quattro bottiglie. Per 75 dollari vi portavate a casa due bottiglie di Sump normale e  la variante prodotta con caffè etiope Roba; per 100 dollari avevate due bottiglie di ciascuna birra.  In gennaio è poi arrivata la Barrel Aged Sump (13%): 40 dollari a bottiglia al birrificio. 
Nera, impenetrabile alla luce; nel bicchiere forma una testa di schiuma di modeste dimensioni ma dalla buona persistenza. A sette mesi dalla messa in bottiglia il caffè è ancora dominante, ed è accompagnato da note terrose e di pellame;  il lattosio regala qualche suggestione di panna e vaniglia, in sottofondo emerge anche il torrefatto. L’aroma è forse un po’ monotematico ma intenso e pulito. Nulla da eccepire anche sul mouthfeel, viscoso, denso e morbido. Il corpo è pieno ma non è una birra masticabile o difficile da sorseggiare. Il gusto risulta un po’ meno definito ma è comunque di notevolissima intensità, sebbene penalizzato da un residuo zuccherino un po’ troppo invadente. Fruit cake, vaniglia, fudge, frutta sotto spirito; si parte con dolcezza prima dell’arrivo del caffè a cui spetta il compito di chiudere la bevuta. Il lattosio ben contrasta l’acidità del caffè ed il percorso termina in maniera bilanciata tra delicate tostature e un bel tepore etilico che riscalda senza bruciare. Densa e intensa, Sump di Perennial è indubbiamente una bevuta di livello ma lontana dall’olimpo delle imperial coffee stout, almeno questa sua edizione 2018. A mio parare le gioverebbe senz’altro l'essere un po’ meno dolce. Ripenso alle parole di Wymore: “devi seguire il mercato e dare alla gente quello che vuole bere”. Il successo delle Pastry Stout (e delle NEIPA) dimostra che la maggior parte della gente (beergeeks inclusi) preferisce il dolce all’amaro ed ecco forse spiegato il motivo della deriva un po’ troppo dolce di questa bottiglia.
Formato 75 cl., alc. 11.5%, imbottigliata 17/01/2019, prezzo indicativo 25.00-30.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia/lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 15 luglio 2019

Anchorage Bitter Monk Belgian Style Double IPA

Ritorna sul blog il birrificio americano Anchorage fondato a  giugno 2011 nell’omonima città dell’Alaska da Gabe Fletcher. Dopo tredici anni passati a lavorare per la Midnight Sun Brewing Company, prima sulla linea d’imbottigliamento e poi come birraio, Fletcher decide di mettersi in proprio e di lavorare su quella che è la sua vera passione: le birre acide e a fermentazione spontanea, l’utilizzo di lieviti selvaggi.  In assenza d'impianto produttivo, Fletcher affitta uno spazio di circa 300 metri quadri all’interno del Snow Goose Restaurant and Sleeping Lady Brewing Co; il mosto viene prodotto al piano di sopra, dove si trova l’impianto, e poi trasferito attraverso tubazioni direttamente al piano di sotto dove Fletcher ha posizionato 250 botti, due foeders da 70 litri, due tank in acciaio, una linea d’imbottigliamento e la cella frigorifero. 
Anchorage debutta come una specie di beerfirm e nell’anno successivo (2012) il popolo di Ratebeer lo annovera già tra i cinque migliori nuovi birrifici al mondo. Senza fretta Fletcher lavora in parallelo alla costruzione del proprio birrificio, poi inaugurato nella primavera del 2014; la nuova location all’incrocio tra la 148 W e la 91st Avenue dispone di 750 metri quadri ed una suggestiva tasting room che è praticamente posizionata in mezzo ai grandi foeders. Sulle pareti, il motto scelto da Fletcher: “Where brewing is an art, and Brettanomyces is king“.  Nella piccola tasting room, dominata dal legno degli arredi e dei foeders, trovate merchandising, spine, bottiglie e anche qualche piattino di formaggi e salumi da sgranocchiare.


La birra.
Come per quasi tutte le birre di Anchorage, la Belgian Double IPA chiamata Bitter Monk svolge la sua fermentazione primaria in foeders di legno a temperatura controllata. La birra viene poi trasferita in più piccole botti di rovere francese che avevano precedentemente ospitato Chardonnay; è in questa fase che vengono aggiunti i brettanomiceti. Dopo un periodo di tempo che oscilla tra  8 e 18 mesi la birra contenuta nei barili viene riportata nei foeders di legno o in tank di acciaio per il dry-hopping. Nello specifico esistono due versioni speciali di Bitter Monk che ricevono dry-hopping rispettivamente di Citra e Mosaic.  Noi concentriamoci sulla versione base, nello specifico una bottiglia prodotta nel novembre del 2016: normalmente una Double IPA non andrebbe mai lasciata in cantina, ma in questo caso si tratta evidentemente di una Double IPA sui generis.
Nel bicchiere si presenta di un bel color “solare” a metà strada tra l’arancio ed il dorato; la schiuma cremosa e compatta ha una buona persistenza. L’aroma, piuttosto pulito ma non molto intenso, è una ben riuscita convivenza tra funky e frutta: legno, cantina, qualche accenno di cuoio e sudore, pesca, albicocca, ananas, pompelmo.   La frutta a pasta gialla e gli agrumi caratterizzano anche la bevuta, piacevole, secca e rinfrescante nonostante la gradazione alcolica (9%) non sia nascosta così bene come avviene spesso in quella tradizione belga alla quale questa birra si ispira. Il finale è caldo ed etilico con un amaro di buona intensità caratterizzato da note terrose e zesty. Legno, funky e vino sono dettagli in secondo piano che vanno cercati con un po’ di concentrazione: personalmente mi aspettavo una maggior profondità, soprattutto se penso alle altre ottime produzioni Anchorage che mi è capitato di assaggiare in passato. E’ tuttavia una bevuta di alto livello, bilanciata tra dolce e amaro, pulita, attraversata da una rinfrescante acidità e molto morbida al palato.
Formato 75 cl., alc. 9%, lotto #5, imbottigliata  11/2016, prezzo indicativo 18.00-22.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia/lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 8 luglio 2019

One Mile End Juicy 4pm

One Mile End  è la strada del quartiere Whitechapel di Londra dove si trova il White Hart Pub: a giugno 2013 il pub mette in funzione nel proprio seminterrato un impiantino da 4,5 ettolitri. Di fronte al pub ancora oggi vi sono gli edifici inutilizzati della Albion Brewery, storico birrificio dell’East End che ha operato dal 1808 al 1979: sulla One Mile End si torna dunque, sebben in scala minore, a produrre birra. Questo microbirrificio destinato inizialmente a rifornire quasi esclusivamente il pub viene inizialmente chiamato Mulligans. 
Dopo pochi mesi d’attività a guidare il birrificio, e non solo per quel che riguarda la realizzazione delle ricette, viene chiamato il birraio Simon McCabe, proveniente da un’esperienza biennale al birrificio Redemption di Londra. Il nome cambia in One Mile End Brewery ed i fusti di birra iniziano ad essere distribuiti anche altrove: è McCabe l’artefice delle prime due birre di successo, la Salvation Pale Ale e la Hospital Porter: ed è sempre lui a guidare quell’espansione necessaria per poter far fronte a tutte le richieste che arrivano dal mercato. Nel 2016 One Mile End trova la sua nuova casa  nella zona di Tottenham (Compass West Estate, 32 West Rd) ereditando impianto (20 hl) e spazi lasciati liberi proprio dal birrificio Redemption che si è trasferito dietro l'angolo. Kegs e cask sono seguiti dalle lattine e da un completo restyling di grafiche ed etichette operato da Rusty O’Shacklevell; in sala cottura McCabe porta Pierre “De Garde” Warburton, ex-geologo senza nessuna esperienza ma assiduo frequentatore del  White Hart Pub: a lui il compito di eseguire le istruzioni “alla lettera”. Dopo un primo periodo di assestamento i due impiante di One Mile End hanno iniziato a sformare novità al ritmo richiesto attualmente dal mercato inglese: 20 nuove birre nel 2017, 30 nel 2018. 
Oltre che al brewpub potete assaggiare le birre anche direttamente nella piccola taproom di Tottenham, aperta ogni sabato e nei giorni in cui ci sono le partire degli Spurs.

La birra.
Juicy 4 PM: Citra, Mosaic, El Dorado: questi i luppoli utilizzati in Double Dry Hopping per creare una New England Pale il cui nome si riferisce “all’orario in cui in tutto il mondo è accettabile farsi la prima birra del giorno”. Le quattro del pomeriggio, alquanto opinabile. 
Il color arancio pallido è opalescente ma non eccessivamente torbido: la schiuma, cremosa e  abbastanza compatta, ha una buona persistenza. Frutta tropicale, mandarino, pompelmo e arancia danno forma ad un aroma pulito e abbastanza fresco ma non particolarmente intenso, nonostante il modaiolo DDH. C’è anche qualche lieve interferenza dank. Anche al palato la componente juicy è protagonista senza eccessi: tropicale (soprattutto ananas) e agrumi lasciano comunque intravedere una leggera base maltata (pane). Il finale è zesty, moderatamente amaro, secco e rinfrescante. Non so quanti mesi alle spalle abbia questa birra pulita, semplice, gradevole, facilissima da bere (4.9%). Non è un mostro d’intensità, soprattutto per quel che riguarda il carattere “juicy” ben evidenziato in etichetta: da questo punto di vista è senz’altro una mezza delusione per chi la confronta con i maestri del New England inglese, Cloudwater, Verdant e Deya in primis. Per chi invece ha voglia di bere una birra, e non un succo di frutta, Juicy 4pm è una piacevole quasi session beer moderna.
Formato 44 cl., alc. 4.9%, scad. 19/08/2019.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia/lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.