domenica 29 aprile 2018

Deschutes Black Butte XXVIII

Dei compleanni del birrificio dell'Oregon Deschutes vi avevo già parlato in questa occasione, celebrando il numero 26; ad un anno di distanza mi ritrovo una bottiglia di Black Butte XXVIII, ovvero quella realizzata per spegnere la candelina numero 28.
Da quasi trentanni il birrificio fondato da Gary Fish realizza una versione speciale della propria flagship beer, quella Black Butte Porter che lo ha reso famoso. Alla fine degli anni'90 sulla West Coast dominava la Sierra Nevada Pale Ale e la maggior parte dei birrifici andò in quella direzione: Deschutes decise invece di puntare su di una birra "scura", e la storia gli ha dato ragione.  Una porter dedicata all’omonimo stratovulcano che raggiunge i 1962 metri d’altezza, che fa parte della Catena Montuosa della Cascate (Cascade Range) e che si trova all’interno della Deschutes National Forest. 
La festa di compleanno si tiene come al solito il 27 giugno sia nella sede originale di Bend che nella succursale di Portland. Nella scorsa edizione (2017) la Black Butte XXIX fu prodotta con aggiunta di zucchero di canna Turbinado, cacao in polvere, cannella e pepe di cayenna: come al solito nella bottiglia ci finisce un blend di birra fresca e di birra invecchiata in botte, nel caso specifico di Bourbon e Rum.
Noi come detto facciamo un salto indietro al 2016, quando arrivò la Black Butte XXVIII.

La birra.
Malti Chocolate, Midnight Wheat, Pale, Peated e Crystal, frumento, luppoli Millennium, Cascade e Tettnang, cacao, baccelli di vaniglia, scorza di arancia candita: questi gli ingredienti utilizzati per produrre una Imperial Porter (11.6%) che è stata poi invecchiata in botti di Bourbon e di Scotch. Il risultato viene poi blendato (50%) con della birra fresca. 
Nel bicchiere è quasi nera, mentre la sua generosa schiuma è impeccabilmente cremosa e compatta, con un'ottima persistenza. L'aroma è pulito e piuttosto raffinato: ci convivono dolci note di bourbon, prugna, uvetta e vaniglia, arancia candita, cioccolato e forse cocco, sfumature torbate che richiamano anche il tabacco, legno. Un gran bell'inizio che trova conferme al palato, eccezione fatta per un mouthfeel un po' "debole" che non fa nessuna concessione morbida o cremosa. Poco male, perchè il gusto è forse un po' meno definito dell'aroma ma è di forte intensità: caramello, bourbon, frutta sotto spirito e vaniglia sono bilanciate da cioccolato fondente amaro, tostature e caffè. L'alcool parte un po' in sordina ma emerge con una bella progressione che sfocia in un finale molto caldo ma morbido, nel quale il bourbon avvolge tutti gli altri elementi. La bevuta è potente ma molto bilanciata, non è difficile sorseggiare un bicchiere di questa Black Butte XXVIII e farselo bastare per tutta la serata, senza fretta. Intensa e ben assemblata, piuttosto elegante, ben marcata dal passaggio in botte anche se solo il 50% del contenuto vi ci è stato sottoposto. Birra da scoprire sorso dopo sorso, chiude il suo percorso con accenni resinosi del luppolo che vanno a rafforzare le tostature e ripuliscono bene il palato: ci sono anche ricordi di scorza d'arancia. Gran bel compleanno, Deschutes!
Formato 65 cl., alc. 11.6%, imbott. 16/03/2016.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 28 aprile 2018

Old Nation: M-43 IPA & Boss Tweed Double IPA


A Williamston, comune di 3000 abitanti del Michigan, 120 chilometri ad ovest di Detroit, apre le porte nel giugno del 2015 il brewpub e ristorante Old Nation. A fondarlo Travis Fritts, Rick Ghersi e Nate Rykse, compagni di lavoro fuoriusciti dalla Detroit Beer Co.  Fritts si è formato come birraio all’università di Berlino e ha accumulato quindici anni d’esperienza in diversi birrifici, grandi e piccoli, in Europa e negli Stati Uniti; Nate Rykse ha invece studiato tecnologia della fermentazioni all’Università della California prima di diventare anche lui birraio. Il brewpub trova posto in un edificio che un tempo ospitava una stazione di Polizia.  
Due birrai molto “tecnici” che nelle loro intenzioni vogliono cercare di combinare la tradizione belga, inglese e tedesca: “eravamo stanchi di fare IPA – racconta Fritts – finalmente avevamo il nostro birrificio e non eravamo più costretti a produrle”. Le cose però non vanno come previsto e le vendite delle birre in stile tedesco e belga che vengono prodotte non decollano: "avevamo ottenuto diverse medaglie al Great American Beer Festival e alla World Beer Cup, ma nessuno sembrava notarci. Non usavamo abbastanza marketing e social media, che oggi sono forse più importanti del prodotto stesso”. 
Con un investimento da 5 milioni di dollari alle spalle e un mutuo da pagare, alla Old Nation iniziano a guardarsi intorno preoccupati: sui social media non si parla altro che delle New England IPA. Fritts inizia anche a sbirciare (lurkare!) il gruppo Facebook dei Detroit Area Craft Beer Enthusiasts: “ogni birraio sa che non deve farsi coinvolgere da quei gruppi, ti renderanno la vita impossibile. La maggior parte di chi scrive si crede esperti ma in verità non sanno niente”. Fritts non riesce però a trattenersi quando si celebrano le NEIPA e inizia a sottolineare alcuni difetti tecnici di quel tipo di birre, cercando di smontare l’hype. La discussione si fa sempre più calda e Fritts invita provocatoriamente alcuni membri del gruppo al suo birrificio per effettuare una piccola cotta di una New England IPA su un impiantino pilota per dimostrare le proprie convinzioni. 
Alla Old Nation fanno tesoro del feedback ricevuto dai membri del gruppo che bevono la birra e poche settimane dopo mettono in produzione su grande scala quella che sarà destinata a cambiare la loro storia: la NEIPA chiamata M-43. “Quella birra fu un botto! Iniziammo a febbraio 2017 a venderne 93 ettolitri a settimana, oggi siamo arrivati a 234 e non siamo in grado di tener dietro alle richieste. Produrla non è facile: alcuni birrai usano farina per rendere la birra torbida, ma è un trucco che non c’interessa. La torbidità è dovuta alla complessa interazione di lipidi (avena), proteine (frumento) e olii del luppolo; il carattere fruttato viene dall’interazione tra lievito e luppoli. Dopo averlo capito, anche noi che siamo dei birrai molto tecnici ci stiamo divertendo a produrla!”. 
I social network fanno il resto: le foto e i commenti entusiasti della M-43 fanno il giro di Instragram e Facebook, Ratebeer, Beer Advocate e Untapped, i beergeeks la cercano e la vogliono, la scambiano.  Nel 2016 Old Nation ha venduto circa 1408 ettolitri di birra; grazie alla M-43, ha chiuso il 2017 a 24.000 ettolitri. E nonostante sul proprio sito Old Nation scriva “noi non prendiamo le scorciatoie, non seguiamo la moda”, è proprio abbracciando “la moda” che il birrificio è riuscito a sopravvivere. Alla M-43 hanno ovviamente fatto seguito altre NEIPA, racchiuse nella  serie “New Orthodox” . Vediamone un paio.

Le birre.
La scorsa estate ero in vacanza nel Michigan e ho ovviamente cercato anch’io senza successo la M-43 di Old Nation: al beershop mi risposero (sor)ridendo: le lattine che arrivavano andavano esaurite in poche ore. Se quella notizia non era per me una sorpresa, lo è invece stato vederla comparire su qualche negozio on-line europeo! M-43 prende nome (e grafica) dalla omonima autostrada del Michigan, costruita nel 1919: 220 chilometri che collegano la costa del lago alla città di Lansing. 
La birra è è una New England IPA prodotta con malto Pils, avena e frumento, luppoli Calypso, Amarillo e Citra in bollitura, Citra, Amarillo e Simcoe in dry-hopping. All'aspetto ricordo un torbido succo di frutta alla pesca mentre la schiuma, dall'ottima persistenza, è cremosa ed abbastanza compatta. Il naso mostra un'eleganza davvero notevole per uno stile che non la predilige, e a due mesi dalla messa in lattina è intenso e ancora piuttosto fresco: ananas, pompelmo e arancia, mango, passion fruit. Ad impressionare è sopratutto il mouthfeel: birra davvero morbida, cremosa, quasi vellutata, senza essere ingombrante. Il gusto è un intenso e morbido succo di frutta nel quale guidano le danze mango e ananas, con un sottofondo di agrumi. C'è una bella secchezza a ripulire il palato e un amaro resinoso di buona intensità ma breve durata a chiudere un percorso molto bello e convincente. L'alcool è praticamene inesistente per tutta la bevuta, dando segni di presenza solamente a fine corsa: livello davvero molto alto quello della M-43 di Old Nation. Un succo di frutta caratterizzato da grande intensità ed una discreta eleganza: se vi piace il genere, non fatevela scappare. 

Arriva qualche mese dopo la M-43 (maggio 2017) la seconda nella Orthodox Series di Old Nation, chiamata Boss Tweed: l'asticella viene alzata al 9.3% per realizzare una Double NEIPA che prevede malti Pils e Vienna, frumento e avena, luppoli Magnum, Simcoe, Citra e Mosaic in bollitura, Simcoe, Citra, Mosaic ed Azacca in dry-hopping.
Anche lei assomiglia ad un succo di frutta, molto torbido e poco luminoso, non esattamente bello da vedere: meglio rivolgere lo sguardo alla schiuma, che per lo stile mostra buona compattezza e persistenza. L'aroma è una gustosa macedonia nella quale la dolcezza della frutta molto matura (mango, ananas e arancia) viene bilanciata dall'asprezza di passion fruit e maracuja. L'alcool potrebbe far pensare ad una birra potente ma la sensazione palatale smentisce subito la teoria: è una Double NEIPA simile ad una carezza, ad una coccola, morbida e cremosissima. La bevuta replica l'aroma con perfetta corrispondenza: il dolce di mango e ananas è bilanciato dall'asprezza del frutto della passione, il finale è molto secco con un lieve pizzicore amaro vegetale che non dà tuttavia fastidio. E' solamente qui che s'avverte un po' di alcool. 
Bevibilità davvero mostruosa per questa Double NEIPA che è nei fatti un intenso succo di frutta: bene la pulizia, lo stile non permette vette assolute di eleganza ma lei si difende piuttosto bene, Anche qui si viaggia in prima classe e se amate le hazy IPA la dovete senz'altro mettere in wishlist. 
Nel dettaglio:
Old Nation, formato 47.3 cl., alc. 6,8%, IBU 65, lotto 13/02/2018
Boss Tweed, formato 47.3 cl., alc. 9,3%, IBU 68, lotto 12/02/2018

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 26 aprile 2018

DALLA CANTINA: Panil Barriquée Sour 2011

Lo ammetto: l’ho stappata con curiosità e gioia ma anche con un velo di tristezza. Parliamo della Panil Barriquée Sour, etichetta che rappresenta un pezzo di storia della birra artigianale italiana e che nel caso specifico è stata imbottigliata a novembre del 2011, pochi mesi prima che il suo creatore, il birraio Renzo Losi, lasciasse il birrificio Torrechiara, nel la primavera del 2012. E’ dunque uno degli ultimi lotti prodotti da Losi prima di trasferirsi a Torino per dare vita al marchio Black Barrels. 
Era il 2001 quando a Torrechiara (Parma), quasi al di sotto della omonima rocca, nell’azienda agricola di proprietà della famiglia Losi, produttrice di vino sin dagli anni ’30, la “pecora nera homebrewer” Renzo, affascinato dalle grandi birre del Belgio, decise di creare il marchio Panil e iniziare a produrre la birra professionalmente. 
La storia dice che la Panil Barriquée fu la prima birra italiana affinata in legno: una Bruin che fermenta quindici giorni in vasca d’acciaio e viene poi trasferita in botti (40 litri) di rovere francese che hanno ospitato Cognac o Bordeaux dove riposa per circa 90 giorni; dopo l’imbottigliamento avviene un ulteriore affinamento di 30 giorni. Le due sorelle Panil Barriquée e Panil Barriquée Sour (con inoculo di lactobacilli) erano in origine diverse ma sono arrivate pian piano a somigliarsi, diventando entrambe acide. Difficile se non impossibile mantenere il controllo in un ambiente piccolo dove gli stessi impianti vengono usati sia per le birre “normali” che per le birre prodotte con batteri e lieviti selvaggi.  “Una volta prodotta (e assaggiata) la Barriquée  mi sono innamorato del genere, poi con la fermentazione spontanea e la Divina ho capito che questo sarebbe stato il mio futuro”, ricorda il birraio. "Una volta assaggiata, Lorenzo “Kuaska” Dabove mi convinse a presentarla ad alcuni concorsi. Nel primo, in Europa, la Barriquée Sour superò Rodenbach, dopodiché decisi di portarla negli Stati Uniti, in un mercato molto più ricettivo al prodotto (che ancora oggi assorbe la stragrande maggioranza della produzione Panil, ndr.)”  
Per molti anni la Panil Barriquée Sour è stata in cima alle classifiche del beer-rating, risultando la miglior birra prodotta in Italia, quando ancora l’hype americano per le birre acide non aveva raggiunto il livelli (e i prezzi) attuali. Se Panil-Torrechiara avesse maggiormente investito sul marketing o se si trovasse sul suolo statunitense staremmo oggi parlando di ben altri numeri e forse di gente in coda ai cancelli per comprare le birre. Ma con i “se” non si fa la storia e la realtà ha portato Renzo Losi lontano da Panil; a Torrechiara, con più di qualche difficoltà, si continua a produrre la Barriquée e  le altre birre. Andrea Lui aveva sostituito per qualche anno Renzo ma ha anch'egl lasciato l’azienda che ad oggi non dispone ancora di un birraio fisso e chiama di tanto in tanto qualcuno ad effettuare le cotte. Al resto ci pensano le botti e il tempo.

La birra.
Questa bottiglia ha ormai sette anni ma davvero non li dimostra. La  Panil Barriquée Sour 2011 arriva nel bicchiere di un bel color ambrato carico leggermente velato e impreziosito da venature rossastre; la schiuma è cremosa e compatta ed ha una discreta persistenza. Il naso è pulito e piuttosto elegante, convivono profumi fruttati di ciliegia, prugna, fragola e frutti di bosco con gli “odori” tipici dei lieviti selvaggi: sudore, pelle di salame, cuoio. C’è il legno e la componente acetica (mela) è davvero molto contenuta. Il mouthfeel è eccellente: è una birra morbida, che scorre con presenza ma grande facilità e secchezza; la bevuta è sour ma c’è comunque una controparte dolce ben in evidenza di caramello, ciliegia e prugna matura. C’è l’asprezza del ribes e dell’amarena, ci sono morbide note lattiche e acetiche che non disturbano affatto la bevuta ma che contribuiscono a renderla rinfrescante e dissetante, aggettivi inusuali per una birra dalla robusta (8%) gradazione alcolica. Annoto dettagli di vino rosso e di legno, pelle, cuoio, un finale secchissimo ma nel bicchiere ci sono soprattutto ci sono tante emozioni. La complessità va a pari passo con la facilità di bevuta ma  a sorprendere sono ancora aggettivi (vivace, fresca, agile, elegante) che non ti saresti aspettato di usare per descrivere una birra di sette anni che potrebbe andare ancora avanti nel tempo. 
Bottiglia in stato di grazia, di altissimo livello, che lascia solo il rimpianto di non averne più in cantina.
Formato 75 cl., alc. 8%, lotto 2 imbott. 11/2011, scad. 11/2014, pagata 6.00 euro (birrificio)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 25 aprile 2018

The Kernel Table Beer

Manca dal blog da molti anni il birrificio londinese The Kernel: esattamente tre. Tanti, troppi per una realtà nata nel 2009 che è stata una sorta di musa ispiratrice per molti dei birrifici che attualmente calcano la scena inglese: abbondanti dry-hopping, shelf life corte (quattro mesi per le luppolate), continua rotazione di etichette che spesso si differenziano l'una dall'altra solamente per il mix di luppoli utilizzati. Tutte cose che Evin O'Riordain ha iniziato a fare nove anni fa e che oggi sono la norma per molti altri birrifici. Eppure Kernel non sembra amare particolarmente le luci della ribalta: c'è stata l'espansione del 2012 ma ancora oggi la capacità non soddisfa tutta la richiesta. Per O'Riordain non è affatto un problema: il 70% della produzione viene venduta a Londra perché per The Kernel la birra è un prodotto locale, da consumarsi fresco. La taproom, che era aperta ogni sabato mattina, è stata chiusa perché ormai divenuta troppo affollata, ingestibile. Il birrificio è ancora aperto ma solamente per l'acquisto di birra da asporto.
Dalla Londra di oggi facciamo un salto indietro nel tempo di qualche secolo, precisamente al diciottesimo. A quel tempo le birre venivano tassate a seconda del loro prezzo di vendita all'ingrosso, come riporta Ron Pattinson: le birre che costavano più di 11 scellini erano chiamate Strong ed erano tassate 8 scellini a barile, le table beers costavano tra i 6 e gli 11 scellini ed erano tassate 3 scellini a barile, con un ABV solitamente compreso tra 2.75% e 4%. Al di sotto dei 6 scellini c'erano le small beers, tassate solamente uno scellino e 4 pences a barile. La categoria table beer scomparve ufficialmente nel 1830, quando le tasse furono calcolate sulle materie prime utilizzate in produzione (malti e luppoli) anziché sul prodotto finito. Strong, table e small non erano indicazioni stilistiche, ma a Londra le table beers erano a quel periodo ovviamente delle versioni poco alcoliche delle diffusissime Porter, non di rado prodotte riutilizzando parte delle materie prime impiegate per la produzione delle strong beers. Anche se la categoria di tassazione era scomparsa, il nome table beers continuò ad essere utilizzato soprattutto in Scozia, paese che ne esportava molte in Inghilterra.Verso la fine del diciannovesimo secolo il successo delle Dinner Ales e delle Light Bitters iniziò ad oscurare definitivamente le table beers che di fatto scomparvero dopo la prima guerra mondiale, quando la gradazione alcolica di tutte le birre subì una riduzione per ovvi motivi contingenti. 

La birra.
Biere de Table, Table Biere e London Sour: sono queste le tre birre dal basso contenuto alcolico, inferiore al 3%, con le quali Kernel intende dissetare quotidianamente i propri clienti. Birre da bere in grandi quantità, senza preoccuparsi delle conseguenze e senza rinunciare ad intensi profumi e sapori. Di fatto la Table Beer di Kernel è una serie di Pale Ale (o Session IPA, se preferite il termine) prodotte tutto l'anno che si differenziano per i luppoli utilizzati e, in maniera minore, per il contenuto alcolico.
La bottiglia in questione (2.9%) è stata prodotta utilizzando Chinook e Mosaic, si presenta di colore dotato velato con un cappello di candida schiuma un po' grossolana e dalla discreta persistenza. Sono passati tre mesi e mezzo dalla messa in bottiglia e l'aroma è ancora fresco e intenso: arancia e pompelmo, altri agrumi non ben identificati e un velo dolce di frutta tropicale in sottofondo disegnano un aroma pulito, piuttosto elegante e molto gradevole. Il corpo è ovviamente leggero e la Table Beer di Kernel scorre a velocità elevatissima; non è facile gestire un'abbondante luppolatura in una birra così "fragile" ma il birrificio di Evin O'Riordain  dimostra grande maestria. A sostenerla c'è una leggerissima base maltata (pane) che introduce un altrettanto breve passaggio dolce di frutta tropicale prima che la bevuta s'instradi definitivamente in territorio agrumato: ne viene fuori una birra molto secca, dal grande potere rinfrescante e dissetante, nella quale la scorza d'agrumi s'accompagna a qualche delicata nota erbacea. L'amaro è di discreta intensità e della durata necessaria a non appesantire troppo il palato. 
Table Beer che riesce perfettamente nel suo intento dichiarato: essere leggera (quasi) come l'acqua senza compromettere intensità di profumi e sapori. E' una birra che davvero vorresti sempre trovare nel tuo frigorifero, pronta ad essere stappate in ogni occasione.
Formato 50 cl., alc. 2.9%, lotto 05/01/2018, scad. 05/05/2018.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 24 aprile 2018

De Moersleutel Motorolie 10

De Moersleutel, ovvero quando si dice “business di famiglia”: è quello della famiglia Zomerdijk, padre, madre e quattro figli tutti dediti alla produzione della birra.  E’ il 2013 quando gli amici Siem Valkering e Sjaak Zomerdijk  aprono il microbirrificio Vriendenbier a Heiloo, Olanda settentrionale: giusto per darvi qualche riferimento, Amsterdam si trova 40 chilometri a sud. Anche loro provengono dall’homebrewing e hanno preso in affitto alcuni locali nel Willibrord Business Center, un monumento nazionale ex-ospedale psichiatrico che oggi ospita diverse attività imprenditoriali, sale riunioni, ristoranti, alloggi  e uffici. Nelle ex-cucine, dove un tempo venivano cucinati i pasti per i degenti, viene prodotta la birra. 
Nel 2016 Siem Valkering lascia l’azienda e Sjaak Zomerdijk rimane solo con la  moglie Margreet; è in questo periodo che entrano in società anche i loro quattro figli Pim, Tom, Rob e Max, tutti nati tra il 1990 e il 1998. Le loro idee sulla birra sono tuttavia un po’ diverse e più innovative rispetto a quelle dei genitori: frequentano locali e social, sanno quello che va di moda e quello che la gente vuole bere. Sono loro a creare il marchio De Moersleutel  per dar vita ad un progetto parallelo che nasce con propositi chiari, anche se non necessariamente innovativi: “più luppolo, più malto, più alcool e mouthfeel denso”. 
De Moersleutel  (“la chiave inglese”,  pare che il nome sia un riferimento al precedente lavoro del padre Sjaak) e Vriendenbier convivono oggi quindi sotto lo stesso tetto e nell’aprile 2017 diventano una società unica, pur continuando ad operare con due nomi diversi; sono già stati fatti piccoli investimenti per acquistare nuovi fermentatori ed affittare altri locali dove è già stato posizionato un buon numero di botti per il programma d'invecchiamento. L’impianto produttivo (2 hl)  che ha costruito lo stesso Sjaak stesso "con le chiavi inglesi" è ancora abbastanza rudimentale, con imbottigliamento ed etichettatura che vengono fatti a mano. Sono già in atto i piani per trasferirsi nella zona industriale  Alkmaar (Diamantweg 9) dove dovrebbe essere  installato un nuovo e più capiente impianto produttivo. 
De Moersleutel debutta nel 2016 e i social subito lo premia: nel 2017 Untappd lo elegge come terzo miglior birrificio olandese, spingendolo attualmente al secondo posto dietro ad un altro nome amato dai beergeeks, Tommie Sjef Wild Ales. Le tipologie di birre prodotte sono quelle che sono in cima alle classifiche del beer-rating: Imperial Stout/Porter (anche con ingredienti aggiunti e invecchiati in botte, IPA e Imperial IPA). Le prime etichette che arrivano sul mercato sono la Je Moer (imperial porter 10%), la Smeereolie (Imperial Stout, 10%), le IPA Boeit Me Geen Moer e Je Hop Lust.

La birra.
Tra le prime produzioni De Moersleutel  c’è anche la massiccia imperial stout chiamata Motorolie 10 (12%), successivamente disponibile anche in versione barricata e con aggiunta di caffè, cioccolato ed aggiunte varie. La ricetta prevede luppolo Columbus e un ricco parterre di malti che include Pale, Monaco, Amber 150, Special B, Chocolate, Cara 120 e Black. 
Il suo aspetto ricorda effettivamente l’olio motore: nera, viscosa, è adornata da un cremoso e compatto cappello di schiuma che ha una buona persistenza. L’aroma non è un biglietto da visita particolarmente entusiasmante, anche se nel complesso accettabile: caffè, frutti di bosco, orzo tostato, qualche accenno di cioccolato. C’è però poca intensità, poca pulizia, poca eleganza e poca definizione. Al palato questo “olio motore” si rivela più mansueto del previsto: il corpo è importante (medio-pieno) ma la consistenza è molto morbida e vellutata, quasi setosa, senza ingombranti viscosità. Il gusto è molto intenso, con l’alcool che non si nasconde e scalda con vigore ogni sorso senza eccessi: un dolce sottofondo di caramello e frutta sotto spirito bilancia tostature e caffè, nel finale emerge un po’ di cioccolato ed una nota resinosa del luppolo aiuta a “lavare” un po’ il palato. Un attimo di pausa prima di un lungo finale etilico che abbraccia cioccolato e caffè. 
La Motorolie di De Moersleutel guarda alle grandi imperial stout americane e scandinave e ne ripropone potenza e intensità, non supportate dalla necessaria pulizia ed eleganza. Il risultato è discreto e nel complesso abbastanza gradevole, un magma scuro ancora grezzo e indefinito che avvolge il palato sostenuto da un bel calore etilico. I margini di miglioramento sono tuttavia ancora piuttosto ampi.
Formato: 37.5 cl., alc. 12%, IBU 55, lotto 1753, scad. 09/2022

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 23 aprile 2018

Brew By Numbers 42/02 DDH Pale Ale - Number Two

Dopo quelli di ieri, torniamo a parlare di compleanni: lo scorso dicembre 2017 si è festeggiato il quinto anniversario di Brew By Numbers, birrificio fondato alla fine del 2012 da Tom Hutchings e David Seymour nel seminterrato di proprietà di un amico e trasferitosi dopo pochi mesi in quello che oggi viene chiamato il "London Beer Mile", ovvero Bermondsey, dove nel giro di un chilometro, spesso sotto sotto le arcate della linea ferroviaria, trovate i birrifici Southwark, Anspach & Hobday, The Kernel, Ubrew, Partizan, Spartan, Affinity e Fourpure, i beershop di Eebria e Bermondsey, il locale The Rake.
Per l’occasione anche Brew By Numbers ha abbracciato la moda del DDH (Double Dry Hopping) che, si tratti di New England IPA o no, è al momento una delle caratteristiche più ricercate da beergeks. Scrivete DDH in etichetta, mettete la birra in lattina e la venderete subito? E’ esattamente quello che è successo. “Le lattine sono uno dei nostri desideri ammettono –  ma non volevamo aver fretta. E’ vero che le lattine aiutano a vendere la birre luppolate, ma non è solo questo. I motivi che ci hanno spinto a mettere in lattina la birra del nostro quinto compleanno sono stati sostanzialmente due: volevamo qualcosa di speciale che risaltasse anche nel formato, e volevamo cimentarci con le tecniche apprese visitando altri birrifici inglesi e americani. Abbiamo sempre cercato di seguire le tendenze, sia per quel che riguarda le birre luppolate ispirate al New England che per le fermentazioni miste, ma non c’interessava mettere la birra in lattina tanto per farlo. Non tutte le soluzioni sono efficaci, e abbiamo dovuto attendere quella giusta per preservare la qualità della birra. La soluzione che abbiamo trovato è quella che cercavamo: ci permette di controllare il processo e di affidarci ad un partner esperto che dispone di ottimi macchinari. Abbiamo trasportato la nostra birra in una cisterna al birrificio Fourpure, che l’ha messa in lattina per noi." 
La 5th Anniversary DDH Pale Ale rilasciata a dicembre 2017 da  Brew By Numbers ottenne un clamoroso successo e ovviamente sarebbe stato un peccato per il birrificio non sfruttare l’occasione.  Ricordo che tutte le loro birre sono identificate da due serie di numeri: il primo indica lo stile della birra (ad es. 01 =  Saison, 02 = Golden Ale, etc.), il secondo indica invece la ricetta utilizzata. A febbraio è quindi arrivato il numero 42, ovvero stile “DDH Pale Ale". Con qualche leggera variazioni sul mix di luppoli, la birra del compleanno è stata riproposta con il nome di 42/02 DDH Pale Ale - Number Two.

La birra.
Citra, Summit, Ekuanot, Loral e Mosaic: questi i luppoli utilizzati “in quantità doppia rispetto a quanto facciamo di solito”. Questo il modo in cui Brew By Numbers descrive una (American) Pale Ale che si presenta di un colore opalescente a metà strada tra il dorato e l’arancio; la schiuma biancastra è abbastanza scomposta e rapida a scomparire. A due mesi e mezzo dalla messa in lattina l’aroma è ancora piuttosto fresco e intenso, ma soprattutto pulito e alquanto elegante: il bouquet tocca le corde giuste alternando ananas, mango, pesca e melone, cedro, arancia e pompelmo, qualche accenno dank. Ottima anche la sensazione palatale, con una leggera cremosità  (frumento e avena non mancano nel grist) che non impedisce tuttavia a questa Pale Ale (5.8%) di scorrere a grande velocità.
La bevuta è intelligente e molto ben strutturata, bilanciata, senza sconfinare in un (sgraziato) succo di frutta. I malti ci sono ma la loro presenza (pane, crackers, forse anche biscotto) è appena accennata, il dolce della frutta tropicale (mango e ananas) è raffinato e non cafone e la bevuta termina con una bel finale amaro di moderata intensità e durata nel quale dominano gli agrumi ma c’è anche qualche note resinosa. Grande equilibrio e pulizia, freschezza, fruttata cum grano salis, la secchezza giusta che disseta e  ti porta a desiderare subito un altro sorso: per me questo è un piccolo capolavoro, una birra riuscitissima da comprare senza indugi.
Formato 50 cl., alc. 5.8%, lotto  01/02/2018, scad. 01/06/2018.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 22 aprile 2018

Beavertown & Cloudwater: Do Not Open Until 1985 & Good Night, Future Boy!


Febbraio 2018, mese di compleanno per due dei birrifici più gettonati della scena craft inglese: a Londra Beavertown spegne la sesta candelina, a Manchester Cloudwater la terza. Il 17 febbraio il birrificio fondato da Logan Plant apre le danze alla propria festa chiamata  "Six degrees of Beaveration", nel corso della quale era possibile assaggiare in anteprime sei birre collaborative realizzate assieme a Elusive, Land & Labour, Deya, Cloudwater, Boundary e Pilot.  La settimana prima (12 febbraio) Cloudwater aveva festeggiato con la propria Birthday Balloon Double IPA, venduta solamente presso il birrificio o il proprio negozio on-line.
Ma c'è dell'altro: Beavertown e Cloudwater annunciano una trilogia di birra collaborative, delle quali sino ad ora se non erro ne sono uscite solamente due. Vediamole.

Sugli impianti a Londra viene realizzata una Double IPA (9%) chiamata Do Not Open Until 1985: non ho idea a cosa si riferisca il nome scelto. Eukanot e Citra i luppoli usati nel whirpool, Mosaic, Vic Secret e Simcoe in dry-hopping, White Labs London Fog e Lallemand New England il mix di lieviti. 
Il bicchiere si tinge di un torbido color arancio che ricorda un succo di frutta: la schiuma biancastra è un po' scomposta ma mostra una buona persistenza. Ananas  mango e pesca dominano un aroma intenso e ancora fresco; per livelli eccelsi di eleganza e pulizia bisogna citofonare altrove, ma nel complesso è comunque gradevole. Il mouthfeel è leggermente chewy come vorrebbe il protocollo New England IPA, senza risultare troppo ingombrante: la scorrevolezza se ne avvantaggia. Al palato c'è un'intensità davvero notevole che ripropone gli stessi elementi dell'aroma aggiungendo anche un po' di pompelmo. Anche qui finezza ed eleganza non sono i punti di forza, ma questa  Double IPA è una degna rappresentante della moda juicy, si beve piuttosto bene e con soddisfazione, se vi piace il genere. Il percorso si chiude con un amaro resinoso di buona intensità ma abbastanza corto, per lasciare subito ritornare nel retrogusto il dolce della frutta  tropicale. L'alcool è ben dosato e si avverte quanto basta.

Sempre al futuro è orientata anche la seconda birra collaborativa che viene però prodotta a Manchester sugli impianto di Cloudwater. Good Night, Future Boy! è il nome di una India Pale Lager  realizzata con malti Bark Pils, Schill Pils, Caramel Pils e Caramel Hell, estratto di luppolo Pilgrim Alpha in Co2 per l'amaro, Citra BBC (12 grammi/litro) e Huell Melon in dry-hopping, lievito Bock.
Si presenta di color dorato, velato, con una bella testa di schiuma cremosa e abbastanza compatta dalla buona persistenza. Il naso non è molto intenso ma c'è una bella pulizia che permette d'apprezzare i profumi di pompelmo e arancia, frutta tropicale, pane e crackers. Al contrario della Double IPA, la seconda collaborazione tra i due birrifici inglesi non cerca di stupire ma disegna una bevuta bilanciata, pulita e non priva di una certa eleganza. Pane, crackers, un tocco di miele e di frutta tropicale, un bel finale amaro dalla moderata intensità ricco di agrumi e resina: birra abbastanza secca, facilissima da bere, rinfrescante e dissetante. Non manderà in visibilio i beergeeks e non stuzzicherà il palato di chi si aspetta sempre i fuochi d'artificio, ma questa è davvero una piacevole bevuta.

Nel dettaglio:
Do Not Open Until 1985, formato 33 cl, alc. 9%, lotto 15/02/2018, scad. 15/05/2018
Good Night, Future Boy!, formato 44 cl., alc. 6%, lotto lotto 15/02/2018, scad. 15/05/2018

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 20 aprile 2018

Nix Xelles

Nuovo progetto per l’instancabile birraio Nicola Grande, in arte Nix: dopo le esperienze al birrificio al Birrificio Settimo (ex Siebter Himmel) e al Birrificio Etnia, questa volta scende in campo in prima persona con la beer firm Nix Beer, utilizzando il proprio soprannome e il proprio volto stilizzato sulle etichette.  
Birraio, seppur su impianti altrui, ma anche publican: la birra prodotta viene (anche) somministrata direttamente nel piccolo ma accogliente locale Nix Beer in via Volturno 14 a Pavia. Le bevute sono accompagnate da una cucina semplice e informale che comprende toast, puccie e pizzette, tagliari d’affettati e altri prodotti tipici pugliesi, regione d’origine di Grande. Non manca neppure l’accompagnamento musicale dal vivo e alle spine vengono anche ospitate birre prodotte anche da altri birrifici “amici”. 
Nix Beer debutta a maggio del 2017 con cinque etichette tutte ispirate alla tradizione belga, quella con cui il birraio Nix ha già dimostrato di sapersi ben destreggiare nelle esperienze precedenti. Xelles (una “hoppy blond ale” leggere e moderna), Dangar  (Belgian Pale Ale con luppoli australiani), Malle (tripel), Witwit (una “imperial” witbier) e Hellerbos (quadrupel). A marzo è arrivata poi la Streek (una Spéciale Belge) e per maggio sono già state annunciate Volturno (Pils) e Blazzatopp (American IPA). Le birre sono prodotte presso il birrificio The Wall (informazione che non è però indicata in etichetta, peccato!) e sono da considerarsi “senza glutine” in quanto ne contengono una quantità inferiore a 20 ppm, secondo quanto stabilito dalla normativa vigente.

La birra.
Non mi era ancora capitato d’incontrare le nuove produzioni di Nix e quindi ringrazio il beershop on-line Ubeer che mi ha inviato qualche bottiglia d’assaggiare. 
Iniziamo dalla Xelles, come detto una Hoppy Blond ale di stampo belga che si presenta nel bicchiere di un colore tra il dorato e l’arancio, piuttosto pallido; la schiuma bianca è compatta, pannosa e rivela un’ottima persistenza. I profumi non sono molto intensi ma il bouquet è molto pulito e interessante: crackers e cereali, fiori bianchi, una delicata speziatura, agrumi e un accenno di frutta a pasta gialla; in sottofondo s’intravede anche un bel carattere quasi ruspante/rustico che richiama il fieno, la paglia. Vivaci bollicine e un corpo medio-leggero rendono la bevuta scattante e veloce, mentre il gusto ripercorre con buona precisione il percorso aromatico aumentandone l’intensità. Pane e crackers, pesca e qualche accenno di ananas sono il cappello introduttivo ad una birra che mette soprattutto in evidenza gli agrumi: a voi divertirvi a riconoscere pompelmo e cedro, limone, lime…  Il finale è un amaro di media intensità nel quale s’intrecciano scorza d’agrumi, note terrose ed erbacee. Ottimo livello di pulizia e bel lavoro del lievito in questa Xelles, fresca e agile nello scomparire dal bicchiere grazie ad un profilo secco che rinfresca e ri-asseta il palato obbligando ad aumentare il ritorno di bevuta.  Livello piuttosto alto, che potrebbe salire ulteriormente con qualche profumino in più. Se non è certo una sorpresa per chi ha già apprezzato le birre di Nicola Grande, lo sarà invece per chi non lo conosce ma ama il Belgio moderno e luppolato alla De La Senne o, per darvi qualche riferimento nazionale, alla Extraomnes.  Una birra “quotidiana”, da bere in ogni momento ma  che probabilmente trova nelle calde giornate estive il suo contesto ideale.
Per chi volesse provarla ma non riesce a trovarla, ecco un utile link all’acquisto diretto.
Formato 33 cl., alc. 5.7%, lotto 9117, scad. 25/12/2018, prezzo indicativo 4.00 euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 18 aprile 2018

North Brewing Co / Track / Wylam LDS MCR NCL

A forza di sfornare nuove birre diventerà un problema anche inventarsi un nome che non sia già stato usato da qualche altro birrificio; le azioni legali o le minacce di azioni non sono poi così improbabili. Non è particolarmente attraente ed è anche abbastanza difficile da pronunciare/ricordare quello scelto dai birrifici inglesi North, Track e Wylam: LDS MCR NCL. 
In questa sequenza di acronimi c’è ovviamente un significato: si tratta delle città d’origine. LDS è Leeds,  dove ha sede North Brewing, “costola” della North Bar uno dei precursori della craft beer nella città gallese; il birrificio è stato aggiunto nel 2015 ed è attualmente guidato dai birrai  birrai Seb Brink (ex Golden Owl Brewery) e Darius Darwel (ex Bristol Beer Factory). Li avevamo conosciuti in questa occasione. MCR sta per Manchester: qui si trova Track Brewing,  birrificio fondato alla fine del 2014 da Sam Dyson oggi aiutato dal birraio Matt Dutton. Qui la sua storia. NCK è acronimo di Newcastle, casa di  Wylam Brewery, microbirrificio attivo dal 2000 ma passato alle cronache solo dal 2016 quando grazie ad un sostanzioso investimento da parte di nuovi soci ha traslocato dall’omonimo villaggio di campagna a Newcastle, ristrutturando lo storico Palace of Arts dell’Exhibition Park. Di loro avevo scritto qui.  
Tutti e tre i birrifici hanno un denominatore comune: l’amore per il luppolo e soprattutto per le birre che vanno tanto di moda oggi:  le New England IPA, Juicy &  Hazy, torbidi succhi di frutta.  Dalla loro collaborazione non poteva quindi nascere altro che una Double NEIPA: i luppoli utilizzati non sono tuttavia stati svelati. La birra è stata poi presentata il 01 febbraio in contemporanea nelle tre città: alla Little Leeds Beer House, alla Port Street Beer House di Manchester e al  Block & Bottle di Newcastle.

La birra.
L’impronunciabile LDS MCR NCL si presenta perfettamente torbida e di un color arancio che ricorda quello di un succo di frutta; la schiuma biancastra è cremosa e compatta, con un’ottima persistenza. Il naso è fresco, molto intenso, quasi sfacciato: si parte dall’ananas che poi rapidamente si fa da parte per lasciare spazio a pompelmo e cedro, limone e lime, passion fruit e forse anche mango. L’eleganza non è la sua caratteristica principale ma la macedonia è senz’altro gradevole. Lo stesso si può dire anche del gusto: è una Double IPA modaiola che s’avvicina al succo di frutta. Non cercate in lei livelli eccelsi di pulizia e finezza perché non li troverete: verrete invece ricompensati con una spremuta di mango, ananas e pesca. Il mouthfeel è morbido, leggermente “masticabile” (chewy) il che costringe a rallentare un po’ il ritmo di bevuta; il tallone d’Achille di questa lattina è però l’alcool (8.7%) che esce troppo allo scoperto, non fa sconti e rallenta ulteriormente lo scorrimento. Un amaro  (resina e pompelmo)  abbastanza intenso ma di breve durata chiude una bevuta molto gradevole, abbastanza secca ma un po' troppo impegnativa, soprattutto a causa dell’alcool. Peccato, perché poteva essere una birra davvero notevole nel suo genere, quasi al pari di questa.
Formato 33 cl., alc. 8.7%, lotto 25/01/2018, scad. 25/07/2018

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 17 aprile 2018

Founders KBS (Kentucky Breakfast Stout) 2018

L’hype non è più quello dei tempi d’oro e forse anche la birra – oggi prodotta in grandi quantità – non è più la stessa:  è la Kentucky Breakfast Stout (KBS) prodotta dal birrificio Founders di Grand Rapids, Michigan.  Ve ne avevo già parlato nel 2015, quando per la prima volta questa imperial stout invecchiata 12 mesi in botti di bourbon con aggiunta di caffè e fave di  cacao era arrivata in Europa: qui trovate la storia di una birra che, perdonate il gioco di parole, ha fatto storia. 
Per la gioia dei collezionisti Founders ha purtroppo smesso di imprimere il millesimo in etichetta: per risalire all’annata è ora necessario basarsi sulla data di scadenza indicata sul retro, che il birrificio indica a 365 giorni. Per loro va bevuta fresca e non è una birra da cantina: “ad invecchiarla – dicono – ci pensiamo già noi”. E lo fanno nelle loro enormi cantine, una ex-cava di gesso dove, alla profondità di 25 metri, riposano una quantità impressionante di botti alla temperatura  di 3-4 gradi centigradi. 
La KBS poi è ritornata in Europa nel 2016 ed è ancora disponibile in alcuni negozi on-line europei  e qualcuno l’ha anche scontata, in quanto "scaduta"; se non ero invece nessuna bottiglia del 2017 ha invece attraversato l’oceano. 
I festeggiamenti per l'edizione 2018 sono avvenuti come al solito nell’ambito della KBS Week che si è tenuta dal 5 al 10 marzo a Grand Rapids e nella nuova succursale Founders a Detroit. Un evento che ogni anno coinvolge diversi locali, tutti pronti ad aprire i fusti di KBS, e anche alcuni hotel con dei pacchetti convenzionati che offrono un “KBS package” comprendente bicchiere, spillette, tazza, bottiglietta di sciroppo d’acero. Sono finiti i tempi in cui i beergeeks sfidavano il freddo del Michigan accampandosi in tenda fuori dal birrificio nella speranza di riuscire ad accaparrarsi qualche bottiglia. Oggi la prevendita di KBS, che ne anticipa di qualche settimana la distribuzione nazionale ed internazionale, avviene tramite biglietti che si esauriscono abbastanza in fretta. Pagando  92 dollari (più commissioni) quest’anno vi venivano consegnate una bottiglia da 75 e tre “4 packs” da 35,5 centilitri; un prezzo più conveniente rispetto a quello consigliato alla distribuzione: 20 dollari per la 75, 24 dollari per il 4 pack (tasse sempre escluse, ovviamente).

La birra.
Il millesimo 2018 arriva con un leggero restyling dell’etichetta, sulla quale viene impresso il marchietto di quella “Barrel Aged Series” che oggi racchiude tutte le produzioni barricate di Founders. La gradazione alcolica, che varia leggermente di anno in anno, è dichiarata al 12.3%. 
Il suo aspetto è sempre splendido: nera, impeccabile e generosa testa di schiuma cremosa e compatta, dall’ottima persistenza.  Il naso non è molto intenso ma c’è tutto quello che ci si aspetta: l’elegante caffè tipico di tutte le produzioni Founders (Sumatra Mountain, Breakfast Stout), il cioccolato fondente, un tocco di legno e di vaniglia, bourbon, i cosiddetti “dark fruits” ( prugna, uvetta..). Il mouthfeel è quello di sempre: non è un’imperial stout eccessivamente viscosa o ingombrante, il corpo è medio e c’è una leggera cremosità a rendere gradevoli i sorsi.  Al palato la KBS 2018 mette in primo piano il bourbon e la frutta sotto spirito, elementi che guidano le danze spingendo un po’ (troppo) nelle retrovie caffè, cioccolato e vaniglia.; l’alcool non ha molte intenzioni di nascondersi e fa sentire la sua presenza per tutto il corso della bevuta, riscaldandola e potenziandola. La scia finale è come al solito lunghissima: un ideale abbraccio nel quale s’incontrano nuovamente bourbon, caffè e cioccolato. E’ pulita ma non è un mostro di complessità o profondità questa KBS 2018; vero che in giro ci sono ormai molte altre concorrenti/alternative, ma “avercene” di birre così. Livello alto, buon rapporto qualità prezzo per una imperial stout barrel aged. L'edizione 2018 mi ricorda molto la 2015: di quelle che ho assaggiato finora la mia preferenza va senza dubbio alla 2016, ribevuta anche qualche settimana fa. Il caffè è ormai in secondo piano ma i due anni passati in cantina hanno ammorbidito il bourbon amalgamandolo al cioccolato in maniera davvero esemplare. Detto questo, bere la KBS di Founders è un atto dovuto per ogni birrofilo sia che si tratti di scoprirla per la prima volta che di ritrovarla anno dopo anno. 
Formato: 35.5 cl., alc. 12.3%, scad. 13/02/2019, prezzo indicativo  8.50-10.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 16 aprile 2018

L'artigianale al discount: La Brassicola La Bionda & La Brassicola La Rossa


Ero in qualche modo affezionato alla birra “Lucilla” che il birrificio Amarcord ha per molti anni prodotto per la catena di discount Eurospin: non tanto per la sua bontà (ahimè) ma per il fatto che “La Rossa” è stata per molti anni la pagina più visitata del blog, superata solo di recente dalla Ichnusa Non Filtrata.  Alla fine dello scorso gennaio l’azienda distributrice Target 2000 (sempre gruppo Amarcord) ha annunciato il commiato della gamma Lucilla dalla distribuzione Eurospin: chi l’ha amata (incluso gli homebrewers che tanto cercavano la sua bottiglia con tappo meccanico) non si lasci tuttavia prendere dalla sconforto, visto che un mese dopo è stato ufficializzato il ritorno delle Lucille presso un'altra catena di discount. 
Eurospin rinuncia alla birra artigianale? Certo che no, ma cambia partner: la “gara” per la produzione di una generica “birra bionda” e di una “birra rossa” viene vinta da altri. Per la distribuzione al centro-sud il birrificio Maltovivo produce oggi la Birra del Ponte con (cito le etichette) una Bionda - Golden Ale Style (5.2%) e una Rossa – Dark Belgian Ale Style (7.5%);  al nord la B.T. Srl di Fidenza (non ci vuole molto a ricondurre queste due iniziali al Birrificio Toccalmatto) crea il marchio La Brassicola. Il target richiesto è sempre quello: birre facili da bere e che costino poco. Per quel che riguarda La Brassicola il prezzo finale al cliente è di 2,29 Euro per una bottiglia da 50 cl., ovvero 4,58 euro al litro. Un leggero aumento (+15%) rispetto agli 1,99 Euro della Lucilla (3,98 al litro). 
Quando si parla di birra “artigianale” e discount la domanda da farsi è sempre la solita: è possibile bere bene spendendo poco?

Le birre.
Iniziamo con La Bionda (4.8%), prodotta “selezionando i migliori luppoli nobili europei, delicati ed aromatici, per creare una birra semplice e raffinata”: questo quanto riportato in etichetta. Lo stile non è dichiarato, la fermentazione è ad alta anche se si guarda alla tradizione tedesca, per farla breve una sorta di “Helles un po’ più luppolata”. 
L’aspetto è di colore dorato, leggermente velato, con una bella testa di candida schiuma cremosa e compatta, dalla buona persistenza. I profumi sono piuttosto delicati ma c’è una buona pulizia: pane e fiori, un tocco speziato, un leggero ricordo di agrumi. Al palato scorre senza intoppi grazie ad un corpo leggero e ad una carbonazione abbastanza contenuta. Il gusto è semplice quanto l’aroma, con un delicato profilo maltato (pane e miele), un accenno fruttato non ben definito e un finale amaro erbaceo di breve intensità e durata.  Non ci sono difetti ma non ci sono neppure emozioni in una birra abbastanza precisa alla quale manca però un po’ di quella secchezza che la renderebbe ancora più rinfrescante. Non c’è molto carattere, l’intensità è quella che è ma l’assenza di quei sapori sgradevoli che spesso si trovano nelle birre sugli scaffali del discount le permette di guadagnarsi ampiamente la sufficienza. Gli appassionati di birra artigianale non la troveranno particolarmente interessante, ma per salire di livello bisogna ovviamente mettere mano al portafogli e fare acquisti altrove. O pensavate davvero di bere una Toccalmatto ad un terzo del suo costo?

La Rossa (7%)  si autodefinisce “una birra per le grandi occasioni, compagna perfetta per la tavola, ideale per la pizza, ma i suoi ricchi aromi maltati sapranno accompagnare anche formaggi di media stagionatura e carni rosse”. Il suo colore è un bell’ambrato accesso da fiammate rossastre, mentre la schiuma ocra, cremosa e compatta, mostra un’ottima persistenza. L’ispirazione è belga ed è evidente sin dall’aroma: zucchero candito, caramello, spezie (cardamomo, coriandolo?), biscotto, frutta secca a guscio, persino qualche accenno di pasticceria. Intenso e molto pulito, una bella sorpresa. Purtroppo il gusto non mantiene le aspettative e si rivela molto meno pulito ed interessante:  la bevuta è dolce, guidata dall’accoppiata caramello-biscotto ed incalzata da note di prugna ed uvetta. L’alcool è abbastanza ben dosato anche se l’intensità complessiva della birra potrebbe essere migliore: c’è qualche problemino nel finale, con un amaro terroso un po’ sgraziato che non lascia un buon ricordo e rischia quasi (e sottolineo quasi) di scivolare nella plastica bruciata.  Parte davvero bene questa “birra rossa” ma è un peccato non ritrovare nel gusto tutte le belle premesse dell’aroma; il risultato è comunque sufficiente, ma valgono le stesse considerazioni (qualità-prezzo) fatte per la sorella bionda.  
Per quel che riguarda il classico abbinamento pizza-birra (doppio malto!) citato anche in etichetta, direi che La Rossa può essere una dignitosa alternativa a prodotti industriali (non da discount)  come questi che costano più o meno uguali. E per il confronto in casa Eurospin con l’ex Lucilla ?  Direi che La Brassicola rappresenta senz’altro un passo in avanti, anche se queste due bottiglie sono ancora giovani e non hanno ancora affrontato il caldo dell'estate e dei magazzini della grande distribuzione.
Nel dettaglio: 
La Bionda, formato 50 cl., alc. 4,8%, lotto 18003, scad. 30/01/2020, prezzo 2.29 Euro
La Rossa, formato 50 cl., alc. 7,0%, lotto 18004, scad. 31/01/2020, prezzo 2.29 Euro

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

domenica 15 aprile 2018

Equilibrium Brewery: Mc² & Harvester of Simcoe


Middletown, cittadina con trentamila abitanti nella contea di Orange, stato di New York: i grattacieli di Manhattan sono ad un centinaio di chilometri a sud. E' qui che nel dicembre 2016 ha aperto le porte Equilibrium Brewery; a fondarla due ingegneri ambientali del Massachusetts Institute of Technology che, stanchi delle loro rispettive occupazioni, hanno deciso di trasformare il loro quasi ventennale hobby dell'homebrewing in una professione. Sono Ricardo Petroni e Peter Oates, il primo più concentrato sul business, il secondo responsabile della produzione: tre gli anni passati ad elaborare le ricette, raccogliere i finanziamenti necessari e cercare il luogo dove mettere in funzione un impianto da venticinque ettolitri. La città di Middletown offre un edificio del 1900 usato per il confezionamento della carne ma ormai in disuso da anni: 260.000 dollari il prezzo d'acquisto, 225.000 dei quali rimborsabili a patto di restare in attività per almeno cinque anni e l'obbligo di restaurarlo; in aggiunta, incentivi fiscali sui materiali acquistati per la ristrutturazione e sulla tassa di possesso. Un milione e mezzo di dollari l'investimento totale fatto da Petroni e Oates nel birrificio, che oggi conta una decina di dipendenti. Oltre a riqualificare una zona del centro di Middeltown, Equilibrium ha anche portato in città i beergeeks e tutto quello che ne consegue; delle quasi sessanta birre prodotte in dodici mesi d'attività la maggior parte sono IPA e Double IPA ispirate al New England. Non passa molto tempo che i sabati mattina, giornate in cui di solito vengono messe in vendita le nuove lattine e bottiglie, decine di persone si mettono in fila e, nell'attesa dell'apertura, bevono e scambiano altre birre. 
Adiacente al birrificio c'è la Equilibrium Taproom and Grill: taproom al piano terra, bar e ristorante al secondo piano per chi ha voglia di mettere qualcosa sotto i denti. Oltre alle birre della casa, le dodici spine attualmente operative ospitano anche le produzioni di altri birrifici.

Le birre. 
Il luppolo è l'ingrediente maggiormente utilizzato da Equilibrium, ma il birrificio non è tuttavia molto loquace quando si tratta di elencarli. Nessuna informazione quindi su questa Double IPA chiamata Mc², se non che si tratta della versione "potenziata" dell'American Pale Ale della casa chiamata Photon.
Il suo colore rispetta il protocollo dell'hazy ed è arancio torbido, sul quale si forma una testa di schiuma biancastra abbastanza compatta e dalla buona persistenza. A due mesi di vita l'aroma di questa Mc² non è esplosivo ma mostra ancora freschezza e, sopratutto, una buona pulizia: un lieve carattere dank accompagna i profumi di mango e ananas, melone retato, pesca gialla e albicocca, senza dimenticare arancia e pompelmo. Davvero notevole la sensazione palatale: copro pieno, consistenza morbidissima, quasi setosa/vellutata, la giusta quantità di bollicine. E notevole è anche la maniera in cui l'alcool (8%) è celato: la bevuta ripropone la stessa macedonia di frutta dell'aroma con buona intensità, anche se non ci sono i fuochi d'artificio. Ne traggono beneficio pulizia ed eleganza, davvero ad un ottimo livello in uno stile, quello delle NEIPA, nel quale spesso latitano. La chiusura è molto secca, grazie anche ad una lieve asprezza che chiama in causa agrumi e passion fruit, con un tocco d'amaro quasi impercettibile. La traversata dell'oceano può essere molto pericolosa per queste IPA che non hanno vita molto lunga: in questo caso i due mesi (fortunatamente non estivi) hanno lasciato segni abbastanza trascurabili. La birra è ancora abbastanza fresca e assolutamente godibile,  "juicy ma con criterio" o equilibrio, se preferite.

L'altra Double IPA chiamata Harvester of Simcoe non lascia invece molti dubbi su quale sia il luppolo protagonista; non ci è però dato sapere se si tratti di una single hop. Anche il suo color arancio è piuttosto torbido e l'aroma supera per intensità quello della sorella Mc²: il frutto tropicale (mango, ananas) è piuttosto dolce, maturo e nel complesso l'esuberante macedonia appare un po' sfrontata/cafona e poco fine: alla festa partecipano anche passion fruit e pesca, arancia dolce. Al palato è molto gradevole e morbida ma un po' ingombrante: non è un peccato mortale, considerata la gradazione alcolica (8.8%). La bevuta è di fatto un succo di frutta dolce nel quale brillano mango e ananas, bilanciati dall'asprezza del frutto della passione; non c'è nessuna traccia d'amaro, il finale è secco e lascia finalmente intravedere un delicato tepore etilico. Mouthfeel e "fruttatone" non consentono grandi velocità di bevuta ma è una Double IPA che si sorseggia con buona frequenza e soddisfazione; non è un manifesto di eleganza e finezza, ma svolge molto bene la sua funzione succo-di-frutta per la quale è stata progettata. 

Nel dettaglio:
Mc², formato 47,3 cl., alc. 8%, lotto 13/02/2018.
Harvester of Simcoe, formato 47,3 cl., alc. 8.8%, lotto 16/02/2018

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

venerdì 13 aprile 2018

Cigar City Cafe Con Leche Stout

E’ iniziato con un restyling del brand che ha coinvolto lattine ed etichette il 2018 di Cigar City, birrificio di Tampa, Florida, fondato nel 2009 da Joey Redner (qui la storia) con produzione che attualmente s’attesta sui 105.000 ettolitri l’anno. Il sigaro è sempre presente ma è affiancato dalla scritta “hecho a mano, born in Tampa”
Ricordo che nel 2016 Cigar City è stata acquistata dal birrificio del Colorado Oskar Blues, aiutato dal fondo azionario privato Fireman Capital; la società è stata da poco rinominata CANarchy il cui “ombrello” abbraccia oggi, oltre a Oskar Blues e Cigar City, anche i birrifici Perrin, Squatters e Wasatch. Un nome quanto mai azzeccato visto che due delle sue lattine (Cigar City’s Jai Alai e  Oskar Blues Dale’s Pale) sono rispettivamente il primo ed il secondo six pack di birre artigianali in lattina più venduto negli Stati Uniti. La distribuzione di CANarchy raggiunge 50 stati americani ed esporta in Canada, Puerto Rico, Australia e Nuova Zelanda, Europa, Cile, Brasile e Corea del Sud: complessivamente sono circa 410.000 gli ettolitri prodotti nel corso del 2017. 
La birra di oggi non è ancora disponibile nel formato prediletto dal gruppo e bisogna quindi accontentarsi della bottiglia: parliamo di caffelatte, café au lait (Francia), Milchkaffee (Germania), café com leite (Portogallo), café con leche (Spagna), Koffie verkeerd (Olanda), kawa biała (Polonia), tejeskávé (Ungheria) e la lista potrebbe continuare all’infinito. 
La  (coffee) milk stout di Cigar City, chiamata appunto Cafe Con Leche, è stata proposta sin dal 2009 solamente in fusto presso la taproom del birrificio di solito nel periodo ottobre-dicembre; molti appassionati saranno quindi stati contenti d’apprendere del suo debutto in bottiglia avvenuto lo scorso novembre 2017. Un’occasione da non perdere visto quest’anno la Café con Leche tornerà ad essere disponibile a novembre solamente alla spina nella sua versione nitro.

La birra.
Cigar City non rivela nessuna informazione sugli ingredienti utilizzati a parte le aggiunte di caffè in grani, fave di cacao e lattosio. Ha una gradazione alcolica (6%) volutamente bassa per – dicono – “essere l’accompagnamento perfetto a una colazione a base di uova, pancetta e pane tostato fatta in tarda mattinata”. Il divertissement del beer-rating è incoraggiante: tra le migliori 50 Sweet Stout al mondo per Untappd, terza migliore al mondo per Ratebeer, appena dietro a mostri sacri dell’hype come Tree House, Hill Farmstead e i vicini di casa di Angry Chair. 
Nel bicchiere è perfetta, scurissima anche se non perfettamente nera, con un cremosissimo e compatto cappello di schiuma dall’ottima persistenza. Sono passati cinque mesi dall’imbottigliamento ma al naso il caffè è ancora dominante, con grande eleganza e pulizia: chicchi ma anche “americano”, e intorno a lui ci sono sfumature di cioccolato, di pelle/cuoio e terrose, caffelatte. Il mouthfeel è perfetto: poche bollicine, corpo medio, consistenza morbida, quasi cremosa,  una leggera densità che non intacca per nulla la scorrevolezza. La semplicità ed il rigore salgono in cattedra in una birra molto precisa e definita in ogni suo aspetto: cioccolato al latte, un tocco di caramello e un ricordo di vaniglia supportano l’intensità del caffè, la cui acidità è praticamente azzerata dal lattosio in un equilibrio molto ben riuscito. Ancora caffè, cioccolato e qualche tostatura  concludono un percorso raffinato e molto soddisfacente. Birra perfettamente riuscita questa Café con Leche di Cigar City: tra i migliori esempi dello stile che mi sia mai capitato d’assaggiare.  Non perdetela se amate le birre di questo genere:  le bottiglie del 2017 ancora si trovano in giro.
Formato 65 cl., alc. 6%, IBU 53, imbott. 10/11/2017, prezzo indicativo 16-20 euro (beershop)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

giovedì 12 aprile 2018

Verdant Brewing: Headband Pale Ale, Track and Field IPA & I Played Bass on that Tune IPA


A qualche settimana di distanza ritorniamo a parlare di Verdant, uno dei birrifici più ricercati dai beergeeks inglesi: l’avevamo conosciuto in questa occasione.  Le ultime novità in casa Verdant parlano di una campagna di crowdfunding che si è conclusa con successo: 26.000 sterline raccolte in un mese (febbraio) per finanziare l’apertura di un Seafood Bar & Tap Room in centro a Falmouth, Cornovaglia. “Amiamo avere una taproom e punto vendita al birrificio, ma siamo stati costretti ad usare tutto lo spazio disponibile per aumentare la nostra capacità produttiva. Abbiamo guardato in centro città per aprire un luogo tranquillo dove la gente possa andare a bere le nostre birre accompagnandole con semplici e freschissimi piatti  (tapas) di mare: cozze, capesante, zuppe di pesce e fritture abbinate alle nostre freschissime birre luppolate.  E’ un locale già aperto che personalizzeremo con il nostro nome e logo”.  L’obiettivo di Verdant era di riuscire ad inaugurarlo in tempo per le vacanze di Pasqua, ma credo che la ristrutturazione sia attualmente ancora in corso.  
Non una, non due ma tre: andiamo ad assaggiare altre tre produzioni Verdant, tutte messe in lattina verso la metà di febbraio.

Partiamo dalla Track & Field IPA (7.2% ABV), ricetta che include malto Best Ale, frumento, luppoli Simcoe e Mosaic, lievito Lalbrew New England. Il suo colore è un arancio/dorato piuttosto velato sul quale si forma una schiuma cremosa ma un po’ scomposta, dalla buona persistenza. L’aroma è gradevole sebbene non molto espressivo o elegante: mango e ananas, arancia dolce. Caratteristiche che si ritrovano anche al palato, dove la bevuta è senza dubbio piacevole con un carattere  fruttato molto intenso anche se non troppo definito: mango e ananas sono i frutti maturi (a tratti quasi canditi) che vengono  in mente, la chiusura amara (resina) è molto delicata e corta. Ottimo il mouthfeel, morbido e cremoso senza risultare troppo ingombrante L’alcool è quasi impercettibile ed il risultato è una IPA molto facile da bere, fruttata senza sconfinare nel torbido succo di frutta. Livello piuttosto alto ma sicuramente c’è spazio per migliorare pulizia ed eleganza.

Tutti stravedono per le IPA di Verdant ma a me ha invece davvero impressionato la Pale Ale chiamata HeadBand (5.5%): malti Best Ale, Extra Pale Ale, Monaco, Carapils e Crystal 150, avena e frumento, luppoli Citra, Mosaic, Columbus e Chinook, solito lievito Lalbrew New England. E’ piuttosto torbida e di colore arancio, la schiuma biancastra è scomposta ma ha una buona persistenza. L’aroma non è esplosivo ma più raffinato rispetto alla sorella maggiore, sebbene  gli elementi siano più  o meno gli stessi: mango e ananas, arancia dolce. Qui la presenza dei malti  (pane e crackers) è quantomeno avvertibile, anche se il cuore della bevuta è ovviamente il fruttato, in questo caso educato e non cafone: c’è un mix ben riuscito di tropicale ed agrumi che sfocia in un finale molto secco e moderatamente amaro, nel quale convivono resina e scorza d’agrumi. Una birra davvero molto interessante, dalla bevibilità enorme e dal grande potere dissetante, di quelle che non smetteresti mai di bere: “juicy ma con criterio”, livello molto alto.

Abbastanza deludente si è invece rivelata la I Played Bass on That Tune (6.5%), una New England IPA affetta da quella sindrome d’invecchiamento precoce che a volte colpisce queste birre. La ricetta dice malti Extra Pale, Best Ale, Caramalt, Avena e frumento maltato, luppoli Citra, Columbus ed Eldorado, lievito “della casa”. Nel bicchiere è di un color arancio piuttosto torbido, mentre la schiuma cremosa e compatta rivela una buona persistenza. Al naso intensità ed eleganza latitano: il solito canovaccio mango-ananas-arancia dolce viene qui arricchito da ricordi di melone retato, ma lo schema è poco preciso. Bene è invece la sensazione palatale, morbida e leggermente cremosa, mentre il gusto ripropone la scarsa intensità e finezza dell'aroma. C'è una sensazione generale di tropicale non ben definita,  l'amaro è praticamente assente, ma quel succo di frutta che dovrebbe esserci nel bicchiere è un po' troppo spento e sbiadito: benché gradevole, non giustifica assolutamente il prezzo del biglietto.

Nel dettaglio:
Headband, 44 cl., alc. 5,5%, lotto 14/02/2018, scad.  14/05/2018, prezzo indicativo 4.50 sterline
Track and Field, 44 cl., alc. 7.2%, lotto 19/02/2018, scad. 19/05/2018, prezzo indicativo 5.00 sterline
I Played Bass on that Tune, 44 cl., alc. 6,5%, lotto 13/02/2018, scad.13/05/2018, prezzo indicativo 5.30 sterline

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio