venerdì 28 febbraio 2014

AleSmith Speedway Stout

Non sono molte le occasioni di bere AleSmith in Italia; alcune birre si trovano di tanto in tanto nei negozi, a prezzi abbastanza alti e, soprattutto per quel che riguarda le loro birre luppolate, c’è sempre l’incognita sulla freschezza. Il birrificio californiano viene fondato nel 1995 dall’ex-homebrewer Skip Virgilio e Ted Newcomb, e poi acquistato nel 2002 da Peter Zien, altro ex-homebrewer ed appassionatissimo beer-hunter. Tempo fa alla Alesmith proclamavano con orgoglio che tutti i dipendenti erano homebrewers; non so se sia effettivamente ancora così, visto che lentamente il birrificio sta crescendo e si sta espandendo. Resta il fatto che si tratta di uno dei migliori (leggete la parola come sinonimo di qualità) birrifici americani ed al mondo. La Speedway Stout nasce nel 1998, quando Skip Virgilio realizza una “tranquilla” stout (8% alc.) brassata con caffè, della quale ne furono prodotti due lotti e che – pare – non suscitò un particolare successo di pubblico.  La ricetta, ma più che altro il nome della birra, viene stravolta da Peter Zien 2001 (e dal partner Tod Fitzsimmons) nel 2011,  ispirati dalla Imperial Stout della Rogue; la birra viene irrobustita (12% alc.) e commercializzata per la prima volta nel 2002. Parte di quel primo lotto finisce anche in botte, diventando la prima birra barrel-aged mai prodotta da AleSmith.  
Apriamo una piccola parentesi, avventurandoci sui siti di beer-rating. Secondo Ratebeer è la  decima miglior birra al mondo (la sua versione barricata si piazza al numero 5), e vale la pena (?) notare che tra le  prime quindici birre al mondo ci sono ben dodici Imperial Stout; nella classifica delle migliori birre americane si piazza all’ottavo posto, mentre nella classifica della migliori imperial stout al mondo è al numero nove. Passiamo al più US-oriented Beer Advocate, dove per trovare la AleSmith tra le migliori birre al mondo bisogna scendere sino alla posizione 73; nella classifica di stile (American Imperial Stout) è invece al numero 6.  Oltre a diverse versioni barricate, della Speedway Stout ne sono state realizzate svariate variazioni, spesso disponibili solo in fusto e solo nella contea di San Diego.  Tra quelle che hanno ottenuto maggior consenso ci sono le versioni al Vietnamese Coffee ed al Kopi  Luwak; le differenze riguardano principalmente il tipo di caffè utilizzato, e l’aggiunta di ingredienti abbastanza classici per lo stile (cacao, bacche di vaniglia). Ma ci sono anche delle versioni abbastanza curiose, tra le quali mi piace ricordare quella “Ciliegia ed Amaretto”, “Nutella”, “Cetriolo e Zenzero”, “menta”, “zucca”. Restiamo fedeli alla versione base, che per chi vive dall’altra parte del mondo è già una gioia avere a disposizione, prodotta “solo” con l’umile caffè della Ryan Bros di San Diego. 
Nel bicchiere è maestosamente nera, con una testa di schiuma compatta, fine e cremosa, di color marrone scuro, dalla buona persistenza. Ha passato un anno e mezzo in cantina (e solo da poco Alesmith ha iniziato ad imprimere sulle bottiglie la data di produzione) ma l’aroma di caffè macinato è ancora dominante: tutto intorno ruotano sentori di cioccolato amaro, fruit cake, amaretto e brownie, con buona intensità e grande pulizia. Solo a temperatura ambiente emerge una nota etilica, che ricorda il rum. Se agli occhi è una delizia, il primo impatto con il palato è semplicemente devastante: birra massiccia e piena ma incredibilmente cremosa e vellutata. Poco carbonata, avvolge il palato con una  morbidissima coltre nera e tu inizi a domandarti dove siano i  dodici gradi (alcolici) dichiarati sulla bottiglia serigrafata. C’è opulenza di tostature e di caffè, di frutta sotto spirito (soprattutto prugna), caramello, cioccolato amaro e, più in secondo piano, una lievissima presenza di affumicato/cenere. L’alcool riscalda in maniera molto discreta, alzando un po’ il capo solo man mano che la birra si avvicina alla temperatura dell’ambiente; caffè e malti scuri portano una lieve acidità che prepara il palato ad un infinito retrogusto, summa di tutto quanto passato in rassegna sino ad ora: tostature, caffè, cioccolato, cenere e morbido calore etilico. Non la migliore imperial stout “annusata”, ma senz’altro una delle migliori mai bevute: potente e sontuosa, relativamente facile da bere; impressiona soprattutto per la  sua consistenza al palato, dove riesce ad essere solida ma incredibilmente vellutata e delicata al tempo stesso. La bottiglia da 75 cl. in solitudine è una missione più facile del previsto che però fa lascia il segno; è allora meglio rallentare, e richiudendola con cura e con gli strumenti adeguati, rimane una ottima birra anche il giorno successivo. A bicchiere vuoto sei completamente soddisfatto, ma anche avvolto da un un po' di tristezza: quando mai ti capiterà  di riberla? 
Formato: 75 cl., alc. 12%, lotto e scadenza non riportati, pagata 11.00 dollari (beershop, Stati Uniti)   

giovedì 27 febbraio 2014

Alpirsbacher Klosterbräu Ambrosius

Della  Alpirsbacher Klosterbräu si era già parlato in questa occasione; un birrificio di proprietà da quattro generazioni della famiglia Glauner ed adiacente al monastro di Alpirsbach. Le birre prodotte mantengono in evidenza il legame con la tradizione monastica, sia nel nome scelto ("Kleiner Monch", "il piccolo monaco") che nel logo, anche se le due realtà sono dal 1877 indipendenti. Accanto alla classica gamma di birre tradizionali tedesche (Helles, Pils, Zwickel, Dunkel, Weizen etc…) è da qualche anno stata realizzata anche la Ambrosius, un’alta fermentazione che, per mantenere ancora più vivo il legame con il monastero adiacente, viene prodotta con un lievito di tipo (belgian) Abbey di proprietà di Alpirsbacher.  E' venduta in un’elegante confezione con molta cura per in ogni dettaglio, con inflazionamento del prezzo di vendita che, sebbene non stupisca un birrofilo abituato ai prezzi italiani, risulta abbastanza caro per un tedesco che è abituato a pagare la birra al supermercato meno di due euro al litro:  bottiglia da 75 cl., elegante scatola di cartone (con apertura/finestra ad arco gotico), tappo di sughero con bella gabbietta dorata. All’interno, note di degustazione di un sommelier (sic) che la consiglia come aperitivo (se servita a 4° gradi  - sic !) o come alternativa al vino, ovvero “birra gourmet” (sic) intorno ai 10 gradi. La ricetta prevede inoltre malto di frumento, oltre a quello d’orzo (Klostermalz) mentre l’unico luppolo utilizzato è il Tettnang Tettnanger. L’aspetto è splendido, color oro antico, leggermente velato; la schiuma è bianca e cremosa, abbastanza generosa ma non molto persistente.  
Il naso è dolce, con sentori di biscotto, miele, zucchero candito ed una leggera speziatura (un po’ pepata) che effettivamente ricorda le “birre d’Abbazia” per antonomasia, quelle belghe; c’è anche una leggera ossidazione (cartone bagnato).  Anche in bocca non brilla per vitalità e freschezza: il corpo è medio, ma le bollicine sono troppo poche.  Miele, biscotto al burro, marmellata d’arance e frutta candita avvolgono il palato con una consistenza quasi oleosa; in sottofondo note di caramello, zucchero candito.  Buone sia l’intensità che il livello di pulizia, per una birra molto dolce che riesce comunque a non risultare mai stucchevole grazie ad un finale discretamente secco, con una leggera nota luppolata amaricante (mandorla) che “lava” il palato; a temperatura ambiente si percepisce anche in bocca una lieve ossidazione. Il retrogusto è dolce, di miele e canditi, con un morbido calore etilico, unica avvisaglia del alcool (7.7%) dichiarato in etichetta. Sontuosa nel bicchiere, grande cura nei dettagli della confezione: tanta apparenza, insomma, ma la sostanza non vale assolutamente il prezzo del biglietto. 
Formato. 75 cl., alc. 7.7%, IBU 31, lotto 2011, scad. 12/2017, pagata 8,99 Euro  (Supermercato, Germania).

mercoledì 26 febbraio 2014

Rogue XS Imperial Red

Purtroppo tocca ancora una volta ripetere un discorso fatto ad esempio in questa occasione, ma ne potrei citare molte altre, su birre americane che arrivano nel bicchiere in condizioni abbastanza disastrate. Ma almeno la birra in questione mi è stata regalata e non l'ho pagata. Prodotta per la prima volta dalla Rogue Ales, Oregon, nel 2008: Great Western Harrington, Klages, Hugh Baird Crystal, Black, Munich e Chocolate i malti utilizzati, oltre all’avena ed ai luppoli Willamette, Cascade e Chinook; il ceppo di lievito è invece proprietario. Arriva nella bottiglietta di dimensioni abbastanza inutili, secondo me, di 20 cl.; dopo tutto stiamo parlando di una Strong Ale (8.32% Alc.) e non di un barley wine da 12-13 gradi. Alle spalle, un dignitoso pedigree, sebbene sappiamo quanto siano da prendere con cautela i premi ottenuti ai concorsi: nel 2011 al World Beer Championships, medaglia di platino. Bronzo agli Australian International Beer Awards del 2010 ed oro alla World Beer Championships dello stesso anno.  Oro anche al Mondial de la Biere Fest di Montreal  del 2009. 
Solita bella bottiglia serigrafata in stile Rogue, e birra che si presenta di un colore ambrato opaco, con intense sfumature rossastre; alquanto modesta la schiuma, ocra, un po' grossolana e dalla persistenza breve. Il naso è molto dolce, con caramello, melassa, marmellata di agrumi, quasi frutta candita. Uno scenario pressochè analogo mi attende in bocca: le aspettative non erano certa di un mostro ultraluppolato o di una birra amarissima (58 gli IBU dichiarati), ma in questa mini-bottiglia manca quasi completamente qualcosa che bilanci l'avanzata del dolce. Tutto quasi bene all'inizio, con caramello/toffee e marmellata dolce, ma poi non c'è più nulla; anziché accelerare, la bevuta che già non spicca per intensità e pulizia si spegne lasciando una sorta di vuoto dove appare in lontananza, sola soletta, un remoto ricordo di note vegetali amare. La bassa carbonazione le toglie ulteriore vitalità, il corpo è medio e la bevuta non è certo quella che si definisce una bella esperienza. Al prossimo incontro, e che sia più fortunato.
Formato: 20 cl., alc. 8.32%, lotto e scadenza non riportati.

martedì 25 febbraio 2014

LoverBeer Dama Brun-a 2010

Per una volta iniziamo con le parole del birraio stesso, ovvero Valter Loverier alias Loverbeer: "Brun-a vuol dire Bruna ovviamente, ma è una parola piemontese e si pronuncia la u come la u in francese e una breve pausa prima della a”.  Ma Dam-a Bruna, come il nome suggerisce, è anche e soprattutto un omaggio alle Oud Bruin fiamminghe, una birra (la cui base di partenza è pressoché la stessa utilizzata anche per produrre la Madamin, un’altra birra acida di Loverbeer) che fermenta in tini di rovere e viene poi messa a maturare per dodici mesi in grandi barrique; con l’avvicinarsi dell’estate e dei primi caldi viene addizionata di zucchero caramellato e lactobacillus. Il primo lotto del 2010 viene messo in vendita per la prima volta nel 2011. 
Nel bicchiere è ambrata ed abbastanza torbida, con intensi riflessi rossastri; la schiuma è assente, si formano solamente alcune bolle grosse biancastre che svaniscono alquanto rapidamente lasciando un lieve pizzo sulle pareti del bicchiere. Al naso c’è un bel mix di sentori aciduli (lattici), aspri (uva, ribes, amarena) e dolci: ciliegia, caramello, lievi note di uva passa che evocano quasi un vino liquoroso. A temperatura ambiente emerge anche una piacevole nota di legno umido. 
Quasi piatta e leggera, al palato si muove sullo stesso percorso: dopo un imbocco pungente e fresco, lattico, l’acidità va a sfumare lasciando il posto a note più dolci e fruttate di uva passa e ciliegia. Il finale è di nuovo acidulo, con un tocco di legno, una lievissima nota amaricante di mandorla amara e, nel retrogusto, di nuovo un accenno di vino liquoroso. E' una splendida bevuta tutto giocata sul contrasto e sull'alternanza tra dolce ed acido, che in una sorta di contrappunto musicale, crea un'armonica composizione contrapponendo ad ogni elemento un altro; elementi che peraltro risulterebbero ugualmente godibilissimi e soddisfacenti anche in maniera indipendente. E la bella ad austera etichetta sembra proprio trasportarci nel tredicesimo secolo, periodo in cui si fa storicamente risalire la diffusione della pratica contrappuntistica. 
Formato: 37.5 cl., alc. 6.5%, lotto PDBR 02-0711, scad. 12/16, pagata 7.50 Euro (food store, Italia).

lunedì 24 febbraio 2014

Mont Salève India Pale Ale

Del birrificio francese Brasserie du Mont Salève vi ho già parlato in questa occasione; un solo assaggio mi era bastato per farlo salire di diritto tra i migliori produttori francesi (non è che la concorrenza sia molto agguerrita, potrebbe obiettare qualcuno) provati. La loro birra di Natale 2013 (una India Pale Ale) era davvero convincente; purtroppo sono riuscito a mettete la mani solamente su un'altra delle loro bottiglie, ancora una volta una IPA. Stessa etichetta, come tutte le birre prodotte, che si differenziano solamente per il colore della fascia inferiore; non c'è effettivamente necessità di idearne di nuove, quando si può utilizzare uno schema grafico affascinante e molto ben riuscito. Grafica che ricorda i manifesti pubblicitari d'epoca, he pubblicizzavano le località di vacanza. Una quasi nobildonna, forse un po' annoiata, che sembra divertirsi a giocare con la funivia, inaugurata nel 1932 che porta al Monte Saleve, prealpi francesi. Dalla cima si può ammirare il lago di Ginevra, riprodotto sullo sfondo dell'etichetta e, dall'altro versante, il Monte Bianco ed il massiccio del Giura.
Basta stappare la bottiglia per allontanare qualsiasi timore di rietichettatura o somiglianza con la IPA natalizia già assaggiata. Si presenta di color ambrato scarico con riflessi aranci; la schiuma è generosa e persistente, abbastanza fine, cremosa, bianca.
L'aroma è un po' chiuso e necessita di alcuni minuti per "aprirsi" e rivelare una lieve nota pepata che anticipa sentori di scorza di limone e di arancio, senza mettersi in evidenza né per il livello di pulizia che per l'intensità. Meglio in bocca: è una IPA molto secca, con una base di malto (biscotto) che fornisce l'adeguato supporto per l'abbondante quantità di arancio e pompelmo. Anche qui la pulizia non eccelle, ma c'è comunque una buona intensità. Non mi sembra invece ben definita la personalità: ben lontana dalle IPA Americane, non è neppure assimilabile ad una classica IPA inglese; il risultato sembra quasi a metà strada tra il lemongrass di una Golden Ale inglese ed una Blond Ale belga "moderna",  molto luppolata ed un po' pepata, come ad esempio quella che propone la Brasserie de La Senne.  Molto, troppo carbonata, dal corpo medio, si beve con facilità ma manca di quel crescendo amaro  che ci si aspetterebbe da una IPA; c'è una buona intensità, un finale marcatamente zesty che disseta e rinfresca il palato. In mancanza di personalità c'è per lo meno carattere (quello che manca in molte birre francesi assaggiate), e solide basi per un'ulteriore crescita.
Formato: 33 cl., alc. 6.7%, lotto 1, scad. 09/2014, pagata 4.00 Euro (beershop, Francia).

domenica 23 febbraio 2014

Revelation Cat Death Star

Siamo al quinto appuntamento del nuovo corso Revelation Cat, quello inaugurato nel 2012 con l'inizio della produzione nel nuovo birrificio di proprietà nel Kent inglese. Dopo quattro birre che vedevano come protagonista i luppoli (e non è una sorpresa, conoscendo il deus ex machina del birrificio, Alex Liberati), è il momento di una imperial (sweet) stout, dal notevole contenuto alcolico (13%) e prodotta, tra l'altro, con l'aggiunta di lattosio e bacche di vaniglia. 
Splendida nel bicchiere, assolutamente nera, con un discreto cappello di schiuma nocciola a trama fine, cremosa, dalla buona persistenza. E' proprio dalla schiuma che arrivano i primi profumi, con mirtillo e mela verde; una volta dissipatasi diventa chiaro perchè in etichetta è stato specificato "sweet", e non semplicemente imperial stout. Il naso è dolcissimo, zuccherino, con sentori di fruit cake, liquirizia, caramello, nocciola, vaniglia e frutta secca; a tratti richiama il marzapane, e c'è anche una lieve presenza etilica (rum?). L'opulenza annunciata dall'aroma non trova che conferme in bocca: corpo pieno, birra viscosa ed appiccicosa, molto poco carbonata e molto morbida. Difficile credere ai gradi alcolici dichiarati in etichetta: la Death Star  si lascia bere con calma ma senza nessuna difficoltà, regalando solamente un morbida calore etilico che vi accompagna, sorso dopo sorso, alla scoperta di caramello leggermente bruciato, liquirizia, uvetta e datteri con solo un lieve accenno al caffè ed al cioccolato; quasi un fruit cake liquido, che a tratti può anche ricordare un vino liquoroso. 
Il finale - appiccicoso - è dolce e ricco di frutta sotto spirito con un gradevolissimo warming etilico. Intensa, pulita e quasi masticabile è una birra che trova la sua ideale collocazione a fine pasto, abbinata ad un dolce o, tocca ripetersi, può essere lei stessa un dessert liquido. Il birrificio la consiglia in abbinamento a sigari e, cosa che posso confermare, si sposa benissimo con il cioccolato fondente, soprattutto quello extra amaro. E' una birra che nasce dichiaratamente dolce e mantiene quello che promette; personalmente ho avvertito un po' la mancanza (e la necessità) di una presenza un po' più avvertibile delle tostature, del cioccolato e soprattutto del caffè, che le avrebbe donato una leggera acidità molto utile nell'allentare per un attimo la morsa del dolce. Ma sarebbe stata una birra diversa, e chissà che a Revelation Cat non ci stiamo già pensando. 
Bevuta molto soddisfacente, birra che appaga i sensi e che vi manda a letto con la pancia piena (anche se non avete mangiato) ed il sorriso sulla bocca. E per una volta potete anche non prestare troppa attenzione al "drink me as fresh as possible" stampato in etichetta.
Formato: 33 cl., alc. 13%, scad. 12/2014.

sabato 22 febbraio 2014

Beavertown Black Betty

Nuovo debutto sul blog, ma storia vecchia: Hackney, quartiere a nord-est di Londra dove hanno già trovato casa Pressure Drop, Redchurch, London Fields, Five Points e Howling Hops, birrifici che abbiamo già incontrato negli scorsi mesi. Si aggiunge alla lista Beavertown, anche se si trova un po' più ad est (circa 4 chilometri) rispetto al "chilometro d'oro" dove sono invece concentrati i microbirrifici sopracitati. Viene fondato nel dicembre 2011 da Logan Plant, musicista (nel gruppo Son's of Albion) e gestore del pub Duke's Brew and Que. Se il cognome Plant (associato alla musica) vi suona familiare, non state pensando male: Logan è proprio il figlio di Robert Plant, il cantante dei Led Zeppelin. Folgorato da quanto assaggiato durante un soggiorno a Brooklyn, Logan decide di portare un pezzo di craft beer revolution americana anche a Londra. Le prime produzioni di birra avvengono nella cucina del Duke's Pub, che si trova in una zona di Londra chiamata De Beauvoir Town; un'area ricca di storia e di tradizione brassicola, che in epoca vittoriana ospitava numerosi birrifici ed Ale Houses. "Beavertown" è proprio il termine con cui, nel dialetto della zona est di Londra, il Cockney, viene chiamata De Beauvoir Town. La fatidica "prima pinta" viene spillata il 15 febbraio 2012 ovviamente al Duke's and Que: si  tratta della 8 Ball Rye IPA. A marzo 2013 avviene il trasloco dalla poco funzionale cucina del Duke's Pub ad un magazzino nella Unit 4 Stour Road, con un impianto (di seconda mano) da dieci barili, ben superiore ai quattro del precedente. Ma la scorsa settimana il birrificio ha già annunciato un nuovo trasloco, otto chilometri più a nord, poco lontano dallo stadio che ospita le partite del Tottenham Hotspur, nel Lockwood Industrial Park; nell'ampio spazio a disposizione oltre al birrificio troveranno casa numerosi botti in legno per futuri invecchiamenti ed anche un bar/tasting room.
In poco più di due anni di vita Ratebeer elenca già una quarantina di birra prodotte, per lo più occasionali, mentre quelle disponibili tutto l'anno, secondo il sito del birrificio, sono solamente cinque; molto curata la parte grafica, belle etichette, teschi in abbondanza che ricordano un po' un altro birrificio di Londra, Weird Beard, e una buona selezione di magliette/merchandising.
Di sicuro avere un padre famoso aiuta ad aprire molte porte, oltre ad avere un solido supporto economico alle spalle; basta infatti annunciarsi in visita con il padre ed ecco che Sam Calagione vi apre le porte della Dogfish Head, e in men che non si dica ci scappa una birra collaborativa, che si aggiunge a quella già realizzata con BrewDog.
Black Betty è una Black IPA che fa parte del nucleo di birre prodotte tutto l'anno; buona gradazione alcolica (7.4%), malti Simpsons Best, Caragold, Caramalt, Carafa II e Carafa III. I luppoli utilizzati sono invece Magnum, Columbus, Chinook e Citra. Molto bella l'etichetta, che si apprezza però appieno solamente dopo averla staccata dalla bottiglia e srotolata;  la birra è scurissima, quasi nera, impenetrabile. Schiuma di colore beige chiaro, non molto generosa ma dalla trama fine e cremosa, discretamente persistente. Il naso è pulito e fresco, pungente: aghi di pino, pompelmo, mango, ananas e passion fruit. Emerge anche qualche accenno di pesca gialla e di lampone. Se il suo aspetto "tenebroso" può incutere terrore, il gusto è invece molto rassicurante; per buona parte si mantiene sui binari del dolce, con abbondanza di frutta tropicale (mango e ananas) e di pompelmo; bisogna attendere quasi fino sino alla fine per l'amaro che, pur non brillando d'intensità, ha un bel mix terroso/resinoso/tostato. E' questo l'unico elemento che in qualche modo richiama il colore della birra: per il resto, anche a temperatura ambiente, la Black Betty è una American IPA in tutto e per tutto, tranne che per il colore. Corpo medio, carbonazione molto bassa, è molto gradevole in bocca per pulizia ed intensità; anche l'alcool è molto ben nascosto, ed il bicchiere si svuota molto in fretta. Resina, qualche nota terrosa e di torrefatto nel retrogusto, che però è nuovamente ingentilito da un tocco di frutta tropicale. Non rappresenta l'eccellenza, ma visto la giovane età del birrificio il livello di partenza è molto alto: teniamoli d'occhio, di sicuro ne sentiremo parlare a lungo.
Formato: 33 cl.,  alc. 7.4%, IBU 60, lotto e scadenza non riportati.

venerdì 21 febbraio 2014

Lost Abbey Deliverance 2011

Se n’è già parlato in questa occasione, del ramo di Pizza Port messo in piedi nel 2006 da Tomme Arthur, fino ad allora mastro birraio a Solana Beach; con il marchio The Lost Abbey Tomme coltiva i suoi esperimenti, producendo birre ispirate principalmente alla tradizione belga, incluse fermentazioni spontanee e birre acide, e porta avanti i suoi progetti di affinamento e d’invecchiamento in botte.   
Deliverance, ovvero "liberazione",  rappresenta la battaglia tra il bene e il male, con un blend di due birre ben riuscite: si tratta della Serpent’s Stout, una imperial stout che per l’occasione viene invecchiata in botti di bourbon, e della Angels Share, un (english style) barley wine prodotto una volta l’anno ed invecchiato in botti di brandy. Una “battaglia” che si dovrebbe svolgere tra torreffatto, cioccolato e liquirizia della Imperial Stout e caramello, uvetta e fichi della Angels Share. Nelle etichetta - impregnata del misticismo che contraddistingue il birrificio - si parla di Apocalisse e di Armageddon, di dannazione e di salvezza, di liberazione dal male e di voglia di cadere in tentazione e peccare; il giorno del giudizio è arrivato e non c'è più tempo per redimersi, per cambiare e guadagnarsi il posto in Paradiso. Tomme Arthur invita ad unirsi a lui nel rilassarsi e nell'attendere l'arrivo di coloro che verranno a prenderci l'anima; la Librazione (Deliverance) che lui offre è questa birra: non vi salverà dalle grinfie di Satana, ma almeno potrete godere del piacere di peccare.
Il blend di birre non è però sempre ben riuscito, visto che sono numerose le lamentele di chi ha trovato più di una bottiglia infetta o malandata di The Angel's Share e, ovviamente, anche di Deliverance. Il birrificio ha sempre dichiarato di effettuare rigorosi controlli (e ci mancherebbe!) prima su ogni botte, poi nella vasca dove viene effettuato il blend, e quindi al momento dell'imbottigliamento, prelevando campioni all'inizio, a metà ed alla fine di ogni lotto. Le birre, per evitare ogni possibile contaminazione, vengono inoltre imbottigliate in una linea diversa da quella utilizzata dalle birre acide che Lost Abbey produce. Fatto sta che i casi di bottiglie infette o piatte, prive di carbonazione, sono numerosi e in diversi casi il birrificio ha accettato di ricompensare gli sfortunati clienti inviando altre birre in sostituzione. Stiamo parlando di una birra piuttosto cara, non so se sia mai arrivata sugli scaffali in Italia ma negli Stati Uniti - dove la birra di solito non costa come in Italia - il suo prezzo è intorno ai 35 Euro al litro. In sostanza, la Deliverance di Lost Abbey è una birra splendida quando è a posto, ma c'è anche il rischio (non so quanto elevato) che vi possa capitare una bottiglia da lavandinare. Sarà dunque inferno o paradiso, la bottiglia che mi accingo a stappare? 
Vintage 2011 stampato al laser sul collo della bottiglia, quasi illeggibile; il colore è marrone scurissimo, impenetrabile, praticamente nero; non c'è schiuma (il che non deve allarmare, stiamo parlando di una birra molto alcolica, 12.5%) ma si forma comunque un piccolo pizzo color nocciola al bordo del bicchiere. Il primo profumo è quello dell'alcool (bourbon o brandy che sia), poi segue legno, qualche remota traccia di caffè, ma c'è davvero molto poco. In bocca è completamente piatta, viscosa, dal corpo medio: il gusto è salmastro, salsa di soya, legno, bourbon, qualche accenno di caffè. L'alcool è abbastanza ben nascosto, la birra tutto sommato si riesce a bere ma è ben lontana dall'essere buona. Del blend tra una imperial stout ed un barley wine è rimasta solo la prima, ed invecchiata abbastanza male. Tra il Bene ed il Male ha (ovviamente, citando la Legge di Murphy) vinto quest'ultimo: male per il palato, e male per il portafoglio. Sono quasi tentato di mandare una mail al birrificio, non sia mai che decidono di inviare anche qui qualcosa in sostituzione. In cantina riposa intanto una bottiglia di The Angel's Share dello stesso anno. Saranno di nuovo le tenebre ? 
Formato: 37.5 cl., alc. 12.5%, vintage 2011.

giovedì 20 febbraio 2014

Ninkasi Fabriques IPA

Ninkasi è l'antica divinità sumera, matrona della birra; per birrofili o beer geeks Ninkasi (Brewing Company) è soprattutto un birrificio americano (a Eugene, Oregon) aperto nel 2006 da Jamie Floyd e Nikos Ridge. Ed è proprio nell’Oregon, a Portland, che due francesi, Christophe Fargier and Kurt Huffman scoprono negli anni ’90 i brewpub e la craft beer americana; Christophe finisce per qualche tempo a lavorare presso un microbirrificio di Bridgeport (Connecticut) e ottiene anche il diploma di mastro birrario al Siebel Institute of Technology di Chicago. Ritornato in Francia, inizia a provare la sue ricette a casa su un piccolo impianto pilota per dare poi vita, nel settembre del 1997 alla Ninkasi Gerland, a Lione; un ambizioso progetto ispirato ai brewpub americani, ossia un locale dove poter mangiare e dove la birra viene prodotta in loco. Nel 1999 la società cambia nome in Ninkasi Fabriques, quindi molti anni prima dell'omonimo birrificio americano, e viene assunto il birraio David Hubert per aiutare Christophe che è sempre più preso dalle faccende manageriali. I volumi aumentano ed aumentano anche i birrai necessari a tenere il passo: nel 2002 arriva Frederic Evellin (ex Brasserie des Cimes) e nel 2006 Julie Murgia. Nel 2012 avviene il trasferimento degli impianti produttivi in locali più ampi a Tarare, circa 45 km ad est di Lione. I numeri parlano di circa 600.000 litri di birra prodotti ogni anno e 45 diverse birre realizzate dal 1997 ad oggi. Ma l’espansione di Ninkasi non è stata solo di tipo brassicolo; nel 1999 a Lione apre KAFE, un pub/ristorante dove si tengono concerti e DJ set; nel 2000 viene inaugurata la sala per concerti KAO, con una capacità di 600 posti e nel 2002, sempre a Lione, il ristorante Silo. Per quel che riguarda invece la birra, la potete trovare in molti supermercati di Lione e soprattutto nei sette pub (non brewpub) di proprietà: uno a Tartare, annesso al birrificio, uno a Villeurbane (comune nella periferia nord orientale di Lione) e ben cinque a Lione, tutti in posizione centrale o ben serviti dalla metropolitana. Sebbene le birre siano ben lontane dall'eccellenza, Ninkasi è comunque una buona opportunità per chi si trova in città per bere qualcosa di diverso dalle solite industriali che monopolizzano i bar ed i ristoranti.
La India Pale Ale di Ninkasi arriva nel lontano 2001, una delle birre "speciali" che il birrificio produce ogni anno nel periodo natalizio. E' stata anche una delle prime birre francesi ad utilizzare il luppolo Cascade; tutto bene tranne che per la scritta in etichetta "L’I.P.A. et une bière de garde, ses saveurs s’affinent avec le temps", ovvero "una birra i cui sapori si affinano col tempo". La dicitura corretta sarebbe dovuta essere "i cui sapori svaniscono con il tempo"; Disponibile solo in bottiglia da 75 cl., nel bicchiere è ambrata, con riflessi color rame, velata; la schiuma è generosa e cremosa, biancastra, ed ha una discreta persistenza. Aroma un po' sottotono, apre con qualche sentore pepato ed erbaceo, in sottofondo una lieve presenza di agrumi ma anche una "lievitosità" che lo sporca un po' e lo rende poco invitante. Meglio in bocca, dove incontriamo una IPA che non fa molte poche concessioni agrumate; si parte da una base di malto (biscotto, leggero caramello) per passare subito all'amaro erbaceo, leggermente pepato e resinoso. Non so se la birra sia ancora prodotta con Cascade come quando debuttò più di dieci anni fa, ma di sicuro non è il luppolo americano a caratterizzare questa bottiglia; corpo medio-leggero, carbonazione contenuta, abbastanza morbida al palato. Finisce discretamente secca, senza nessuna sorpresa, portandosi con sé una scia amara erbacea e vegetale. Il gusto è un po' monocorde, ed anche se c'è una buona intensità ed un buon livello di pulizia la bevuta risulta un po' anonima e priva di carattere. All'interno del panorama francese si colloca comunque ampiamente sopra il livello medio, non ci sono evidenti difetti e, se siete a Lione, la troverete indubbiamente un'ottima alternativa facilmente reperibile ai soliti blandi prodotti industriali.
Formato: 75 cl., alc. 6%, lotto 4506, scad. 04/2015.

mercoledì 19 febbraio 2014

Brewfist Heimdall

L’occasione per Brewfist di produrre la prima birra in stile non anglosassone nasce dalla collaborazione con il birrificio (brewpub) tedesco Freigeist  Non si tratta però, come forse ci si poteva attendere, di una birra dalla radici tedesche ma di una saison belga.  Malti Pilsner e Cara20, avena, segale e luppolata con Galaxy e Hallertauer Saphir, viene inizialmente chiamata Galaxie Saison.  Da quanto mi è sembrato di capire, dopo l’occasionale collaborazione la birra è entrata nella produzione stabile di Brewfist, assumendo il nome di Heimdall.  Leggo in rete che questa saison sarebbe “palesemente” dedicata al gruppo musicale dei Rockets  ma l’etichetta  (bella? brutta? de gustibus.. ) mi sembra anche un chiaro riferimento all’omonimo personaggio dei fumetti Marvel. Musica o fumetti che sia, viene presentata ufficialmente in Pazzeria a Gennaio 2013. Si presenta di colore arancio pallido opalescente, con riflessi leggermente dorati; la schiuma, bianca e cremosa, è generosa ed ha una buona persistenza.  Ricordo che le Saison sono uno stile birrario tipico della Vallonia, nella regione dall'Hainaut, del  Belgio di lingua francese. Saison, ovvero "stagione" in francese, indica appunto una birra con una forte propensione stagionale. Quella dei mesi più caldi, dove le alte temperature non consentivano di fare la birra, quando ancora non era stata inventata la refrigerazione. I birrai belgi le preparavano allora per tempo, con un grado alcolico abbastanza sostenuto ed una abbondante luppolatura per consentire a queste birre di "sopravvivere" sino al termine della stagione calda. 
Erano le birre che i contadini valloni bevevano per dissetarsi e rinfrescarsi nelle pause del duro lavoro.  E l’estate,  la vita nei campi, la raccolta della paglia sembrano quasi prendere forma nell’aroma di questa Heimdall, dall’etichetta così in stridente contrasto con quel mondo del passato: leggermente rustico, con sentori di paglia e spezie, soprattutto pepe (pizzichino alle narici),  e un bel carico di agrumi (lime e limone), quasi di sole. E sotto sotto c’è anche qualche nota più dolce di fragola (o Big Babol). Vivace in bocca, con un buon numero di bollicine ed un corpo medio, rimane una birra rustica ed un po’ ruvida, probabilmente per l’utilizzo della segale: crosta di pane, arancio, pompelmo, forse pesca gialla e passion fruit, con una bella acidità che rinfresca e disseta, come un Saison dovrebbe sempre fare.  Termina molto secca con un retrogusto leggermente erbaceo ma soprattutto zesty, ricco di scorza di lime e pompelmo. Profumata, pulita e molto piacevole, è rustica ma ti fa ogni tanto l’occhiolino con lievi note di fragola e frutta tropicale; l'unico dubbio che rimane è se godersela lentamente in un calice o se berne grandi sorsate da un più umile bicchiere a vaso, magari in aperta campagna. 
Formato: 33 cl., alc. 7.6%, IBU 35, lotto 3253, scad. 30/06/2014.

martedì 18 febbraio 2014

Aecht Schlenkerla Eiche Doppelbock

Schlenkerla si identifica per tutti (o quasi) i birrofili con la Rauchbier Märzen che viene prodotta dal birrificio Heller di Bamberga tutto l’anno. Diverso il discorso per la “succosa” Doppelbock, per esteso Aecht Schlenkerla Eiche Doppelbock, che viene invece prodotta solamente una volta l’anno e resa disponibile, di solito a metà dicembre, alla taverna nella bella casa a graticcio della centrale Dominikanerstraße di Bamberga. Ai distributori viene chiaramente spedita un po’ prima, in modo da arrivare nei pub e nei negozi nel mese di Dicembre. Come la Märzen, anche la Doppelbock viene prodotta con malti affumicati; la parola  tedesca “Eiche” indica che per questa birra il legno utilizzato per l’affumicatura è di quercia, e non di faggio come per le altre Schlenkerla. Il birrificio spiega come l’utilizzo della quercia, oltre a conferire alla birra ovviamente un differente profilo affumicato, ha anche un significato simbolico: mentre il faggio, ampiamente diffuso nelle foreste tedesche, era solitamente utilizzato come combustibile, il duro legno di quercia veniva invece soprattutto impiegato nelle costruzioni edili e navali. Le ghiande inoltre costituivano un prezioso alimento sia per gli animali che per gli uomini; raramente le querce venivano abbattute per altri scopi e, quando avveniva, era solamente per rare occasioni speciali. Il luppolo utilizzato proviene dalla regione dell’Halleratu (dovrebbe essere Hallertauer Mittelfrüh) e la birra matura per alcuni mesi nelle cantine del birrificio Heller. 
Doppelbock natalizia, quindi, dal limpido color ambrato carico, con riflessi ramati; si formano un paio di dita di schiuma color ocra, fine e cremosa, dalla discreta persistenza. L’affumicatura al naso è netta e dominante: aroma (quasi “grasso”) di pancetta affumicata, legno, carne, caramello. Ottima pulizia, grande intensità, per un naso che supera in ricchezza (ed in “grassezza”) quello della più diffusa Märzen. Se l’aroma è ricco, il gusto non è da meno, anzi: caramello, qualche lieve tostatura, frutta secca, legno, miele, biscotto al burro ma soprattutto tanta carne affumicata; man mano che la birra si scalda emerge anche qualche nota di dattero. E’ una gustosa birra da pasto che tuttavia potrebbe rappresentare essa stessa un gustoso pasto, se non fosse così subdolamente facile da ingurgitare: l’alcool (8%) è mascherato benissimo, il corpo è medio-leggero e la carbonatazione è modesta; un pericoloso mix di elementi che fanno scorrere molto più rapidamente del dovuto questo mezzo litro di Doppelbock.  Chiude ovviamente affumicata, ma c’è di più: mandorla amara e lieve warming etilico, che riscalda, soddisfa e rallegra. Non c’è molto altro da dire, è una splendida birra da bere e ribere senza mai pentirsene; peccato che la festa finisca troppo presto e che, anche facendone scorta, dovrete restarne senza da Agosto (data della scadenza) sino al prossimo Dicembre . 
Formato: 50 cl., alc. 8%, IBU 40, scad. 08/2014

lunedì 17 febbraio 2014

Manerba Cinghios

Torniamo a parlare della Manerba Brewery, il ramo “brassicolo” della azienda Avanzi, produttrice di olio e di vino sulla riva occidentale del lago di Garda.  E’ in particolare Alessandro Avanzi, appassionato di birra, a creare il brewpub con annesso ristorante che s’affaccia, dal 1999, sulla strada statale che da Desenzano raggiunge Salò. La produzione ha fatto un netto passo in avanti con l’arrivo del birraio Alfredo Riva (esperienze in Germania ed Inghilterra), affiancato oggi anche da Riccardo Redaelli. Quasi un percorso obbligato, per chi si è fatto le ossa in Germania, misurarsi con le Weizenbock, versioni più alcoliche  delle classiche (Hefe)Weizen, da bere soprattutto nei mesi meno caldi dell'anno;  Manerba ne produce una già da un po’di tempo, disponibile al brewpub, ma è solo dallo scorso Luglio che la (Dunkel) Weizenbock prende un nome (Cinghios) e viene anche imbottigliata. E’ di colore marrone con riflessi ambrati, velata; la schiuma è esuberante, pannosa, color ocra, e forma il consistente cappello tipico delle Hefeweizen. L’aroma offre i classici sentori di banana matura, una delicata speziatura e, man mano che la birra si scalda, una lieve presenza di caramello e, mi sembra, anche di cenere.  Semplicità, con pulizia ed intensità. Il percorso prosegue al palato senza grosse variazioni: banana e caramello, qualche lieve nota di agrumi, frutta secca, ed un interessante finale nel quale emerge una leggera nota di cioccolato. 
Merito di questa Cinghios è di allontanare subito il rischio di stucchevolezza (banana matura + caramello) che purtroppo affligge molte  Weizenbock o Dunkelweizen; non è certamente una birra amara, ma piuttosto ben bilanciata dall’acidità del frumento, che la rende dissetante e molto scorrevole, e da un bel finale secco.  La banana (amore e odio di molti birrofili) è molto più presente al naso che in bocca, dove c’è invece un bell’assortimento di caramello, frutta secca, banana e cioccolato al latte ed un retrogusto con un timido warming etilico. Corpo leggero, poche bollicine, si beve con grande  facilità, nonostante l’etichetta la descriva come una birra “piena, calda, avvolgente”:  è proprio sul fronte dell’intensità che secondo me si poteva osare di più e che la birra ne esce leggermente ridimensionata.  Questa Cinghios, dal livello già ampiamente soddisfacente, potrebbe diventare (con le dovute differenze),  una sorta di  Aventinus (Schneider) italiana e riscaldare davvero le fredde serata d’inverno, se solo acquistasse un po’ più di coraggio e di vigore. Formato: 50 cl., alc. 6.3%, scad. 22/10/2014

domenica 16 febbraio 2014

Crouch Vale Brand X

Del birrificio del Sussex Crouch Vale abbiamo già parlato in questa occasione; dopo l'ottima Brewers Gold e la meno convincente Amarillo, ecco una bottiglia di Brand X, credo l'ultima nata in casa Crouch Vale. Presto svelato il misterioso nome; si tratta di una Golden Ale che viene prodotta con un nuovo luppolo, ancora in fase sperimentale, che proviene dalla Yakima Vallery (USA). Il nome in codice del luppolo è EXP#05256, alias "Experimental Pine Fruit", disponibile dallo scorso Settembre/Ottobre 2013 e "discendente" di Apollo e Merkur; il produttore (Yakima Valley Hops) lo paragona al Summit ed al Simcoe.
Nel bicchiere è di colore oro pallido, quasi limpido; forma un discreto cappello di schiuma bianca, abbastanza fine e cremosa, dalla media persistenza. Il naso è davvero molto interessante e sfaccettato, per essere una "single-hop": ancora fresco e pulitissimo, delizia dapprima con profumi aspri di cedro, lime e limone, per passare a sentori più dolci di pesca nettarina, lampone, fragola. C'è anche un po' di ribes e, per uscire dal frutteto, qualcosa che ricorda il Big Babol. In bocca è una session beer (4.1%) molto leggera e scorrevole, poco carbonata, con un ben riuscito equilibrio tra la necessità di essere acquosa (ma non annacquata!) ed una buona morbidezza al palato, che non la rende affatto sfuggente. 
I malti sono fragranti (cereali, pane), abbondano gli agrumi (pompelmo rosa, lime) ma non c'è solo asprezza; come nell'aroma, vi è una controparte più dolce di pesca e fragola che ammicca un po' ma rende più morbida e meno monotematica la bevuta. Impeccabilmente pulita e facilissima da bere, è ovviamente molto secca e chiude con un retrogusto amaro molto "zesty" e lievemente erbaceo. Questa Brand X ha tutte le caratteristiche per essere una dissetante birra estiva da bere a secchi; in Italia non credo sia mai arrivata, e quindi non si pone il problema di farne scorta in attesa dei mesi più caldi dell'anno. Nel caso ve la trovaste di fronte in qualche pub inglese, non fatevela scappare anche in pieno inverno; è una profumatissima session beer da conversazione, di quelle che vi tengono compagnia sottovoce senza richiedere grosse attenzioni, se non quella di ordinarne una nuova pinta a cadenza regolare. Non so se questa nuova varietà di luppolo verrà definitivamente messa a catalogo e sarà disponibile regolarmente nei prossimi anni, ma il risultato ottenuto in questa Golden Ale di Crouch Vale è davvero degno di nota.
Formato: 50 cl., alc. 4.1%, scad. 01/10/2014.

sabato 15 febbraio 2014

Dogfish Head 120 Minute IPA

Non solo birraio ed imprenditore, ma anche prolifico scrittore, Sam Calagione pubblica nel 2006 il libro "Extreme Brewing: An Enthusiast's Guide to Brewing Craft Beer at Home". Il concetto di "birre estreme" è difficile da generalizzare: nel suo libro Calagione si riferisce soprattutto alla creazione di birre con ingredienti inusuali (spezie, frutta, ortaggi, erbe..), ma si può senz'altro definire anche estrema una birra dal contenuto alcolico del 20%. Nata nel 2003, è stata per lungo tempo la Imperial IPA più alcolica al mondo, prima di venir superata nel 2010 dalla Sink The Bismarck di Brewdog (41%); più recentemente è stata sorpassata anche dalla Octo-Pyroclastic Black IPA del birrificio francese Fleurac. Nel frattempo (2009), Sam Calagione aveva fatto alcuni accorgimenti sulla ricetta abbassando l'ABV da 20% a 18%. Difficile anche incasellarla in uno stile: nonostante l'etichetta dica "IPA", dopo averla bevuta vi rendete conto che non sarebbe neppure appropriato catalogarla come American Strong Ale o come American Barley Wine.
Nel corso della bollitura,  che dura appunto 120 minuti, la birra viene continuamente luppolata. Segue un continuo dry-hopping che avviene, quotidianamente, per tutto il mese in cui la birra riposa nel fermentatore; terminata questa fase, la birra viene lasciata maturare per un altro mese assieme a dei coni di luppolo. La potete bere fresca, come andrebbe normalmente fatto con tutte le birre molto luppolate, oppure anche invecchiare ("per oltre un decennio", assicura Calagione) come si può fare con le birre di una certa gradazione alcolica.
Passo al caso specifico, una bottiglia del 2012 (Febbraio, credo) che ha dunque compiuto due anni dall'imbottigliamento. All'aspetto è di colore oro antico con riflessi ambrati, praticamente limpida; notevole che (a 18%, non riportati in etichetta, tra l'altro) si formi ugualmente un discreto cappello di schiuma, biancastra, un po' grossolana ma dalla discreta persistenza. Se l'aspetto è un bel biglietto da visita, l'aroma non si rivela per nulla entusiasmante: è pulito ma abbastanza dimesso; c'è subito un incontro con l'alcool (bourbon), caramello, frutta candita e marmellata d'arancia. In bocca è ricchissima, viscosa ed opulente, con il corpo pieno e solo lievemente carbonata. La presenza di alcool è molto ben sopportabile; inutile negarla, c'è e si sente, scalda, ma non è mai particolarmente invadente. In grande evidenza i malti, con note di biscotto, toffee e caramello, frutta candita, soprattutto agrumi. Dopo due anni è ovviamente rimasto poco dell'abbondante luppolatura e la bevuta è inevitabilmente dolce, con un residuo amaro/resinoso che, anzichè rendere la birra amara, va a bilanciare la dolcezza della imponente base maltata. In questo senso è davvero sorprendente l'equilibrio che questa birra riesce a mantenere nonostante l'evidente evoluzione che ha subito. Chiude con un lungo retrogusto maltato, morbido, caldo ed etilico (bourbon) con un lieve presenza di frutta sotto spirito. Non c'è tuttavia molta complessità, gli elementi in gioco sono sempre quelli, anche se molto puliti e ben dosati; si sorseggia quindi senza particolare impegno ma con una leggera noia, soprattutto se la bottiglia è tutta per voi,  e lentamente iniziare ad avvertire l'effetto dell'alcool. Non l'ho mai bevuta fresca, ma a due anni d'età mi sembra una birra che si trova un po' in una terra di nessuno; perso l'amaro di gioventù, non ha ancora assunto quelle caratteristiche interessanti (vinose, marsalate, ossidate) tipiche del passaggio del tempo.
Calagione la consiglia in abbinamento alle mandorle affumicate (?), a carne affumicata, agnello alla griglia e gingersnaps (biscotti allo zenzero). Per l'immancabile il video di presentazione realizzato da Sam Calagione, andate qui. Per invece tentare di replicarla a casa, con le vostre pentole, vi consiglio di dare un'occhiata qui. Non ha probabilmente molto senso confrontarla con le due sorelle minori, la 60 e la 90 Minute IPA, visto che la 120 è una birra completamente diversa. Dovessi comunque scegliere tra le tre, la preferenza va in assoluto alla 90 Minute, e non per il luogo in cui l'ho bevuta per la prima volta.
Formato: 35.5 cl., alc. 18%, IBU 120, lotto 2012F.

venerdì 14 febbraio 2014

BrewDog Hardcore IPA

Sicuramente la prima "Imperial IPA" mai realizzata in Scozia, probabilmente (non ho trovato dati certi) anche la prima Imperial IPA di tutto il Regno Unito; è la Hardcore Ipa di Brewdog. Nasce con etichetta nera e lettere blu, con un ABV leggermente inferiore (9% anziché 9.2%) ed un diverso mix di malti e luppoli (Maris Otter Extra Pale Malt; Simcoe, Chinook, Amarillo, Warrior). Nel 2010 il cambio di ricetta e la medaglia d'oro nella categoria delle Imperial IPA alla World Beer Cup di Chicago. Nella strada che porta sino ad oggi si trovano anche una versione prodotta con luppoli neozelandesi (Hardcore NZ), una rietichettatura per il mercato scandinavo (Hard Høst IPA), una rietichettatura - si vocifera - per la catena di supermercati Tesco (American Double IPA), una edizione meno alcolica apposita per un importatore danese (Hårdkogt IPA), ed un blend (I Hardcore You) con la IPA di Mikkeller I Beat you.  Non da molto accanto al classico formato BrewDog da 33 cl sono apparse anche le più generose bottiglie da 66.  
Maris Otter, Crystal e Caramalt  sono i malti utilizzati;  altrettanti i luppoli, Centennial, Columbus e Simcoe, usati anche in dry hopping. Ecco la Hardcore IPA attuale, che si presenta nel bicchiere di un bel color ambrato carico, riflessi rossastri, velato; la schiuma, color ocra, ha una buona persistenza, ha trama fine e compatta, cremosa.
L'aroma è forte, marcatamente dolce; dominano mango, passion fruit, ananas maturo e caramello, relegando in secondo piano pompelmo ed una lieve presenza di aghi di pino. Non appare freschissimo, ma l'intensità è senza dubbio notevole. Uno scenario pressoché analogo si presenta anche al palato: ingresso dolce, di biscotto (al burro) e caramello, con abbondanza di frutta tropicale. L'amaro fa quasi fatica ad emergere tra la solida base di malti ed il dolce della frutta, rivelandosi soltanto a fine corsa, in un finale resinoso e leggermente pepato. Non brilla di freschezza, ma è comunque una birra molto solida, dal corpo medio-pieno, poco carbonata ed abbastanza morbida in bocca. Sebbene sia impossibile trangugiarla, nasconde molto bene il suo considerevole carico alcolico (9.2%) e chiude discretamente secca, con lieve warming etilico ed un amaro resinoso e vegetale. Una IPA che cammina a testa dritta da capo a coda, senza nessuna variazione e con poche emozioni; più intensa che elegante, quasi più dolce che amara. Promette dal 2007 fuoco e fiamme in etichetta ("Hopped to hell, then dry-hopped to hell too", "an extreme beer rollercoaster"), ma nel frattempo il Regno Unito è cambiato, e diversi microbirrifici nati in questi anni hanno realizzato delle birre che danno parecchio filo da torcere a questa Hardcore.
Formato: 66 cl., alc.  9.2%, IBU 150, lotto 205, scad. 28/08/2014.

giovedì 13 febbraio 2014

El Cantero IPA

Il primo incontro con gli spagnoli della  Cerveza Artesanal El Cantero di Puerto Lumbreras (Murcia) non è stato sicuramente dei migliori con una Imperial (IPA) molto deludente. Oggi tocca alla sua sorella minore, una IPA sulla quale anche questa volta non sono riuscito a recuperare nessuna informazione in rete. Non resta che passare quindi subito al bicchiere, nel quale la birra si presenta di color dorato con riflessi arancio, leggermente velata; la schiuma, bianca, è molto persistente, fine e cremosa. Il naso ha qualche lieve problema (DMS) che tuttavia non impedisce di apprezzare un discreto bouquet di arancio, pompelmo e qualche sentore più dolce di frutta tropicale.  In bocca c’è buona intensità e pulizia, con l’amaro, resinoso e leggermente pepato, che pizzica da subito ai lati della lingua per poi intensificarsi nel corso della bevuta; c’è però un buon equilibrio che è dato dai malti (biscotto) e da note di pompelmo e dolce frutta tropicale. Se il gusto è gradevole, questa IPA pecca però di scorrevolezza, non tanto per l’alcool (6.9% - avvertibile, ma in modo discreto) né per il livello di amaro, ma per la pesantezza della bevuta. Il corpo è medio, la carbonazione è discreta, il finale è abbastanza secco, con retrogusto lungo amaro, che raschia un po’, resinoso e vegetale. Un po’ sgraziata e rozza,  discretamente fresca (solo un po’ di marmellata d’agrumi) è comunque un passo avanti rispetto alla Imperial pur avendo anch'essa ancora più di un problemino da risolvere.
Formato: 33 cl., alc- 6.9%, lotto  L09, scad. 10/2014

mercoledì 12 febbraio 2014

Emelisse White Label Imperial Russian Stout (Ardbeg Barrel Aged)

Ritorna la Brouwerij Emelisse ad un anno circa dall’ultima bottiglia stappata; dopo la  “trilogia” BIPA DIPA TIPA   (Black, Double e Triple IPA),  passiamo ad una Imperial Stout; il birrificio olandese esiste dal 1998 ma è solo ultimamente che ha iniziato a percorrere la via degli invecchiamenti in legno.  Così, ecco che la Imperial Russian Stout della casa è stata messa a maturare in una vastissima tipologia di botti, per la gioia di tutti i beer geek; le varianti sono sostanzialmente due: la  Imperial Russian Stout “classica” (con solamente due versioni barricate in botti che hanno ospitato Laphroaig  e Jack Daniels) e la “White Label Imperial Russian Stout” che ha invece subito un numero elevato di moltiplicazioni, principalmente in botti di Whisky: Bowmore, Peated Jack Daniels, Ardbeg, Bunnahabhain, Caol Ila, Glen Elgin, Wild Turkey, Jack Daniels, Laproaig e Peated Bowmore. C’è da ubriacarsi soltanto a leggere l’elenco. Non sono riuscito a trovare se ci sia differenza nella birra di partenza tra la  Imperial Russian Stout  e la White Label Imperial Russian Stout; il contenuto di alcool (11%) è identico. Dal cilindro delle botti è capitata quella invecchiata in botti che hanno ospitato Ardbeg, quello che viene considerato il single malt scozzese più torbato. E’ una Imperial Stout di colore marrone scurissimo, che non forma praticamente schiuma nel bicchiere; dalle poche bolle grossolane della superficie si forma un leggero pizzo sul bordo del bicchiere, color marrone.  
L’affumicatura al naso è netta, l’aroma è “grasso”, odora quasi di carne e il pensiero va immediatamente alla pancetta affumicata; c’è anche una discreta presenza di legno, umido, ed un leggero torrefatto che fa però molta fatica a farsi strada nella coltre d’affumicato. In bocca è piena, oleosa, con pochissime bollicine: il gusto è leggermente più sfaccettato, ma anche qui la scena è dominata dalla pancetta affumicata; a contorno un po’ di caffè, tostature, un po’ di zucchero e un chiara presenza alcolica che ricorda (whisky) il contenuto passato delle botti. E’ chiaramente una birra da sorseggiare, anche se il calore etilico è abbastanza morbido e non picchia particolarmente forte; i malti scuri le portano una leggera acidità.  Lascia un finale molto lungo ed intenso, che non regala sorprese: alcool, torbato, torrefatto e caffè.  E’ ben fatta e pulita ma non esattamente bilanciata, con l’affumicatura che spadroneggia in lungo ed in largo;  pur amando i cibi affumicati,  ho comunque trovato questa Imperial Stout eccessivamente caratterizzata dal torbato. L’inizio è intenso e piacevole, ma i trentatré centilitri diventano alla lunga un po’ troppi, anche se sorseggiati lentamente; la dose più appropriata mi sembra essere quella, più ridotta, di un bicchiere di Ardbeg. 
Formato: 33 cl., alc. 11%, IBU 75, lotto A, scad. 06/2015.

martedì 11 febbraio 2014

Riedenburger Dolden Sud IPA

Non è certo un nome nuovo quello della Riedenburger Brauhaus Ökobrauerei, dove "Öko" sta per Ökologisches: il birrificio bavarese è dal 1866 di proprietà della famiglia Krieger e dal 1994 produce esclusivamente birre biologiche, commercializzate anche con il marchio Plankstettener. I loro prodotti sono reperibili abbastanza facilmente in Italia (soprattutto nei negozi di alimentari specializzati in prodotti biologici) dove però di solito trovate solamente Helles, Dunkel, Weizen e, se siete fortunati,  una Doppelbock.  Meno facile da reperire, ma ugualmente disponibile da noi, è anche la loro nuova produzione, una IPA, o meglio una “Bavarian IPA”; biologica per metà (i luppoli non lo sono), dovrebbe essere prodotta (per la maggior parte) con luppoli bavaresi:  Saphir, Spalter, Hallertauer Mittelfrüh, Cascade, Chinook, Centennial, Amarillo e Pilgrim  sarebbero quelli utilizzati. Non ho trovato molte conferme in rete sulla provenienza dei luppoli, anche se qualcuno parla di una varietà di Cascade coltivata in Germania; di certo non credo possa esistere una varietà tedesca di Amarillo, visto che è una varietà  protetta dal “brevetto” delle Virgil Gamache Farms. Abbiamo quindi una IPA biologica e bavarese, ma per metà. Il nome, “Dolden Sud”, dovrebbe se non erro riferirsi alla infiorescenza (Dolde) della pianta di luppolo. Di sicuro la pulizia e la “precisione” tipica delle birre bavaresi è invece molto presente in questa bottiglia: molto gradevole l’aspetto, di color oro carico, velato, con un impeccabile cappello di schiuma bianchissima, fine, cremosa, dalla buona persistenza. 
Anche l’aroma brilla di pulito, anche se non d’intensità; c’è ancora buona freschezza nel pompelmo, nell’arancio, in qualche lieve accenno di frutta tropicale, di miele millefiori e qualche sentore erbaceo, forse di aghi di pino.  Molto bavarese anche in bocca; se il corpo è più verso il medio che il leggero, la facilità di bevuta è paragonabile a quella di una Helles , davvero altissima.  Al palato c’è quasi più biscotto che crosta di pane, con un equilibrio perfetto – addirittura noioso – tra il dolce che richiama leggermente il miele ed i frutti tropicali dell’aroma e l’amaro della scorza di pompelmo; finisce con una secchezza non invidiabile (un po’ di burro) ed un po’ timida, senza spingere troppo il pedale dell’amaro, con qualche nota erbacea, di pompelmo e di resina. Una vera IPA bavarese, allora ?  Se si cerca  spesso si  trova ed è così anche in questa birra: molto tecnica, pulita e ben fatta, quasi senza sbavature come da tradizione tedesca;  la base di malto tra pane e miele ricorda un po’ le Helles di Monaco,  i luppoli sono invece tenuti sapientemente al guinzaglio quasi nella riverenza di una tradizione che vede il palato bavarese poco abituato all’amaro. Il risultato è molto godibile, la bottiglia evapora in pochi minuti ma risulta abbastanza avara di emozioni, fredda, e non per la temperatura di servizio.  Vi lascio con una domanda aperta. In Germania mi dicono che la  Dolden Sud da trentatré si trovi anche a  1.20/1.30 Euro; immaginate cosa accadrebbe se alla Riedenburger avessero anche solo la metà della comunicazione/marketing di Brewdog ed un po’ di voglia di osare ? 
Formato: 33 cl., alc. 6.5%, IBU 55, lotto 12, scad. 30/10/2014.

lunedì 10 febbraio 2014

Samuel Smiths Yorkshire Stingo 2011

Probabilmente sarebbe tutto così diverso se Samuel Smith fosse un birrificio "alla moda", con una presenza massiccia sui social network, o uno di quei birrifici americani che ogni anno commercializzano una birra per assaggiare la quale la gente si mette in fila per strada dalla notte prima. Invece Samuel Smith rispecchia la flemma e la tradizione dello Yorkshire inglese, a partire dalle etichette - così ancora retro - delle proprie birre, per arrivare al nome scelto. Stingo è infatti un nome che sa di Yorkshire, perché è da quelle parti che venivano un tempo chiamate (e forse qualcuno lo fa ancora) le birre forti, le ST-rong Ales. C'è una sorta di canzoncina che i bambini cantano mentre giocano, che recita più o meno così: "The farmer likes a glass of beer, I think he calls it Stingo ! S, t, i, n, g, o, S, t, i, n, g, o ! I think he calls it Stingo !".
Nonostante le solidi radici nella tradizione brassicola dell'Inghilterra del Nord, la Yorkshire Stingo di Samuel Smith nasce solamente nel 2008; casualmente - o forse no - sono passati esattamente 250 anni dalla fondazione della Old Brewery di Tadcaster, ora Samuel Smith. Eppure al birrificio si affrettano subito a smentire - quasi con timidezza - che no, non si tratta assolutamente di una birra celebrativa. Non credo sia prodotta solamente una volta l'anno, ma le bottiglie sono comunque millesimate; la birra fermenta in enormi vasche aperte di legno, quadrate, e viene poi messa ad invecchiare in cask che hanno precedentemente ospitato altre birre di Samuel Smith (alcuni con oltre cento anni di vita, dicono) per almeno un anno prima di essere messa in vendita. 
La gradazione alcolica importante (9%) la renderebbe una buona candidata per un ulteriore invecchiamento in cantina ma alla Samuel Smith dichiarano che non è così, che la birra è già pronta e perfetta per essere bevuta quando viene commercializzata, e non necessita di passare tempo in cantina. E' di uno splendido color ambrato carico, quasi limpido, con intensi riflessi rossastri; la schiuma, molto persistente, è ocra, fine e compatta, cremosa. Il naso è dolce, zuccherino, ricco di caramello, melassa, canditi, uvetta e datteri; l'aroma è di modesta intensità, ma è molto pulito, ricordando leggermente un vino liquoroso. Il percorso prosegue in linea retta senza nessuna deviazione anche in bocca: ritroviamo in toto gli elementi caratterizzanti dell'aroma, con qualche nota in più di biscotto al burro e prugna disidratata. Al contrario di quanto l'aroma poteva far pensare, il gusto è meno dolce del previsto, con una secchezza finale quasi vinosa/tannica e qualche nota legnosa. L'alcool è morbido ed accompagna tutta la bevuta stemperando la dolcezza dei malti, con una chiusura leggermente amaricante di frutta secca, soprattutto mandorla amara. Birra solida, ricca di frutta, dal corpo medio e poco carbonata, che scalda il palato ma che si beve senza troppo impegno; non ci sono fuochi d'artificio, ma sostanza, pulizia ed intensità. Si presta benissimo ad abbinamenti gastronomici (bevo sempre fuori pasto ma la butto lì: carni rosse, selvaggine, formaggi stagionati) e, sebbene il birrificio non lo dica, anche ad un invecchiamento in cantina che potrebbe spingerla ulteriormente nel territorio dei vini liquorosi e "marsalati".
Formato: 55 cl., alc. 9%, lotto 11158, scad. 06/2014



domenica 9 febbraio 2014

Toccalmatto Working Class

Debutta nella primavera del 2011 la Working Class del Birrificio Toccalmatto; anteprima a marzo, a Rimini, durante Selezione Birra, e poi il 2 aprile al Ma Che Siete Venuti A Fa' di Roma; si tratta di una Mild Ale, uno stile (quasi) in via di estinzione che è stato "salvato" grazie ai produttori di birra artigianale che lo hanno riscoperto e riproposto al pubblico.
Toccalmatto ne fa un'interpretazione particolare, sopratutto per quel che riguarda la luppolatura, affiancando al britannico Bramling Cross il giapponese Sorachi Ace. La Working Class non compare sul sito ufficiale del birrificio; né tra le birre stagionali o speciali, né tra quelle prodotte tutto l'anno. Non so se si tratti di una dimenticanza, o se effettivamente questa birra non sia attualmente più prodotta. 
Bottiglia del 2012, quindi non esattamente fresca, che si presenta di un bel color marrone scuro, con riflessi rossastri; la schiuma è prorompente, color beige, fine, molto cremosa e molto persistente. L'aroma apre con note fruttate, si tratta di un mix non esattamente definibile ma coesistono sentori di mela e di pera, forse agrumi, ed una leggera speziatura quasi pepata. Una volta dissipatasi la schiuma, ecco il caffè, l'amaretto, qualche lieve nota di cioccolato. 
Purtroppo l'abbondante schiuma è indizio veritiero di un'abbondante (eccessiva) carbonazione che sorprende chi si aspettava una tranquilla Mild (nomen omen) inglese; il corpo è molto leggero, con una spiccata acquosità. E' necessario lasciare la birra per un po' di tempo nel bicchiere affinché le bollicine si "calmino" e si riesca finalmente ad apprezzarne il gusto. Ci sono tostature, qualche lieve nota di caffè che sono bilanciate da una leggera dolcezza fruttata che richiama in parte l'aroma; molto facile da bere - dopo la "sgasatura" - chiude secca, con una leggera acidità ed un bel finale leggermente tostato. "Lieve" e "leggera" sono probabilmente le parole che ricorrono di più nella descrizione di questa bevuta; la Working Class è appunto una birra defaticante, di quelle che ne puoi bere un paio di pinte dopo il lavoro. Bene dunque la leggerezza, bene il suo essere spiccatamente watery, male invece l'eccessiva carbonazione che obbliga ad una lunga attesa prima di poter cogliere un po' di anima inglese, quelle birre "calde" e quasi piatte che lasciano spesso perplessi i turisti italiani capitati quasi per caso in un "vero" pub inglese.
Formato: 75 cl., alc. 3.4%, lotto L12057, scad. 21/07/2014.

sabato 8 febbraio 2014

Struise Black Albert

Oggi si parte da lontano, nella piccola cittadina di Lovell, USA, nello stato del Maine: qui si trova l'Ebenezer's Restaurant & Pub, che il sito di rating Beer Advocate ha per cinque anni di fila eletto miglior pub americano. Gestito dal 2004 da Jen and Chris Lively, vi accoglie con trentacinque spine ed un impressionante selezione in bottiglia che conta un migliaio di etichette, con ampia selezione vintage. Nel 2007, per celebrare il terzo anniversario del locale, Chris contatta il birrificio belga De Struise per avere una birra speciale da offrire durante l'annuale Belgian Beer Festival che si tiene presso l'Ebenezer. Gli "amici" Struise decidono di produrre una birra completamente nuova, in onore di Alberto II, sesto re belga, utilizzando solamente ingredienti belgi. Il risultato - molto soddisfacente - è una Imperial Stout che viene chiamata Black Albert. Terminato il festival, la birra continua comunque ad essere prodotta in Belgio dagli Struise mentre Chris decide di mettere quella che è avanzata ad invecchiare in botti di bourbon "Four Roses". Anche questo esperimento risulta molto bene riuscito, e la "Four Black Roses" ottiene un grande successo all'Ebenezer; gli Struise decidono ovviamente di fare lo stesso in Belgio, ma preferiscono evitare problemi legali (copyright) e scelgono di non utilizzare il nome Four Black Roses. La Black Albert finisce comunque in botte, diventando la base per una serie molto ampia di birre barricate che vengono in seguito commercializzate dagli Struise; lo stesso esperimento (dodici mesi in botti di bourbon Black Roses) prende allora il nome di Cuvée Delphine. Segue poco dopo la serie Black Damnation (2010-2012); a seconda della versione,  la Black Albert viene di nuovo invecchiata in diverse botti, oppure il 50% di Black Albert serve come base per un blend con altre birre degli Struise o di altri birrifici.
Restiamo per il momento fermi alla versione basica, quella Black Albert prodotta per la prima volta nel 2007. Assolutamente nera, maestosa nella sua oscurità; la schiuma è splendida, color marrone chiaro, molto cremosa e molto persistente, al punto che ne rimane un "dito" nel bicchiere quasi sino alla fine della bevuta. L'aroma è incredibilmente ricco e complesso, sorprendentemente dolce e zuccherino rispetto al colore della birra: fichi, uvetta, tortino al cioccolato, canditi, liquirizia, caramello bruciato, panettone (con vino moscato, o passito, nell'impasto), cioccolato amaro al rum. Basterebbe solamente questo per essere già soddisfatti, ma la festa deve ancora iniziare: in bocca è imponente, massiccia, con un corpo pieno, quasi masticabile. La carbonazione è scarsa, la consistenza è morbida, cremosa, assolutamente appagante, quasi vellutata al palato. Più che una birra risulta un vero e proprio dessert o, volendo, un pasto intero. Prugna disidratata, tostature, liquirizia, datteri, cioccolato amaro, zucchero candito, qualche nota legnosa: l'alcool (13%) è ovviamente presente ma è una birra che si beve con una buona facilità. Proprio quando il palato è saturo di sapori, c'è una lieve acidità che porta un leggero sollievo prima di un retrogusto opulente, ricco di caffè, cioccolato amaro, rum, tostature e qualche nota di cenere; la bocca rimane quasi avvolta da una coltre calda di frutta sotto spirito, densa, appiccicosa. Una birra intensissima, complessa e maestosa, da assaporare e gustare sorso dopo sorso; come detto, si lascia bere abbastanza facilmente presentando il conto quando è ormai troppo tardi. Ma dopo aver bevuto una Black Albert, potete considerare la vostra serata conclusa ed andare a letto felici e soddisfatti. 
Formato: 33 cl., alc. 13%, lotto "D", scad. 09/2015.