Non possiamo dire che la Brasserie Fleurac sia uno dei nuovi protagonisti della “Craft Beer Revolution” francese. E’ infatti attivo dal 2008, fondato da Virginie De Bodt e Grégory Murer, due belgi appassionati di birra che nel 2005 si sono trasferiti in Francia; nel 2007 aprono La Fleuracoise, un’azienda che si occupa di creazione e manutenzione di siti internet e, l’anno successivo utilizzano gli spazi di un vecchio granaio adiacente alla loro casa per inaugurare la Brasserie Fleurac. Della produzione si occupa Gregory Murer, homebrewer di lunga data e di ritorno da un periodo di formazione in Belgio presso La Binchoise.
Ad una prima gamma di birre classiche (bionda/bianca/ambrata/scura), dal 2010 se ne sono progressivamente aggiunte altre più luppolate che guardano in direzione Stati Uniti: la prima è una Brune Triple IPA (ovvero una Brown IPA), poi rinominata Buffalo Riding, alla quale si aggiungono una IPA chiamata Cowboy & Indien, una Quadruple Black IPA (11% ABV !) chiamata Black Bear Beer e un’altra IPA chiamata L’Amerindienne, descritta in etichetta come una “Simple Blonde IPA”, che andiamo a stappare. 120 IBU sbandierati in etichetta, un valore teorico – difficilmente contestabile da chi beve – che, dopo aver bevuto la birra sembra abbastanza improbabile; ma il problema principale di questa L’Amerindienne non è certamente solo l’amaro. Chi segue questo blog da tempo avrà avuto occasione di leggere impressioni non molto positive sulle oltre settanta bottiglie proveniente dai birrifici francesi; birre con molti difetti, alcune volte imbevibili, ma soprattutto molto anonime.
Il vento di novità che la “Craft Beer Revolution” sta soffiando anche in Francia ha portato, oltre a nuovi produttori, anche un rinnovamento nella gamma di quelli attivi già da diverso tempo; il "nuovo" spesso coincide con l’utilizzo di luppoli americani, seguendo lo stesso percorso intrapreso da analoghe “rivoluzioni” avvenute in Inghilterra, nei paesi Scandinavi ed anche in Italia; si corre veloce, si snocciolano etichette con IBU centenari ma purtroppo permangono quei problemi qualitativi che ho spesso riscontrato in diversi microbirrifici francesi incontrati in questi anni. L’Amerindienne ti dà il benvenuto con un aroma di formaggio ammuffito, fenoli, pipì di gatto e ci vuole forza di volontà per mantenere il naso vicino al bicchiere sino ad avvertire qualche remoto sentore di agrumi. Pochissimo corpo e tanta acqua in bocca, con una discreta quantità di bollicine; la bevuta passa dall’acqua dell’imbocco ad un amaro vegetale, molto sgradevole, che ripropone in parte le nefandezze dell’aroma. Se è un’impresa annusarla, è praticamente impossibile berla. Finisce nel lavandino, rimane un bel color ambrato (ma allora perché chiamarla Simple Blonde IPA ?) ed una corretta “testa” di schiuma biancastra, cremosa e dalla discreta persistenza. Più che una American IPA, un incubo. Questa volta sembrerebbe non reggere neppure la storia della “bottiglia sfortunata”; per quel che conta, su Ratebeer ottiene un 30/100.
Formato: 33 cl., alc. 5%, IBU 120, lotto S4, scad. 05/2014
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