lunedì 30 novembre 2015

NovaBirra Big Nose Triple

Secondo appuntamento con NovaBirra, beerfirm belga fondata da Emanuele Corazzini, rientrato in Belgio dopo sei anni passati negli Stati Uniti, per dare vita al suo progetto inaugurato nel 2008 in quel di Braine-l'Alleud (una trentina di chilometri a sud di Brussels) come un “Atelier de Brassage” dove poter comprare e degustare birre, partecipare a laboratori e soprattutto imparare l’homebrewing. Accannto a queste attività  NovaBirra realizza le proprie ricette su di un impianto pilota e produce poi altrove in volumi più consistenti. 
Dopo la saison Li P'tite Gayoûle ecco la Tripel  “Big Nose” che dovrebbe essere stata realizzata presso gli impianti di De Ranke, anche se l’etichetta non fa chiarezza in questo senso. “Triple” non solo per il riferimento allo stile interpretato ma anche riguardo ai numero di malti (Pilsner, Pale Ale e Monaco) e luppoli (Nugget, Willamette e dry-hopping di Triskel) utilizzati. 
All’aspetto si presenta quasi limpida e ramata, con qualche riflesso dorato: la schiuma biancastra è assolutamente perfetta nella sua trama fine, nella sua cremosità, nella sua compattezza e persistenza. La messa in bottiglia dovrebbe risalire all’ottobre 2014 e i dodici mesi passati non sono di certo l’ideale per apprezzare il dry-hopping che è all’orgine del nome scelto (Big Nose): l’aroma è pulito e mantiene comunque un’ottima intensità, quello che viene a mancare è ovviamente la fragranza. Sentori floreali e di miele, marmellata d’arancia amara, frutta candita, biscotto ed una delicata speziatura che suggerisce il pepe ed il coriandolo.
Specchio quasi fedele dell'aroma, il gusto ripropone biscotto e miele, caramello, frutta candita, marmellata d'agrumi e zucchero candito. La bevuta è piuttosto dolce e la generosa luppolatura non più fresca aggiunge probabilmente altro carico; c'è comunque una discreta secchezza e un amaro finale intenso quanto basta per riportare equilibrio, anche se le note vegetali non impressionano per raffinatezza. In conclusione rimane un morbido ma ben avvertibile alcool warming, quasi un ammonimento a non fidarsi della facilità di bevuta e a non sottovalutare una birra che, come spesso accade quando si parla di Belgio, nasconde molto bene la propria gradazione alcolica dichiarata. Vivacemente carbonata ma ugualmente morbida e gradevole in bocca, questa Tripel dal corpo medio e dal "grosso naso" paga un po' lo scorrere del tempo ma si difende ancora molto bene, risultando alla fine una birra ben fatta, molto pulita, intensa e facile da bere al tempo stesso, con un generoso profilo luppolo che sicuramente meritava d'essere apprezzato parecchi mesi fa.
Formato: 33 cl., alc. 9%, lotto 26T1 OKT14, scad, 21/10/2019, pagata 2.50 Euro (food store, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 29 novembre 2015

Omnipollo Noa Pecan Mud Cake

Una delle beerfirm più chiaccherate tra quelle arrivate in Italia nel 2015 è senz'altro Omnipollo, la creatura svedese dell’ex-homebrewer Henok Fentie e del socio Karl Grandin, disegnatore grafico di tutte le serigrafie che caratterizzano le bottiglie. A Stoccolma è stato da poco inaugurato  l'Omnipollos Hatt, un bar dove potrete assaggiare le produzioni della beerfirm che attualmente vengono realizzate in Belgio (De Proef) ed in Olanda (De Molen).
Nell'ultimo periodo Omnipollo sembra aver definitivamente abbracciato il concetto di "birra disney", elevandolo all'ennesima potenza; alle birre "normali" degli esordi se ne sono affiancate altre sempre più stravaganti, soprattutto IPA con aggiunta di frutta e Imperial Stout arricchite da golosi ingredienti. Nel bene o nel male, sappiatelo.
Henok Fentie ha dichiarato che a dodici anni il suo sogno era di diventare un pasticciere; due decenni più tardi prova a coronarlo in forma liquida. Rischiosa ma molto ben riuscita e convincente la Hypnopompa bevuta qualche mese fa, una massiccia imperial stout prodotta con marshmallow e baccelli di vaniglia tahitiana. Una volta realizzata un'ottima "base" di una Imperial Stout diventa facile per lo "chef" sbizzarrirsi e partorirne potenzialmente infinite versioni. 
Ritento la fortuna con la Noa Pecan Mud Cake che, da quanto ho capito, viene prodotta con aggiunta di pecan (noce americana) e di caramello; la "mud cake" è invece la cosiddetta "torta di fango" americana, così chiamata in quanto dopo la cottura mantiene un interno di cioccolato morbido e denso, simile appunto al fango. Viene realizzata presso gli impianti di De Molen. 
Assolutamente nera, forma una bella testa di schiuma beige scuro cremosa e compatta, dalla buona persistenza.  L'aroma trasporta idealmente in una pasticceria: praline di cioccolato al latte, granulato di arachidi, pecan, vaniglia, cacao in polvere, gianduia, fudge, caffellatte, nocciolato e senz'altro avrò dimenticato qualcosa; i profumi sono ovviamente molto dolci e quasi sfacciati, riuscendo tuttavia a mantenere una certa eleganza senza dare nessuna impressione d'artificiosità.  
Un "naso" così goloso invoglia ad assaggiare la birra subito, senza indugiare: bene la sensazione palatale con poche bollicine ed una consistenza più oleosa che cremosa, comunque abbastanza morbida. Il gusto inizia continuando il percorso dell'aroma in forma di dessert liquido: biscotto, pan di spagna imbevuto nell'alcool, cacao, gianduia, vaniglia, arachidi e frutta secca. La prima parte della bevuta, dolce, è golosa quasi quanto l'aroma ma poi la birra si perde un po' per strada: l'ABV dichiarato è 11% ma l'alcool è fin troppo nascosto, facendo sentire la sua mancanza. La dolcezza, più che dall'etilico, è stemperata dall'acidità dei malti scuri e da un finale amaro dove le tostature non sono eleganti come dovrebbero e spunta una nota terrosa che mi pare un po' fuori dal contesto di una birra-dessert: io avrei preferito l'amaro del caffè o del cioccolato fondente. Nel retrogusto ci sono una carezza etilica troppo timida ed una nota di cenere/affumicato. 
Molto più convincente al naso che al palato, la Noa Pecan Mud Cake di Omnipollo non va comunque presa troppo sul serio: chiamatela se volete "birra-Disney", ovvero una sorta di gioco, divertente, che può far inorridire alcuni o piacere ad altri. Personalmente ho sentito la mancanza di corpo e di cremosità al palato: se birra-dessert dev'essere, la vorrei davvero quasi masticare. Anche l'alcool è troppo timido: i sapori in gioco sono tanti ma non perfettamente amalgamati tra loro e la loro l'impalcatura andrebbe  meglio sostenuta con maggior "warming etilico". Immagino sia quello che accade nella sua immancabile versione barricata "Noa Bourbon": sappiatelo prima di procedere all'(esoso)acquisto di una o dell'altra.
Formato: 33 cl., alc. 11%, lotto e scadenza non riportati, 9.50 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 28 novembre 2015

Birra del Borgo Keto Reporter

Nasce nel 2009 la Keto Reporter di Birra del Borgo, una leggera variazione di una birra, la Reporter, oggi non più prodotta; l'idea viene qualche anno prima a Leonardo Di Vincenzo durante una serata di degustazione sigari al club Maledetto Toscano. Alla Reporter vengono quindi aggiunte foglie di tabacco Kentcky Toscano in infusione; la ricetta viene completata con malti Pils, Crystal e Chocolate, ed una luppolatura di Northern Brewer per l'amaro e di E.K. Golding e Willamette per l'aroma. La descrizione commerciale recita "una birra scurissima, nera, impenetrabile, con un naso molto ricco, che offre sensazioni di tostature, tabacco, speziato e mallo di noce. In bocca ritroviamo le tostature, una leggera acidità e il tabacco che regala toni pepati, quasi piccanti. Molto ampia, lunga, complessa, specie rispetto al basso grado alcolico".
Versata nel bicchiere si presenta di color ebano scuro con uno splendido cappello di schiuma beige, fine e cremosa, molto persistente. Al naso sentori di frutti di bosco (soprattutto mirtilli), cioccolato al latte, tostature, lieve note di agrumi e una delicatissima sensazione di tabacco e di cenere. La pulizia è buona, mente l'intensità è un po' carente. 
Fin qui tutto bene ma al palato la sorpresa è davvero tanta: nel contesto di una porter non ti aspetteresti un domino di agrumi e di caramello rispetto alla componente "scura", rilegata molto in sottofondo con leggere tostature e liquirizia. Bene l'intensità, bene la sensazione palatale, discreta la pulizia del gusto: birra poco carbonata, morbida e molto scorrevole al tempo stesso.  La bevuta risulta quasi dolce, con l'amaro (più luppolo che tostature) che esce dal guscio solo in chiusura; nel retrogusto fa finalmente capolinea una suggestione di tabacco per tentare di tener fede a quanto promesso in etichetta.
Bottiglia che mi lascia piuttosto perplesso: l''avevo già bevuta un po' di anni fa, con impressioni piuttosto diverse. Non so se la ricetta sia stata rivisitata o se si tratti semplicemente di un lotto/bottiglia un po' fuori standard che ha davvero poco da spartire sia con la descrizione commerciale che con l'idea di una porter (al tabacco) 
Formato: 33 cl., alc. 5.2%, lotto LS41914, scad. 01/2017, 2.50 Euro (drink store, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 26 novembre 2015

Ellezelloise Quintine Blonde

Nel 1993 l'esperto birraio Philippe Gérard realizza finalmente il suo sogno di mettersi in proprio e, ristrutturata la propria casa di campagna, fonda la Brasserie Ellezelloise, con la sua gamma di birre chiamate Quintine; il nome è quello di leggendaria strega che viene anche raffigurata in etichetta a cavallo del classico manico di scopa. La produzione raggiunge il picco nel 2006 con 1600 hl di birra ma in quel stesso anno Philippe, ormai in età pensionabile, vende il birrificio alla Brasserie des Géants (ovvero Brasserie Goliath). Dall'unione dei due birrifici, che continuano ad operare con i propri marchi nei rispettivi impianti, nasce la Brasserie de Légendes;  lo scorso giugno i proprietari Pierre Delcoigne e Vinciane Wergifosse hanno finalmente ottenuto i permessi per costruire una nuova e più grande sede produttiva che consentirà di aumentare i volumi: impossibile sapere al momento se saranno mantenuti operativi tre siti produttivi o se tutte le birre verranno realizzate con il nuovo impianto. Nel frattempo potete ancora assaggiare le birre nei weekend alla taverna "Au Chaudron des Légendes", adiacente alla casa di campagna di Ellezelles. 
Il 26 ottobre del 1610 la trentottenne strega Quintine fu arsa in un rogo pubblico; tuttavia vi potrebbe ancora capitare d'incontrare il suo fantasma nei dintorni di Ellezelles; nel caso, non dimenticate di accarezzarle la testa e di pronunciare, con accento vallone, la seguente formula: "HOUP, HOUP, RIKI, RIKI, RIKETE, PADZEUR LES HA IES ET LES BOUCHONS VOLES AU DIABLE ET CO PU LO". Esprimete poi un desiderio e vedrete che si avvererà.
Era da qualche anno che non mi capitava di bere le birre di Ellezelloise; ecco una bottiglia di Quintine Blonde, con il classico tappo a macchinetta che caratterizza  tutte le produzioni di Philippe Gérard. 
Dorata con qualche sconfinamento nell’arancio, leggermente velata: perfetto il cappello di schiuma bianca, fine, cremosissimo e compatto, con un’ottima persistenza. Al naso c’è una buona pulizia ma lo stesso non si può dire dell’intensità;  si riescono comunque ad apprezzare i profumi di crackers e pane, cereali, scorza d’arancia, canditi, curaçao, ma non è certo  l’aroma il “pezzo” forte di questa bottiglia. E’ tuttavia sufficiente il primo sorso a far salire rapidamente il livello: pulita e fragrante, la Quintine Blonde è ricca di miele e crosta di pane, frutta candita, pesca sciroppata, mentre il lievito contribuisce con una delicatissima speziatura. Dolce e morbida, avvolge il palato con un’ottima intensità di sapori nascondendo in modo straordinario la sua gradazione alcolica (8%); la sua dolcezza è ben bilanciata da un’ottima attenuazione e da una chiusura, terrosa e zesty, ben al di sopra del livello d’amaro che normalmente incontrereste in una strong ale belga. Il retrogusto lo enfatizza ulteriormente, con un accenno di curaçao ed un lieve tepore etilico.  Le si può forse imputare di essere un po’ avara di emozioni, ma tecnicamente questa Quintine Blonde è forse ineccepibile: pulita, solida, molto equilibrata, facilissima da bere, godibile.
Formato: 33 cl., alc. 8%, lotto 1 4 1, scad. 06/2017, 2.25 Euro (drink store, Belgio),

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 25 novembre 2015

DALLA CANTINA: Courage Russian Imperial Stout 1983

Secondo appuntamento con la rubrica "Dalla Cantina" dedicata al vintage, alle birre dimenticate in cantina; oggi si tratta di una birra  prodotta nel 1983, anno in cui forse molti lettori del blog non erano ancora nati!  In verità non si tratta solo di una birra, ma di un pezzo di storia di quello che poi è diventato uno stile brassicolo.
Facciamo prima un salto indietro nel tempo lungo 228 anni:  nel 1787 John Courage fonda a  Bermondsey, Londra,  la Courage & Co rilevando la Anchor Brewhouse.  
Il birrificio fu rinominato Courage & Donaldson nel 1797 e, nel 1888, semplicemente Courage; nel 1955 avvenne la fusione con la Barclay, Perkins & Co Ltd. Nel suo massimo splendore, alla fine degli anni ’60, il gruppo aveva 15.000 dipendenti e produceva circa 340 milioni di litri l’anno; nel 1970 il nome fu accorciato in Courage Ltd e, due anni dopo, il birrificio fu acquistato dalla Imperial Tobacco Group Ltd. L’impianto originale (ex Anchor Brewery) fu definitivamente chiuso nel 1981 e la produzione spostata a Reading presso la Simonds' Brewery, anche lei parte del gruppo; una successiva serie di acquisizioni portò il marchio Courage prima nella mani della Scottish & Newcastle (1995) e poi dal 2007 in quelle della Wells & Young’s Brewing Company che ancora oggi ne detiene i diritti. 
Tra le birre prodotte dalla Courage verso la fine del diciottesimo secolo vi era anche una porter dall'elevato contenuto alcolico destinata all'esportazione verso la corte dell’imperatrice Caterina di Russia, dove queste birre erano particolarmente richieste ed apprezzate. Ovviamente a quel tempo la birra non era chiamata "Imperial Russian Stout", con i due aggettivi che iniziarono ad apparire sulle etichette dei produttori inglesi solo successivamente (si pensa al 1821 per "imperial" e al 1921 per "russian"); per chi volesse approfondire segnalo le meticolose ricerche di Martyn Cornell, sulle cui pagine troverete anche documenti storici per sfatare la credenza che queste birre avessero una gradazione alcolica elevata solo per sopravvivere al lungo viaggio in nave verso la Russia. 
Nel 2011 Wells & Young decide di ritornare a produrre la Russian Imperial Stout di Courage, la cui produzione era di fatto cessata nel 1993, se si eccettua un cask prodotto in un birrificio segreto in Scozia che apparve al GBBF del 2003. Oltre a quella di Wells & Young, prodotta una volta l'anno, potete provare la versione di Thornbridge che si basa sulla ricostruzione di una ricetta di Courage datata 1850.
Ci sarebbe tanto altro da dire sulla Courage Russian Imperial Stout, sulla storia delle Russian Imperial Stout in generale e anche sulla Harveys Extra Double Stout (alias Le Coq) che ha tra l'altro un pezzo di storia in comune con Courage, ma non voglio dilungarmi e passo dritto al sodo. 
La Courage Russian Imperial Stout  è una di quelle poche birre che riescono ad invecchiare per molti anni restando (con discreta probabilità) ancora bevibili. L'etichetta della bottiglia in questione, millesimo 1983, non riporta indicazioni sul luogo di produzione; ci sono invece scritte in italiano, segno che la birra veniva importata anche nel nostro paese, con una data di scadenza di fine 1986.
Al momento di stappare una bottiglia prodotta quanto tu avevi solo undici anni l'emozione viaggia di pari passo con il timore: ignoro dove e come sia stata conservata in tutti questi anni. In cantina al buio e la fresco? Sul ripiano di una libreria di un'appartamento dove in estate si raggiungono 35 gradi? Nella vetrina esposta al sole di un qualche negozio di vintage? Il rischio di trovarsi nel bicchiere venticinque centilitri di salsa di soia imbevibile è concreto ma al tempo stesso contribuisce ad aumentare l'emozione che accompagna lo stappo.
Per fortuna i primi segnali sono incoraggianti; l'interno del tappo (vedi foto qui sopra) mostra i segni del tempo ma l'aroma è buono, oserei dire quasi ricco di dolci sensazioni vinose ossidate e liquorose. Porto, sherry, uva passa, prugna, pelle e cuoio, caramello, persino una suggestione di cioccolato; la salsa di soia c'è, ma è molto leggera e per nulla fastidiosa, accompagnata da dei sentori di carne. Nessuna sorpresa invece per quel che riguarda l'aspetto: niente schiuma, solo qualche bolla grossolana che si adagia stanca ai bordi del bicchiere;  il suo colore è un mogano piuttosto torbido e spento. Procedo con un primo piccolissimo sorso, anch'esso un po' timoroso: l'aroma mi ha confortato ma è meglio non fidarsi di quello che sta per arrivare in bocca.
Inizialmente il gusto risulta meno intrigante dell'aroma ma è sufficiente lasciare la birra riposare per diversi minuti nel bicchiere per spalancare un'interessante ventaglio di  sapori ed emozioni che corrispondono quasi in pieno all'aroma. Predomina la sensazione di vino liquoroso, ossidato (porto, sherry) con leggere note di cuoio e salsa di soia, asperità che si presentano in un sorso per poi scomparire - come per magia - in quello successivo; la bevuta è dolce ma c'è ancora un latente ricordo dell'amaro di un tempo che mi fa pensare al pane abbrustolito. 
La dolcezza è stemperata dall'acidità dei malti scuri e dall'alcool, morbido ma sempre presente: più che una birra, si tratta di un liquore da sorseggiare con parsimonia. Il finale è lievemente salato, ma anche questa è una sensazione che non è sempre presente: a volte viene sostituita da un'impressione di tabacco o di cioccolato. Rimane un lungo retrogusto dolce e morbido, etilico, che mi riporta dove la birra era iniziata, nel territorio dei vini liquorosi. 
Si spengono le luci, resta il sedimento di lievito sul fondo della bottiglia fotografato qui a fianco. Che altro dire su di una birra che ha trentadue anni? Sicuramente una bevuta complessa e molto interessante, ancora gratificante ma indubbiamente più "didattica" ed emotiva che edonistica. La birra è perfettamente bevibile e buona, sorprendendoti con la magia di profumi e sapori che vanno e vengono, spariscono e poi riappaiono a (quasi) ogni sorsata: al punto che alla fine quasi ti dispiace di averla svegliata dal suo sonno trentennale solo per averla fatta sparire per sempre.
Formato: 25 cl., alc. 9.5%, lotto 1983, scad. 12/1986.

martedì 24 novembre 2015

d’Oude Maalderij Qantelaar

Quattro amici di strada (la Lichterveldsestraat a Koolskamp, località nei pressi di Ardooie, Fiandre Occidentali) formano una sorta di “beer club” trovandosi per scambiare impressioni su quello che bevono. Dalle bevute si passa all’homebrewing che, nel 2011, prende il nome “ufficiale” di Brouwfirma D'Oude Maalderij; i protagonisti sono Jef Pirens, Wouter Pollet, Joris Vankeirsbilck e Pieter Deleersnyder. In assenza d’informazioni "ufficiali" in lingue inglese, se ho ben capito traducendo dal fiammingo il nome D'Oude Maalderij si riferisce al “vecchio mulino” un tempo in funzione a Koolskamp. 
Nel autunno del 2012, dopo nove mesi passati ad affinare la ricetta, arriva il debutto con i 6 ettolitri di Qantelaar prodotti presso il birrificio Maenhout; da allora sono passati tre anni e non si può certo dire che i quattro ragazzi siano stati con le mani in mano. Lo scorso settembre hanno infatti inaugurato il “Brouwerij Cafè” dove ogni weekend è possibile assaggiare le birre prodotte, in attesa della messa in funzione degli impianti di proprietà prevista per maggio 2016. Jef Pirens ha infatti preso in affitto i locali di un ex fiorista ad Emelgem dove avrà a disposizione 280 metri quadri di magazzino, 45 di beershop e 65 destinati alla mescita. Dopo la Qantelaar sono arrivate un’altra decina di birre prodotte, a seconda dei volumi richiesti, presso i birrifici ‘t Gaverhopke, De Leite, Gulden Spoor ed Alvinne. 
Ma facciamo un passo indietro tornando al debutto del 28 settembre 2012:  Qantelaar, una belgian dark strong ale prodotta con cinque tipi di malto, due varietà di luppolo e zucchero candito, nessuna spezia, con 8% di ABV. Ne esiste anche una versione "Oak Aged" che è stata affinata per sette mesi in botti ex-whisky Makers Mark e poi altri tre mesi in quelle ex-Wild Turkey.  
Non sono riuscito a risalire al significato del nome scelto, Qantelaar: ci si può forse riuscire traducendo dal fiammingo la lunghissima storia riportata nello splendido "poster" che avvolge la bottiglia. Al momento è disponibile solamente nel formato da 75 cl., in quanto i quattro soci della beerfirm credono che la birra sia soprattutto "condivisione"; è tutta via già previsto l'arrivo delle bottiglie da 33, su esplicita richiesta dei rivenditori, non appena saranno operativi gli impianti operativi.
Una bottiglia così bella rappresenta un importante biglietto da visita che crea aspettative ancor prima di versare la birra nel bicchiere; il gushing che accompagna lo stappo non è certamente un buon inizio, ma fortunatamente la fuoriuscita di liquido si riesce a controllare senza troppe difficoltà. Il colore è quello della tonaca del frate, torbido, con riflessi ambrati e rossastri; la testa di schiuma beige è abbastanza fine e compatta, molto cremosa e ha un'ottima persistenza. L'aroma è piuttosto intenso e ricco, dolce e goloso: caramello, biscotti speculoos, toffee, uvetta e prugna, zucchero candito, pera, frutta secca e una delicatissima speziatura. 
Nessuna sorpresa in bocca, dove c'è una grande corrispondenza con il "naso": anche il gusto è molto ricco e intenso, spiccatamente dolce. Biscotto, ricordi di pan di spagna inzuppato nell'alcool, prugna e uvetta sotto spirito, frutta secca, mou e caramello, zucchero candito, accenni di tostature, caffè e forse di cioccolato amaro nel finale. Qantelaar mostra rispetto alla tradizione delle Strong Ale scure delle Fiandre Occidentali, senza rincorrere le mode; una birra pulitissima, intensa e molto ben fatta la cui marcata dolcezza è ben stemperata dalle vivaci bollicine e da una buona attenuazione. La potete bere senza sforzo ma che dovreste preferibilmente sorseggiarla in tutta tranquillità. L'autunno fa capolino tra i colori del bicchiere e anche al palato: una Strong Ale che scalda senza mai bruciare, un ricco e morbido abbraccio maltato che rinfranca dalle prime serate fredde della stagione. 
Formato: 75  cl., alc. 8%, lotto Q015, imbott. 10/01/2015, scad. 10/01/2020, 6.50 Euro (drink store, Belgio)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 23 novembre 2015

Il Conte Gelo Kamchatka

Dalla Lomellina, una zona ad elevata concentrazione “birraria”, arriva da Vigevano sul blog il Birrificio Conte Gelo: il nome che può sembrare alquanto particolare in realtà è  l’unione dei cognomi dei due proprietari, Paola e Andrea (Conte-Gelo). Entrambi appassionati birrofili e beer-hunter, hanno abbozzato a metà 2013 il progetto per aprire un proprio birrificio, idea che si è poi concretizzata ad ottobre 2014.  Il Conte Gelo ha dunque da poco compiuto un anno; in sala cottura ha trovato posto Davide Marinoni, homebrewer (con alle spalle corsi di degustazione Unionbirrai  I° e II° livello) che è poi passato nel mondo dei professionisti con un periodo di apprendistato da Bad Attitude ed un’esperienza al BQ di Milano. Chi bazzica il “web brassicolo” da un po’ di anni ricorderà il sito “La Bussola della Birra” gestito proprio da Davide. 
Quattro al momento le birre prodotte: una golden ale chiamata “Gragnola”, la IPA “Gelo Jack” , la Tripel “Lavalanga” e la nuova Imperial Stout “Kamchatka” (avete tutti giocato almeno una volta a Risiko!, non è vero?). Quest’ultima vede anche un bel cambio d’etichetta rispetto alle altre compagne, un rinnovamento necessario se si vuole “lottare” visivamente con altri birrifici sugli scaffali dei negozi.  E’ proprio questa la birra che il Conte Gelo mi ha invitato ad assaggiare:  si tratta di una robusta (9.8%) imperial stout prodotta con caffè Port Moka (Vigevano) e fiocchi d'avena.
Molto bella nel bicchiere, vestita di nero impenetrabile alla luce con un compatto e cremoso cappello di schiuma beige, dalla buona persistenza. L'aroma è abbastanza elegante ma poco intenso: il caffè è l'elemento principale che viene circondato dai leggeri profumi di mirtillo e di fruit cake, della liquirizia, dai lievi sentori luppoli di agrumi e di resina, con un accenno di carne.
Il caffè è protagonista indiscusso anche della bevuta, caratterizzando un'imperial stout che va dritta al sodo, senza fronzoli, con pochi elementi a costruire un'impalcatura solida, e abbastanza elegante: tostature, un po' di liquirizia ed una decisa luppolatura che contribuisce con le sue note resinose (e una suggestione di anice) a ripulire il palato. A sostenere l'amaro c'è in sottofondo una patina dolce di caramello con qualche ricordo di polpa d'arancia. Il caffè è protagonista anche del finale, dove l'alcool esce dal "guscio" per portare un morbido tepore etilico che ben si amalgama all'amaro delle tostature e della liquirizia. La sensazione palatale è gradevole all'imbocco, grazie alla cremosità donata dall'avena, ma nel corso della bevuta la birra si slega un po' e si ha l'impressione che acqua e sapori viaggino un po' su binari paralleli senza regalare quella sensazione di pienezza e di rotondità che in una birra dalla gradazione alcolica importante vorrei sempre trovare; l'intensità è quella giusta, senza mai costituire un ostacolo alla facilità di bevuta. 
Trattandosi della prima cotta d'imperial stout effettuata dal birrificio il livello è comunque buono: il gusto è forse un po' troppo monotematico e, per una birra nata da sorseggiare con calma nei mesi meno caldi dell'anno, sarebbe secondo me auspicabile una maggiore complessità. 
Ringrazio il birrificio per avermi inviato la bottiglia da assaggiare.
Formato: 33 cl., alc. 9.8%,  IBU 80, lotto 0515, scad. 09/2017.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 22 novembre 2015

Verzet Oud Bruin (Experimenteel) 2014

Nuovo debutto belga sul blog: si tratta di Brouwers Verzet,  "birrificio" con virgolette obbligatorie visto che per il momento stiamo parlando di una beerfirm proprio in questi mesi alle prese con l'installazione dei propri impianti.  
I birrai "della resistenza" sono Alex Lippens, Joran Van Ginderachter e Koen Van Lancker, compagni di studi e nel 2008 diplomati birrai alla scuola di Gent. Subito al lavoro in diversi birrifici, i tre erano soliti ritrovarsi durante i weekend per sperimentare o per produrre birre secondo il proprio gusto. Famigliari ed amici apprezzavano, arrivando a convincerli di fare le cose un po' più in grande; in assenza di finanziamenti per progettare il proprio birrificio, i tre ragazzi decidono nel 2011 di partire a produrre presso gli impianti del vicino birrificio Gulden Spoor di Gullegem. Nel 2012 si spostano presso De Ranke e, nel 2013, si aggiunge anche il birrificio Geert Toye.
Nella loro città natale, Anzegem, è già operativo il Café Local, un locale dove poter assaggiare le proprie birre destinato a diventare tra qualche mese un vero e proprio brewpub. 
Sono circa una decina le birre prodotte da Verzet sino ad oggi; la gamma si compone di un paio di IPA (Golden Tricky e Rebel Local), una stout ed una belgian ale. Più interessante è invece la scelta di produrre una Oud Bruin, uno stile che raramente mi è capitato di vedere proposto da queste nuove realtà belghe.
Viene assemblata con un blend di birra fresca e di birra che viene invecchiata un anno in botti ex-vino rosso; secondo quanto classificato da Ratebeer, oltre alla Oud Bruin "classica" ne esiste anche una "sperimentale". Non sono riuscito a reperire notizie sulla differenza tra le due, ma l'etichetta della bottiglia in mio possesso riporta la scritta "Experimenteel"; il millesimo è 2014.
All'aspetto è ambrata con intense venature rossastre e qualche riflesso ramato; la schiuma ocra è "croccante" e cremosa, compatta ed ha una buona persistenza. Bella da vedere e bella anche da annusare, la Oud Bruin di Verzet regala un "naso" elegante e ricco di profumi aspri (mela verde, amarena, aceto di mela, lattico) e più dolci (ciliegia, frutti di bosco) che sono accompagnati da sentori  floreali, legnosi e terrosi. I primi sorsi sono un po' deludenti rispetto ai profumi, ma è una birra che ha bisogno di scaldarsi un po' più del solito per aprirsi completamente. L'asprezza acetica e quella dei frutti rossi e della frutta acerba (mela, ribes, amarena) è contrastata da un'elegante dolcezza di ciliegia, miele e caramello che rimane inizialmente in sottofondo per poi raggiungere il livello ottimale quasi a temperatura ambiente. Le bollicine sono vivaci e rendono la birra snella e piacevole, stemperandone in parte l'asprezza; la chiusura è ovviamente secca, a garantire un ottimo effetto rinfrescante, mentre il retrogusto è caratterizzato da piacevoli note legnose, qualche tannino e da un'acidità acetica abbastanza discreta e per nulla invadente. E una Oud Bruin ben assemblata e costruita; la manca ancora un pochino di profondità, complessità e/o maturità per raggiungere livelli d'eccellenza, ma la strada intrapresa dai giovani di Verzet sembra essere davvero quella giusta.
Formato: 37.5 cl., alc. 6%, lotto 2014,  scadenza non indicata, 2.95 Euro (drink store, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 20 novembre 2015

HOMEBREWED! With a little help from my friend

Eccoci ad un nuovo appuntamento con “Homebrewed!”, dedicato alla vostre produzioni casalinghe. Oggi è il debutto di Vincenzo Messineo dalla provincia di Avellino che da poco più di due anni si dedica con passione a produrre la birra in casa; Vincenzo non è solo homebrewer ma anche un birrofilo entusiasta che ammette di organizzare le proprie ferie ed il proprio tempo libero con viaggi o serate sempre a tema birrario. L’homebrewing lo ha contagiato dopo aver assaggiato una produzione casalinga di un amico e la sua seconda passione è la cucina, ovviamente da abbinare ad una buona birra.
Quella di oggi è una Russian Imperial Stout generosamente luppolata; Vincenzo mi ha confidato di essersi "vagamente" ispirato alla Export India Porter di The Kernel depurata - aggiungerei io - della sua componente più dolce. La compongono malti Pale Ale, Aromatic, Crystal e Caramunich, Roasted e Carafa, un tocco di fiocchi d'orzo; luppoli Admiral e Northdown per l'amaro, Chinook da aroma e lievito US-05 completano la ricetta per una OG di 1092.  Il nome dato alla birra, deciso proprio al momento di spedirla, è un With A Little Help from my Friend di Beatlesiana memoria che m trova perfettamente d'accordo. Si riferisce al conforto che una buona Imperial Stout può darti alla fine di una lunga giornata di lavoro, rassicurante ed incoraggiante tanto quanto l'abbraccio o la pacca sulla spalla da parte di un amico. La birra non ha etichetta ma - hey! - siamo qui per la sostanza, non per la forma.
Assolutamente nera, forma un bellissimo cappello di schiuma beige bianca e cremosa, dall'ottima persistenza. Il suo bel "vestito", goloso, contrasta però con l'aroma che quasi assente: bisogna davvero concentrarsi per estrarre qualche remoto ricordo di orzo tostato e cioccolato al latte, ma quello che emerge soprattutto è un odore strano e non esattamente gradevole, che ho annusato per diversi minuti senza riuscire a dargli un nome preciso. Alla meglio mi ha ricordato il pudding inglese.
Molto buona la sensazione palatale, con una discreta cremosità che arriva subito l'ingresso in bocca "watery"; il corpo è medio e la carbonazione è bassa: la scelta in fase di ricetta era chiaramente di realizzare una Imperial Stout morbida ma scorrevole, senza scivolare nel territorio "catramoso" tipico della scuola scandinava. Il gusto è volutamente privo di fronzoli ed orpelli e va dritto al sodo: tostature, caffè e l'amaro resinoso dei luppoli dominano la scena, con un leggerissimo sottofondo dolce di caramello e di frutta a supporto. Bene il finale, dove un bel calore etilico avvolge ed amalgama in modo convincente resina, caffè e tostature con un buon livello di pulizia e di eleganza. Purtroppo ogni tanto anche in bocca fa capolino quello che all'aroma ho definito come "pudding", sporcando un po' la birra e diminuendo un po' la gradevolezza complessiva della bevuta. E' comunque una Imperial Stout solida che si beve senza grosse difficoltà nonostante la gradazione alcolica di tutto rispetto; eliminato il difetto "pudding", nel bicchiere si trova un'intensa compagna da sorseggiare nei mesi meno caldi dell'anno.
Questa la  valutazione su scala BJCP:  32/50 (Aroma 5/12, Aspetto 3/3, Gusto 13/20, Mouthfeel 4/5, impressione generale 7/10). 
Ringrazio Vincenzo per avermi spedito e fatto assaggiare la sua birra, e vi do appuntamento alla prossima "puntata" di Homebrewed! E ricordate che la rubrica è aperta  a tutti i volenterosi homebrewers!  
Formato: 33 cl., alc. 9.2%, IBU 70, OG 1092, imbott. 11/05/2015.

giovedì 19 novembre 2015

Westmalle Tripel

Nel giugno del 1794 una decina di monaci francesi si stabiliscono nei boschi di Kempen, sulla vecchia strada che collegava Anversa con Turnhout, con il progetto di costruire un’abbazia basata sul progetto di  Notre Dame de la Grande Trappe. L’imminente rivoluzione francese li costrinse però all’esilio in Germania sino al 1802, quando fecero ritorno a Westmalle per iniziarne la (ri)costruzione; l’inizio della produzione di birra sembra risalire al 1836, con la nomina di Padre Bonaventura Hermans – un ex farmacista e quindi esperto di erbe - come birraio. Al solito la birra era riservata inizialmente per il consumo dei frati e degli ospiti del monastero, e solo a partire dal 1860 iniziano le occasionali vendite all’esterno; nel corso della prima guerra mondiale i tedeschi s’appropriarono di tutti gli impianti del birrificio, che fu ricostruito solamente nel 1920. In questo periodo Westmalle produceva due birre scure chiamate Extra Gersten e Dubbel Bruin; alcuni problemi di qualità su quest’ultima avevano spinto i frati a chiedere la consulenza di Hendrik Verlinden, ingegnere birrario e proprietario del birrificio Drie Linden.  
Verlinden viene considerato da Michael Jackson come l'artefice della prima "tripel" belga, lanciata nel 1932 con il nome di Witkap Pater. Facile ipotizzare che ci sia la sua mano anche dietro alla ricetta della Westmalle Tripel,  una strong ale “chiara” la cui ricetta viene abbozzata assieme al frate Thomas a partire dal 1931 per  poi debuttare nel 1934 durante i festeggiamenti per l’inaugurazione del nuovo birrificio del monastero.  La ricetta fu sensibilmente ritoccata negli anni ’50, quando fu leggermente aumentata la quantità di luppolo utilizzato; oggi la Tripel ha scalzato la scura Dubbel ed è diventata la birra più venduta dai monaci di Westmalle, occupando il 60% della produzione.
Attualmente i monaci continuano a supervisionare la produzione della birra e tre di loro sono membri del consiglio direttivo; in sala cottura non è più presente il fratello Thomas – ritiratosi all’età di 70 anni  - che ha passato il testimone al birraio Jan Adriaensen, collaboratore di Westmalle sin dagli anni ’80 e  anche di St. Sixtus-Westvleteren ed Achel. 
La Tripel di Westmalle  (la “madre” di tutte le Tripel, non me ne voglia la Witkap) ha oggi 81 anni, ma non li dimostra affatto e continua a splendere nel suo luminoso color dorato, leggermente velato, sul quale si forma un solidissimo “cappello” di schiuma bianca e cremosa, compatta, molto persistente. Perfetta nella sua sobrietà. L’aroma mantiene il rigore monastico, lontano da quelle esplosioni di profumi (spesso un po’ cafone) che spesso incontriamo oggi. Un’eleganza fragrante e quasi discreta, fatta di fiori bianchi, zucchero candito, cereali, miele, arancia e pesca candita, un tocco di fieno, una delicatissima speziatura proveniente dal lievito. Al palato si presenta perfetta, con corpo medio ed un vivace carbonatazione che non preclude assolutamente una sensazione quasi morbida in bocca. La bevuta inizia con una freschezza fruttata sorprendente per una Tripel dal contenuto alcolico elevato (9.5%), per passare poi al dolce della frutta candita (albicocca, arancia e pesca), del pane e del miele sino alla delicatissima chiusura amaricante che oscilla tra l'erbaceo ed il terroso; il tutto all'insegna dell'equilibrio più assoluto. Impressionano sia la secchezza che il modo in cui l'alcool è nascosto quasi sino alla fine, consentendo una bevuta agile e quasi "veloce" per poi rallentare il tempo nel retrogusto, un caldo abbraccio etilico ricco di frutta sotto spirito. Pulitissima e fragrante, caratterizzata da una facilità di bevuta quasi omicida, la Tripel di Westmalle non si può altro che definire un classico senza tempo, ancora attuale, ancora straordinario, ancora da prendere a modello ogni qualvolta abbiate voglia di bere (o di realizzare tra le mura domestiche) una tripel.
Formato: 33 cl., alc. 9.5%, lotto 3 030472, scad. 05/08/2017, 1.45 Euro (supermercato, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 18 novembre 2015

Statale Nove J and B

Ritorna sul blog dopo un lungo periodo d’assenza il birrificio bolognese Statale Nove, fondato da quattro soci nel 2008 e guidato in sala cottura principalmente dal birraio Filippo Bitelli; il birrificio produce oggi una gamma di birre abbastanza ampia che spazia dalla tradizione tedesca a quella anglosassone senza tralasciare l’utilizzo di prodotti locali (pere, miele di castagno).  La Germania rimane tuttavia il territorio sul quale il birrificio ha sino ad ora ottenuto la maggior parte dei riconoscimenti, con medaglie che puntualmente arrivano ad ogni edizione di Birra dell’Anno. Così è stato anche per la birra di oggi, una doppelbock premiata con l’argento a Birra dell'Anno 2013  (Categoria 5 Birre a bassa fermentazione, alto grado alcolico di ispirazione tedesca) e con il bronzo all’ultima edizione 2015. Come spiega lo stesso birraio, la J and B è dedicata al suo secondo figlio Jacopo, la cui data di nascita (18/05/2011) è anche impressa in etichetta. 
Le Doppelbock sono birre tradizionalmente stagionali che vengono prodotte nel periodo della Quaresima. Secoli fa, i monaci che dovevano affrontare un lungo periodo di digiuno erano soliti realizzare una birra più alcolica e “nutriente” da  consumare in sostituzione del cibo, ma non solo: siccome vigeva la credenza che i liquidi avevano la funzione di ripulire sia il corpo che l'anima, una birra particolarmente forte avrebbe avuto un potere "purificante" ancora più grande. La storia ve l’avevo già raccontata in occasione della Paulaner Salvator
Fedele alla tradizione, la doppelbock di Statale Nove è pronta ogni anno a maggio; la bevo con qualche mese di ritardo, approfittando del fresco autunnale. Anche se priva del classico suffisso “ator”  con il quale vengono spesso chiamate le doppelbock, la J and B di Statale Nove arriva nel bicchiere di un bel color ambrato carico velato con sfumature dorate e ramate; la schiuma ocra è “croccante” e cremosa, compatta ed ha un’ottima persistenza. 
Il naso è abbastanza ricco e pulito, con un bel bouquet profumato di biscotto e pane nero, toffee, uvetta e prugna, frutta secca, frutti rossi (ciliegia). La scuola e la tradizione tedesca richiedono che le birre siano ben scorrevoli e facili da bere e questa doppelbock le rispetta in pieno: corpo medio e poche bollicine, in una birra che non richiede grosso impegno nonostante si tratti di una "strakbier" dal buon contenuto alcolico (8.1%). Biscotto, pane nero e caramello, miele, uvetta e prugna compongono il gusto dolce che è ben sostenuto da un morbido alcool warming che alza la testa solamente quando deve, ovvero nel finale; la chiusura è leggermente amara di pane tostato, frutta secca, una suggestione di cioccolato. La bevuta procede pulita e morbida, intensa e ben  equilibrata nella sua dolcezza, in un'interpretazione molto convincente della tradizione tedesca come peraltro il birrificio bolognese ha spesso dimostrato di saper fare.
Tutto bene, ma purtroppo non posso esimermi dal menzionare il fattore prezzo, croce (senza nessuna delizia) della cosiddetta "birra artigianale"  italiana; la doppelbock di Statale Nove tiene testa alle famose sorelle tedesche, ma costa 10 Euro al litro, mente Celebrator, Salvator, Triumphator, Speziator e altre doppelbock tedesche viaggiano tra i 2 e 3 euro al litro, se acquistate in Germania. Raddoppiate la cifra se le acquistate in Italia: vi lascio trarre le debite conclusioni e pensare a quante potreste berne.
Formato: 75 cl., alc. 8.1%. IBU 20, lotto 353, imbott. 07/05/2015, scad. 07/02/2016, 8.00 Euro (birrificio)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 17 novembre 2015

OostEke Het 5e Seizoen (Het Vijfde Seizoen)

Continuiamo la scoperta di nuovi attori nel panorama brassicolo belga che, in molti casi, sono piccole realtà che hanno da poco iniziato utilizzando la formula “beerfim” E questo il caso di OostEke Brouwers, fondato dall’homebrewer  e birrofilo Alain Senechal aiutato dall’amico Gert Cammerman; i due non si vergognano affatto di non disporre d’impianti di proprietà e promettono di dichiarare sempre esplicitamente, in etichetta, il luogo di produzione delle proprie birre. Amano definirsi una “brewing company” che disegna le ricette a casa e le produce poi personalmente su impianti altrui: la loro sede operativa è a Gavere, una ventina di chilometri a sud di Gent/Gand, e la maggior parte delle birre sono realizzate nel birrificio Contreras  che ha sede nella stessa località. 
Il debutto avviene con una “quadrupel” chiamata Quadrum e con la saison “Het 5e Seizoen”, seguite dalla blond “Zoetje”, dalla Tripel-0-Seven, da un whiskey single malt e dalle versioni barricate di Saison e Quadrupel 
Versiamo nel bicchiere questa “Het Vijfde Seizoen”, ovvero “la quinta stagione”, ovvero una saison generosamente luppolata (anche in dry hopping) con – presumo – luppoli extraeuropei non specificati: l’etichetta riporta solo vagamente l’utilizzo di tre luppoli, tre tipi di malto e due erbe non specificate. Ambrata con riflessi dorati, genera un’esuberante ed enorme cappello di schiuma, pannosa e compatta, molto difficile da contenere e che sembra non volersi mai dissolvere. 
Al naso c’è un’ottima intensità di frutta tropicale matura, passion fruit ed arancia rossa, qualche suggestione di fragola e lampone, caramello; discreto il livello di pulizia e di eleganza. Al palato le bollicine sono davvero troppe anche per una saison e precludono in parte la percezione dei sapori; bisogna farle calmare roteando po’ il bicchiere. Il gusto mantiene una grande corrispondenza con l’aroma:  biscotto e caramello, la stessa frutta dolce dell’aroma che qui viene riproposta in modo un po’ sciropposo. L’intensità è notevole, ma pulizia ed eleganza (e non sto parlando di quel carattere rustico che una siason dovrebbe sempre avere) non sono allo stesso livello; la generosa luppolatura tende un po’ a prevaricare tutto con un risultato finale che a tratti  - con le dovute proporzioni – potrebbe ricordare quello di alcune IPA-dolcioni. Anche il finale amaro,intenso ma poco aggraziato, si muove in questa direzione; note resinose, vegetali e di erbe officinali molto più in evidenza degli IBU (37) dichiarati. Di saison ci ho trovato veramente poco: il lievito, sulla cui espressività dovrebbe basarsi qualsiasi birra di questo stile viene eclissato dal luppolo, con un risultato piuttosto sbilanciato, poco raffinato e alquanto incompiuto.
Formato: 33 cl., alc. 6.5%, IBU 37, imbott. 27/03/2015, prezzo 1.65 Euro (drink store, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 16 novembre 2015

Maltus Faber Extra Brune Barricata

Ultimamente non sono molto fortunato con le produzioni Maltus Faber, birrificio genovese la cui costanza qualitativa – mi tocca dedurre – è un po’ altalenante.   Segnalo giusto per dovere di cronaca Imperial ed  Extra Brune bevute qualche tempo da tutt’altro che entusiasmanti; riprovo quest’anno con la versione barricata di quest’ultima birra, una massiccia Belgian Dark Strong Ale (10% ABV) che viene affinata per almeno sei mesi in botti di legno che hanno ospitato grandi vini, tra i quali Brunello di Montalcino e se non erro, per il lotto in questione, Barbera Bricco dell'Uccellone. 
Il suo vestito è quello della tonica di frate, piuttosto torbida, e pressoché privo di schiuma; le bolle grossolane che si formano hanno comunque una lunga persistenza al bordo del bicchiere. Al naso c’è una buona intensità, nella quale spicca da subito il carattere vinoso e legnoso dovuto all’affinamento in botte: ciliegie, uva, amarene, frutti di bosco, legno umido, sentori di vino liquoroso e leggermente ossidato, porto. I profumi non sono particolarmente eleganti ma creano comunque un buon equilibrio tra dolce ed aspro. 
Al palato questa bottiglia di  Extra Brune Barricata arriva praticamente “piatta”: il dolce del caramello, dell’uvetta e della prugna,  del vino liquoroso sono bilanciati da ciliegie aspre e frutti rossi acerbi, ma quello che colpisce maggiormente è la caratterizzazione vinosa, e ossidata, che il passaggio in botte ha conferito alla birra. 
L’affinamento in botte dovrebbe “arricchire” la birra base, impreziosendola con alcune determinate caratteristiche senza tuttavia “cannibalizzarla”: in questo caso la componente parte vinosa tende a coprire quasi tutta la birra con l’ossidazione che si porta dietro pregi (vino liquoroso) ma anche dei difetti (cartone bagnato, astringenza eccessiva) che non ci dovrebbero essere.  L’impressione a tratti è quasi di bere una bottiglia di vino aperta qualche giorno fa e poi richiusa: l’alcool è molto ben nascosto, forse anche troppo per quanto viene dichiarato (10%); ne guadagna indubbiamente la bevibilità, ma è un bicchiere che non riesce mai davvero a scaldare il cuore di chi lo sta bevendo. La birra, tutto sommato bevibile ma poco elegante, chiude ricca di tannini  con un retrogusto vinoso dove finalmente si avverte un leggero tepore etilico che tuttavia non riesce a rimettere in sesto una bottiglia piuttosto deludente. 
Formato: 33 cl., alc. 10%, lotto 183, scad. 09/2018,  6.60 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 15 novembre 2015

De Dolle Dulle Teve

Non ci si deve aggrappare  a  troppe certezze o chiamare in causa la "normalità" quando si ha a che fare con il birrificio belga De Dolle guidato dall'eclettico Kris Herteleer. Si narra così che all'origine dell'originale nome di questa birra ci fosse un'amichevole conversazione tra Kris e il proprietario di un café-ristorante di Bruges, nel corso della quale stavano discutendo la ricetta di una nuova birra. L'incontro si prolungò più del previsto e la moglie del proprietario iniziò a tempestarlo di telefonate affinché tornasse a casa. Quando lui apostrofò  al telefono la moglie chiamandola "Dulle Teve" (espressione dialettale delle fiandre occidentali che corrisponde più o meno a "cagna/puttana pazza/furiosa"), Kris Hertleer esclamò di aver trovato il nome per la birra che stava per nascere.  L'etichetta, una delle poche non disegnate da Hertleer, viene realizzata dall'artista di Bruges Peter Six; al collo della bottiglia gli improbabili papillon che il birraio "pazzo" spesso indossa.
La Dulle Teve debutta nel 1993 e viene oggi prodotta - tra l'altro - con luppolo EK Goldings e zucchero candito. Il nome scelto ("Mad Bitch" ) ha ovviamente creato qualche problemino per l'esportazione negli Stati Uniti, dove è stata semplicemente rinominata "Triple".
Nel bicchiere si presenta di colore arancio opalescente con sfumature dorate e piccole particelle di lievito in sospensione; la bianca schiuma è esuberante e compatta, cremosissima, molto persistente.  Il naso porta in dote fiori bianchi, profumi di mela al forno, miele, canditi, marzapane, frutta a pasta gialla, pera e una suggestione di ananas, zucchero candito.
Guardando l'etichetta saresti portato a pensare d'avere nel bicchiere una "stronza", una "cagna" che abbia per morderti, ma non c'è niente di più errato. L'inizio è quasi carezzevole, con un freschezza di frutta (arancia, pesca e mango, mela) quasi inconcepibile per una birra che dichiara 10 gradi alcolici in percentuale. Il gusto è ricco e dolce di pane, miele, un tocco biscottato, canditi: l'alcool inizia nascondendosi per poi iniziare una splendida progressione, in un morbido crescendo che lo porta prima a stemperare il dolce e poi a diventare un delicato ma intenso protagonista del retrogusto, ricco di frutta sotto spirito. Non vi è praticamente traccia evidente d'amaro, eppure la birra riesce a non essere assolutamente troppo dolce grazie ad una superba attenuazione. La bevibilità (10%!) è quasi criminale, le bollicine sono inizialmente un po' in eccesso ma basta lasciarle evaporare un po' per poter godere di quell'ingresso in bocca quasi cremoso che ti porta inizialmente a credere di avere nel bicchiere quasi una "session beer".
Dalle Teve è una stupenda Tripel, che ti saluta con una carezza per poi mandarti al tappeto alla fine del bicchiere, come solo una "Mad Bitch" saprebbe fare. Lotto (scad APR2017) in stato di grazia, non fatevi scappare la bottiglia se l'adocchiate in giro.
Formato: 33 cl., alc. 10%, IBU 30, scad. 04/2017, 2.20 Euro (drink store, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 13 novembre 2015

Birrificio Etnia Blond

Arriva sul già affollatissimo panorama brassicolo italiano la scorsa primavera il Birrificio Etnia; sono un gruppo di imprenditori, capitanati da Andrea Ferri, a dar vita a questa nuova realtà con sede produttiva a Sant'Alessio con Vialone, nel pavese. A fare il birraio viene chiamata una vecchia conoscenza di  molti appassionati italiani, quel Nicola “Nix” Grande che sin ad allora ben si era distinto al Birrificio Settimo (ex Siebter Himmel) di Carnago (Va).   
Gli impianti produttivi (sala cottura da 13 hl con 6 fermentatori da 10 hl) trovano spazio nello stabile un tempo occupato dal Birrificio Balmar; in progetto futuro ci dovrebbe essere anche l’apertura di un secondo stabilimento in Puglia dove il birrificio ha già la propria sede legale. 
La produzione è partita con un trittico di birre volutamente mirate alla ristorazione ed al cosiddetto “food pairing”;  una Double Blanche, una Double IPA ed una Blond che sono state poi affiancate dalla  linea più moderna delle “session beers”, caratterizzata anche da un diverso packaging:  tre Pale Ale, chiamate “USA”, “NZ” e “UK” con riferimento alla provenienza dei luppoli utilizzati. 
Non è certo un segreto l’amore di Nicola Grande per la tradizione brassicola belga, e mi sembrava giusto dare il benvenuto al birrificio sul blog con la sua “Blond”; pallidamente dorata e velata, genera un bel cappello di schiuma bianca compatta e quasi dannosa, dall'ottima persistenza. 
L'aroma esprime quasi una ventata di freschezza, molto pulita e di buona intensità, composta soprattutto da agrumi (mandarino, cedro, pompelmo), cereali, sentori erbacei ed una delicatissima speziatura donata dal lievito. Il gusto ripropone con la stessa pulizia ed eleganza gli elementi dell'aroma: la leggera base malata (crackers, un tocco di miele) supporta la dolce freschezza fruttata della pesca e  della polpa d'arancia poi ben bilanciate dall'amaro zesty e lievemente erbaceo che diventa un discreto (e mai invadente) protagonista del finale. Con una secchezza encomiabile, la Blond di Etnia mostra un'eccellente bevibilità abbinata ad una spensierata leggerezza, enfatizzata dalle vivaci bollicine. Per un birrificio la cui avventura è partita circa sei mesi il livello di pulizia (mi tocca ripetere il termine, ma è una delle caratteristiche fondamentali di ogni birra) e di equilibrio è davvero ottimo, e l'intensità non viene affatto sacrificata alla bevibilità. Tutto bene anche se  probabilmente manca ancora un pochino di personalità a questa Blond che, soprattutto nel finale, mostra a mio parere un pochino di timidezza,  vezzo peraltro perdonabile considerando che si tratta delle prime cotte prodotte. 
Formato: 33 cl., alc. 5.3%, IBu 29, lotto 3715, scad. 31/06/2016, 4.50 Euro (beershop, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 12 novembre 2015

Mont des Cats

Il dibattito birrifici vs beerfirm è sempre attuale e vivo nel mondo della birra: c’è chi si schiera a prescindere contro chi produce senza avere i propri impianti e si fa magari chiamare ”birrificio o birraio”,  e c’è a chi invece interessa solo la qualità di quello che viene poi versato nel bicchiere. 
La beerfirm di oggi (perché tecnicamente si tratta di una birra prodotta altrove, su commissione) è tuttavia abbastanza particolare. Si tratta dell’abbazia Sainte Marie du Mont des Cats, localizzata a Godewaersvelde, comune francese nella regione di Nord-Passo di Calais; il confine col Belgio è ad un tiro di schioppo: Poperinge è a dieci chilometri, l’abbazia di St. Sixtus-Westvleteren a venti. 
La fondazione dell’abbazia avviene nel 1826, ma la presenza di monaci sulla sommità (solo 163 metri sul livello del mare) del Mont des Cats risale ad almeno due secoli prima; nel gennaio del 1826 alcuni cistercensi provenienti dall’abbazia francese di Notre-Dame du Gard iniziarono la costruzione di un monastero poi completato nel 1847. La produzione di birra, inizialmente riservata al consumo personale dei monaci, partì l’anno successivo con qualche mese di anticipo rispetto a quella del formaggio, che diventerà poi la principale fonte di “reddito” del monastero. Documenti storici ritrovati all’interno dell’abbazia testimoniano come la prima birra prodotta fosse ambrata e leggera ma ben presto rimpiazzata da un’altra dal maggior contenuto alcolico, apparentemente per non entrare in competizione con quelle prodotte da altri birrifici della zona. Non ci sono invece notizie su bottiglie; sembra che la birra fosse esclusivamente venduta in botti di legno; nei terreni circostanti si trovava anche un luppoleto. 
Il diffuso anticlericalismo di inizio ‘900 costrinse all’esilio i monaci stranieri, portando di fatto alla cessazione della produzione di birra nel 1907. Il colpo di grazia fu dato dalla prima guerra mondiale, le cui battaglie furono particolarmente cruente nella zona di confine tra Belgio e Francia. Il monastero  fu severamente danneggiato da un bombardamento tedesco nell’aprile del 1918, e il birrificio non fu mai più ricostruito. Da allora sino al 1970 i monaci si sono finanziati principalmente attraverso i prodotti agricoli ed i formaggi; in seguito i terreni agricoli furono dati in affitto e l’unica risorsa economica rimase la produzione casearia. 
La comunità di frati si è vista di recente costretta a pensare ad altre fonti di reddito che potessero affiancare i proventi derivanti dal caseificio. A giugno 2011, esattamente  a 163 anni di distanza dal primo barile di birra prodotto a Mont des Cats, Bernard-Marie van Caloen annuncia in una conferenza stampa di aver raggiunto un accordo con i “fratelli” dell’abbazia di Notre-Dame de Scourmont (ovvero Chimay) con i quali in un paio di mesi di lavoro è stata messa a punto una nuova ricetta. Bisogna sottolineare che i monaci di Mont des Cats non dispongono assolutamente delle risorse necessarie per progettare la costruzione di un impianto produttivo proprio e quindi la possibilità per il momento non è stata presa in considerazione. 
Si tratta tuttavia di una birra prodotta all’interno di un monastero trappista la cui produzione viene supervisionata dai monaci trappisti: Mont des Cats possiede quindi tutte le caratteristiche per potersi chiamare “Authentic Trappist Product”; la scritta “trappist beer” è effettivamente presente in etichetta, mentre è ancora assente il famoso logo esagonale. 
Ambrata, con velature ramate, leggermente velata: Mont des Cats si presenta con un enorme ed esuberante cappello di schiuma che obbliga ad alcune soste prima di poter versare l’intero contenuto della bottiglia nel bicchiere; la sua persistenza è lunghissima. Fiori, pera, pane e zucchero candito annunciano l’aroma, completato da sentori di biscotti speculoos, frutta secca; l’intensità è però piuttosto modesta e la pulizia è tutt’altro che encomiabile. La prima cosa che colpisce al palato sono le bollicine; tante, troppe anche per una birra "belga", bisogna pazientare un po' e lasciarle calmare. La scorrevolezza è comunque buona, il corpo medio. Gusto piuttosto dolce, con caramello, biscotto e miele in evidenza; in secondo piano i canditi e la frutta secca. Molto ben attenuata, risulta alla fine comunque equilibrata e mai stucchevole; la chiusura è lievemente amaricante (terroso, mandorla) ed il retrogusto è di nuovo in territorio dolce con caramello, miele ed un lieve tepore etilico. La bevuta risulta piuttosto avara di emozioni e a tratti anche un po' slegata; intensità e pulizia non sono certamente ad alti livelli, il suo compitino lo svolge portando a casa la sufficienza ma con un nota rivolta ai "genitori" di Scourmont/Chimay che l'hanno prodotta: ci si poteva impegnare di più. 
Formato: 33 cl., alc. 7.6%, lotto 15-199, scad. 12/2017, 2.15 Euro (supermercato, Belgio).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 11 novembre 2015

Discount vs Industriale: Finkbräu Pils, Grafenwalder Pils, Warsteiner Premium Verum e Ceres Top Pilsner

Si parla tanto, spesso e comunque non abbastanza dei prezzi (alti!) della cosiddetta “birra artigianale”:  non mi riferisco al consumo al pub, dove il delta costo tra una media “artigianale” e una industriale è minore. Mi riferisco in particolare al consumo in bottiglia casalingo: le “artigianali” che si trovano nei beershop, supermercati, enoteche e alimentari vari hanno un costo medio al litro che possiamo quasi moltiplicare quasi per cinque rispetto ad un’industriale. 
Ma per stavolta lasciamo fuori “l’artigianale” e parliamo delle  “birre del discount”: sono anche loro prodotti industriali, eppure costano sensibilmente meno (all’incirca la metà) dei noti marchi industriali. Avete sentito qualcuno lamentarsi che una lattina di Heineken al supermercato è cara perché costa il doppio di una birra discount? Ma questa differenza di prezzo è giustificata? Ci se ne accorge bevendole? 
Ho voluto fare una prova "quasi" alla cieca, mettendo a confronto due birre industriali e due “discount”  bevendole senza sapere che cosa ci fosse nel bicchiere; sono quattro Pils, o almeno questo è lo stile che i produttori dichiarano in etichetta. Le birre che ho scelto per questa prova sono le seguenti:  dal discount Finkbräu Pils e Grafenwalder Pils; dal supermercato Warsteiner Premium Verum e Ceres Top Pilsner. Tutte e tre, per meglio renderle irriconoscibili, in formato 50 cl. e con il “lato superiore” della lattina di color argento. Le descriverò inizialmente facendo riferimento solamente al numero del bicchiere dal quale bevuto.
Aspetto.
Sono tutte e quattro identiche, limpide e dorate;  forse la Nr.1 è appena un po’ più chiara.  Tutte mostrano un bel cappello di schiuma bianca, compatta e cremosa, dalla buona persistenza: la ritenzione delle birre Nr.1 e Nr.4 è leggermente migliore, con una patina bianca che rimane sempre in superficie. 
Aroma. 
Bicchiere nr.1:   avverto miele e cereali, crosta di pane, qualche sentore erbaceo. La fragranza non è certamente di casa, l’intensità non è granché ma per lo meno i profumi “giusti” ci sono. 
Bicchiere nr.2:  aroma assente, bisogna farla scaldare un po’ per far emergere un qualcosa dolciastro che mi ricorda un po’ il mais, ingrediente non citato sulla lattina. A temperatura ambiente mi sembra che ci sia anche un po’ di cartone bagnato. 
Bicchiere nr.3:  anche qui aroma nullo, con qualche lieve miglioramento a temperatura ambiente. Qualcosa di dolce simile al mais e ricordi di cereali che emergono quando la birra si scalda. 
Bicchiere nr.4: pochissima intensità, ma almeno qualcosa c'è. E' una generale sensazione dolce di pane, forse miele, nella quale non c’è ovviamente traccia di fragranza ed eleganza. 
Mouthfeel
Ovviamente leggere, watery e mediamente carbonate. Un DNA che le accomuna tutte, con la componente “acquosa” un troppo marcata nel bicchiere nr.2.
Gusto. 
Bicchiere nr.1: pane, cereali, accenno di miele. Non c’è una gran intensità ma – come per l’aroma -  ci sono quasi tutti i descrittori tipici dello stile. Si finisce nell’amaro erbaceo, non particolarmente elegante ma tollerabile; l'amaro è molto più evidente che negli altri bicchieri, ma all'alzarsi della temperatura aumenta anche la percezione della sua modesta eleganza/piacevolezza.  Meglio berla finché "fredda", in quanto risulta più bilanciata e più secca rispetto alle altre. 
Bicchiere nr.2:  quasi scarso, tendente al nullo. A birra fresca c’è una sensazione appena dolce che di nuovo mi ricorda quel mais non citato in etichetta e qualche suggestione di pane;  la chiusura amara è poco intensa ma riesce ugualmente ad essere poco gradevole. Riscaldandosi migliora un po’ la parte dolce (pane e miele) ma peggiora quella amara; la bocca rimane sempre impastata da una patina dolcina, con la birra che alla fine non risulta neppure particolarmente rinfrescante.
Bicchiere nr.3:  è una birra che rasenta l’acqua, in quanto all'assenza di sapori. Lievi accenni di pane e cereali, il solito timido finale erbaceo amaro un po’ sgraziato; nonostante la bassissima intensità riesce comunque a lasciare la bocca avvolta da una patina dolce poco rinfrescante. Anche riscaldandosi l’intensità non migliora di molto: aumenta un po’ la componente dolce, con il risultato che la nr.3 risulta essere la meno amara delle quattro; ma nonostante il basso livello d’amaro, quel poco che c’è è davvero poco elegante. 
Bicchiere nr.4:  rilevo pane, cereali, accenno di miele. L’intensità è bassina, e anche qui una patina dolce un po' appiccicosa rimane sul palato anche a fine bevuta, mentre ci vorrebbe un po’ più secchezza. L’amaro erbaceo finale è delicato ma ugualmente privo di eleganza e non esattamente gradevole; la sua bassa intensità lo rende comunque praticamente innocuo. 
Indoviniamo? 
Mi butto e abbino la Warsteiner Premium Verum al bicchiere nr. 1.  E’ senza dubbio la birra “meno peggio” delle quattro; non la andrei a cercare, ha tutte le caratteristiche dell’industriale inoffensiva e noiosa ma tutto sommato decente, benchè priva di  fragranza e/o freschezza. E’ pastorizzata, se non erro; ammetto di aver bevuto diverse volte la Warsteiner, in passato, ma era davvero tanto tempo fa. Il bicchiere nr.2 e nr. 3 mi sembrano molto simili, nella loro pochezza di gusto che rasenta l’acqua e in quell’amaro poco aggraziato che non ti lascia un piacevole ricordo anche di quel poco che c’è; mi gioco l’opzione discount su entrambe, ma non avendole mai bevute prima sarebbe inutile tentare di assegnare un numero a  Finkbräu Pils  o Grafenwalder. La nr.4 mi sembra un pochino meglio rispetto a queste due, per lo meno nell’intensità: scommetto sulla Ceres Top Pilsner, dopotutto c’è quel aggettivo “top” che mi fa pensare a qualcosa di qualità. 

Il verdetto.
Scarto le lattine numerate, ecco cosa c'era nei bicchieri.
Bicchiere nr.1  - Warsteiner Premium Verum
Bicchiere nr.2  - Finkbräu Pils
Bicchiere nr.3  - Ceres Top Pilsner
Bicchiere nr.4  - Grafenwalder Pils

E quindi?
Ho indovinato la Warsteiner, ma gli “avversari” erano forse troppo inferiori per non riuscirci; volendo guardare il prezzo, è anche la più cara del quartetto: 1.32 Euro (2,64 Euro/litro). 
La sorpresa in negativo è la Ceres Top Pilsner, quella "in positivo" (se così si può dire) è la  Grafenwalder che io avevo scambiato per la danese; prodotta dalla a me sconosciuta Frankfurter Brauhaus per una noto discount tedesco, si  difende con onore nei confronti della famosissima Ceres e, elemento da non sottovalutare, costa esattamente la metà  (0.59 invece di 1,19 Euro). 
Innocua, e quindi nulla da dichiarare, sulla Finkbräu: discount nel prezzo e anche nel gusto. Sicuramente meglio una Warsteiner, anche se costa più del doppio; prendete ovviamente la parola "meglio" con le dovute cautele. Stiamo sempre parlando di prodotti industriali alquanto anonimi e con molto poco gusto. 
Mi si perdoni infine il bicchiere fuori stile, ma era l'unico disponibile in quattro esemplari identici. 
In via eccezionale pubblico anche la classifica utilizzando la scala di punteggi BJCP: Warsteiner Premium Verum (26/50), Grafenwalder Pils  (23/50), Ceres Top Pilsner (20/50) , Finkbräu Pils (19/50).
Nel dettaglio:
Warsteiner Premium Verum, formato 50 cl., alc. 4.8%, lotto 04 A 17, scad.  05/08/2016, prezzo 1.32 Euro.
Finkbräu Pils, formato 50 cl.,  alc. 4,9%,  lotto A4 02:10, scad.  03/09/2016, prezzo 0.55 Euro.
Ceres Top Pilsner, formato 50 cl., alc. 4,6%, lotto H 0355, scad. 13/10/2016, prezzo 1.19 Euro.
Grafenwalder Pils, formato 50 cl., alc. 4,5%, lotto A4 02:40, scad. 20/08/2016, prezzo 0.59 Euro.


NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa lattina, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.