giovedì 30 ottobre 2014

Fouilla! Triple

Les Brasseurs du Sornin viene fondata nel 1982 a Pouilly sur Charlieu (cento chilometri a nord-ovest di Lione) dai fratelli Patay come distributore di bevande all’ingrosso; nel 1998 inizia invece la loro avventura nella produzione della birra, con l’acquisto di un impianto: oggi il birrificio genera il 95% del fatturato, con una trentina di birre prodotte per un totale di circa 5000 ettolitri l’anno. Un produttore a me completamente sconosciuto, ma il  beer-hunting porta spesso con sé  il rischio di acquistare qualcosa senza sapere esattamente che cosa ti troverai nel bicchiere. Così è avvenuto l’incontro con i Brasseurs du Sornin ed un bottiglia reperita in un’enoteca a pochi passi dalla suggestiva Abbazia di Cluny. 
Fouilla! È il nome dato ad una Belgian Strong Ale, ma è anche un’espressione tipica di Saint-Etienne, paese natale di Serge Patay, che si usa per indicare stupire e sorpresa; e speriamo che lo sia anche questa birra! Colore arancio carico opaco, con un cappello molto persistente di schiuma biancastra, compatta e cremosa. L’aroma è discretamente intenso e pulito, con sentori di arancia candita, albicocca, pepe e coriandolo, zucchero candito, biscotto e marmellata d’arancia. 
L’inizio sembra essere promettente, ed anche le prime impressioni al palato non sono negative: corpo medio, carbonazione vivace ed un ingresso dolce di biscotto e frutta candita. C’è però un rovinoso crollo verticale, pesantemente acquoso, nel quale la birra sembra improvvisamente scomparire prima di riemergere in un finale leggermente amaro di curacao. L’alcool (8.42%) è nascosto persino troppo e si sente la mancanza di un lieve tepore che possa almeno riscaldare il retrogusto: ma la richiesta rimane inascoltata, e Fouilla! Triple finisce abboccata di frutta gialla e canditi, lasciando il bevitore abbastanza insoddisfatto. 
Formato: 33 cl., alc. 8.42%, lotto PAL 583 10h07, scad. 23/09/2015, pagata 2.80 Euro (enoteca, Francia).

mercoledì 29 ottobre 2014

Lervig / Magic Rock Farmhouse IPA

Nell’ottobre del 2013 Stuart J. Ross, birraio di Magic Rock vola in Norvegia, a Stavanger, per realizzare una birra assieme a Mike Murphy, birraio di Lervig Aktiebryggeri. I due si erano conosciuti all’Haand Festival che viene organizzato ogni anno, in maggio, dalla Haandbryggeriet: la birra collaborativa viene realizzata presso gli impianti della Lervig, molto più capienti (dieci volte) di quelli di Magic Rock. Il risultato, che viene annunciato a gennaio 2014,  non è a dire il vero molto originale: si tratta di una Farmhouse-IPA, che in questo caso indica una India Pale Ale rifermentata con brettanomiceti. Si cavalca insomma una delle tendenze attualmente più di moda tra i birrifici "artigianali" esteri, mentre in Italia ci sono ancora pochissimi esempi. A dire il vero l’etichetta parla di “belgian yeasts and brettanomyces”; per la fermentazione primaria è stato infatti utilizzato un blend di lieviti belgi, mentre i luppoli dovrebbero essere Chinook, Centennial e Citra. Una parte della cotta è poi finita in botti di Chardonnay ed è stata commercializzata con il nome di Rustique.  Per una breve intervista ai birrai, andate qui. 
Si presenta di color arancio pallido opaco, con riflessi dorati ed un cappello di schiuma biancastra, un po’ grossolana e non molto persistente. L’aroma è ancora abbastanza fresco (bottiglia di giugno?) ed offre una gradevole complessità fatta di agrumi (lime, cedro, pompelmo) e cereali che vengono affiancati da sentori più rustici di cantina e polvere, fieno, formaggio. 
Un bell’equilibrio non facile da trovare in queste birre ibride: una IPA andrebbe bevuta fresca, i brettanomiceti hanno bisogno di tempo per emergere. Il rischio è che la maggior parte delle volte questo “contrasto” si risolva in modo poco soddisfacente:  bevendola fresca, non sentirete l’apporto dei  “bretta”; bevendola dopo molti mesi, l’aroma dell’abbondante luppolatura invecchiata potrebbe non risultare molto gradevole anche se abbinato ai “famelici” lieviti selvaggi. Bene anche in bocca: corpo tra il medio ed il leggero e vivace carbonazione per una birra scorrevole che si beve con buona facilità: è una birra molto secca e ricca di lime, limone e pompelmo, con qualche lieve nota dolce data dai malti (pane, cereali) e dalla polpa dell'arancio. La chiusura è molto pulita, con un bel finale amaro molto zesty che non fa però mancare qualche lieve rustica sfumatura terrosa. In bocca risulta quindi un po' meno interessante che al naso, facendo quasi dimenticare la parola "farmhouse" dell'etichetta, non fosse per la grande attenuazione che ricorda qualche Saison belga. Si tratta comunque si tratta di una IPA pulita e rinfrescante, ruffiana quanto basta e molto ben fatta che scorre via dal bicchiere molto velocemente senza richiedere nessuna sforzo. Promossa a pieni voti, senza indugi.
Formato: 33 cl., alc. 6%, lotto KL 12:38, scad. 24/06/2016, pagata 4.50 Euro (beershop, Italia).

martedì 28 ottobre 2014

Toccalmatto Delta Red Disorder

“Quando la routine si farà sentire forte e le ambizioni saranno affondate / ed il rancore sarà grande ma le emozioni non cresceranno / cambieremo i nostri modi, prendendo direzioni diverse / allora l’amore, l’amore ci farà a pezzi di nuovo”. Sono queste le parole con le quali inizia la canzone Love Will Tear Us Apart,  brano dei Joy Division, gruppo post-punk “nato” a Salford, periferia di Manchester, nel 1976. Il brano più noto ed orecchiabile ma non necessariamente quello più riuscito del gruppo esce poche settimane dopo il suicidio del  proprio cantante, fine paroliere e leader carismatico Ian Curtis, avvenuto il 18 maggio del 1980.  Giovane sposo a soli diciannove anni e poi padre a ventitré, Curtis non riesce più a sopportare una vita che si era lentamente trasformata in un inferno nel tentativo di conciliare le responsabilità familiari con la carriera musicale. L’incontro con una giornalista belga provoca il naufragio del suo matrimonio, la sua esistenza è sempre più tormentata dai frequenti attacchi di quella epilessia che cerca inutilmente di tenere sotto controllo mediante l’assunzione quotidiana di farmaci che spesso finiscono mescolati all’alcool (amava la Carlsberg Special, ahimè). A pochi giorni dalla partenza del primo tour americano del gruppo,  Ian Curtis (non ancora ventiquattrenne)  viene trovato impiccato nella cucina della sua casa di Macclesfield, una quarantina di chilometri a sud di Manchester. Gli ultimi suoni che riecheggiano in quella casa sono quelli di The Idiot di Iggy Pop; le ultime immagini sullo schermo del televisore sono quelle del film La Ballata di Stroszek di Werner Herzog. E’ un film che narra di un altro suicidio, quello di Bruno Stroszek, un ex-alcolizzato che lascia una violenta Berlino in compagnia di un vecchio e di una prostituta per sfuggire dai suoi magnacci e per mettersi all’inseguimento del sogno americano; ma il “nuovo mondo” si rivelerà ancora più freddo ed inospitale di quello lasciato alle spalle:  emarginato dalle barriere linguistiche e culturali, vede la propria compagna tornare a prostituirsi per sbancare il lunario ed il proprio sogno di ricominciare a vivere che fallisce. “Control” è invece il film realizzato nel 2007 sulla vita di Ian Curtis e dei Joy Division dal fotografo e regista Anton Corbijn.    
Bene, tutto questo preambolo potrebbe essere una scusa per parlare di uno dei gruppi musicali protagonisti della mia adolescenza, ma in realtà mi serve solo per introdurre una recente produzione del birrificio emiliano Toccalmatto, ultimamente molto attivo per quel che riguarda collaborazioni, novità e produzioni (forse) “one shot”. Delta Red Disorder è il nome dato ad un “super hopped imperial red ale” che Toccalmatto produce  in collaborazione con gli organizzatori della Independent Manchester Beer Convention  e  Claudia Asch della Port Street Beer House di Manchester. E qui troviamo già due punti d’incontro: Manchester è il luogo di nascita dei Joy Division, “Disorder” è il brano che apre il disco di debutto Unknwon Pleasures, 1979, dalla splendida copertina realizzata da Peter Saville. Ma il punto di partenza è ovviamente quella scritta in etichetta “Hops will tear us part” che omaggia il celebre brano dei Joy Division. La birra ha fatto le sue prime apparizioni al Borefts Beer Festival (Olanda) e ovviamente all’IMBC di Manchester che si è tenuto dal 9 al 12 Ottobre.  
La luppolatura vede un blend di varietà americane e pacifiche con, tra gli altri, Chinook, Nuggett, Mosaic, Palisade e Southern cross. Nel bicchiere è di un bell'ambrato intenso, con riflessi rosso rubino; la schiuma color ocra è cremosa, fine e compatta ed ha un'ottima persistenza. L'aroma è fresco e pungente, con aghi di pino, frutti rossi (fragola) e tropicali (mango e melone retato), mela rossa; all'alzarsi della temperatura emergono anche sentori di toffee. Il gusto ripercorre in buona parte il percorso olfattivo, con un iniziale equilibrio tra caramello, toffee, biscotto e un leggero fruttato tropicale; il fulcro della bevuta è però rappresentato dalla lunga ed intensa progressione d'amaro che dapprima bilancia il dolce per poi divenire l'assoluto protagonista, resinoso, pungente e pepato, intenso ma non "raschiante". Non molto carbonata, con un corpo medio, questa Delta Red Disorder risulta molto morbida e gradevole al palato; chiude con un leggero warming etilico ed un lungo retrogusto quasi balsamico di resina, pino, frutta secca e qualche sfumatura di menta. Non so se sarà ripetuta e cosa aggiunga al già ampio portfolio di Bruno Carilli, ma si rivela comunque una bevuta intensa ed appagante, con un carattere muscoloso ed un po' ruvido che stride un po' con l'eleganza che caratterizza molte birre Toccalmatto. In piacevole controtendenza rispetto al trend attuale di addolcire e tropicalizzare molte birre, questa è una Imperial Red Ale che regala amaro a volontà: sarebbe fin troppo banale fare un paragone con l'amara esistenza descritta da Ian Curtis ed i Joy Division in quasi ognuna delle loro canzoni. Fate buon uso di questa bottiglia.
Formato: 75 cl., alc. 8.6%, lotto14063, scad. 29/08/2015, pagata 10.00 Euro (spaccio birrificio)

domenica 26 ottobre 2014

Williams Brothers Paradigm Shift

Terzo appuntamento con il birrificio scozzese Williams Brothers, che vi ho presentato in questa occasione. E' la volta di una Amber Ale o di una "Red Ale potenziata", come il birrificio preferisce chiamarla: e si tratta di una delle ultime nate in casa Williams, visto che ha fatto il suo ingresso in società lo scorso gennaio al Inn Deep Bar di Glasgow. Il nome dovrebbe far riferimento alle teorie di Thomas Kuhn e al "cambiamento di paradigma"; l'etichetta mostra infatti una di quelle immagini reversibili o ambigue che mi ricordano uno dei miei ambiti di studi preferiti: la teoria della percezione della Gestalt. A seconda di come guardate quella testa di animale rappresentate in etichetta, potreste alternativamente vedere le orecchie arancioni della una testa di un coniglio o il becco arancione aperto di un papero. Proprio questa immagine reversibile fu scelta da Kuhn "per dimostrare come un cambio di paradigma può far sì che una persona veda la stessa informazione in un modo completamente diverso".
La gestalt di questa Red Ale è invece fatta di malti Lager, Crystal e Dark Crystal, frumento, ed un parterre di luppoli composto da Bravo, Citra, Centennial ed Amarillo. Il colore è molto invitante: ambrato con intense sfumature rossastre, appena velato: la schiuma è molto fine e compatta, cremosa, color ocra ed ha una buona persistenza. 
Al naso c'è una buona intensità ed una bella pulizia: caramello, biscotto, marmellata d'agrumi, frutta secca, qualche sfumatura di frutti di bosco rossi; non c'è molta freschezza, ma il pericoloso connubio caramello-marmellata genera un insieme dolce (quasi candito) che risulta tutto sommato ancora gradevole e meno stucchevole di quanto si potesse temere. Lo stesso discorso vale anche per il gusto: il rischio di queste Red Ale abbondantemente luppolate è che, una volta persa la loro freschezza, si trasformino in delle "bombe" dolci dalla bevibilità assai limitata. Qui invece l'insieme ancora "regge", il caramello, la marmellata ed il biscotto sono ancora tenuti sotto controllo da un amaro resinoso e soprattutto terroso che le donano una specie di equilibrio. La bevuta risulta morbida e gradevole, con una consistenza oleosa e poche bollicine: concedendo la parziale attenuante dei maltrattamenti della grande distribuzione, il risultato è alla fine discreto, con una rapporto qualità prezzo abbastanza interessante. 
Formato: 33 cl., alc. 6.2%, IBU 50, lotto 1703 1408, scad. 09/2015, pagata 2.19 Euro (supermercato, Italia).

giovedì 23 ottobre 2014

De Molen Rasputin

Il panorama brassicolo ci mette ogni giorno sotto gli occhi collaborazioni tra birrifici ma non crediate che sia tutto rose e fiori lì fuori: spesso si affilano i coltelli. Avete ad esempio intenzione di produrre una Imperial Stout e di chiamarla Rasputin, in onore del monaco e mistico russo vissuto a cavallo tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo Grigorij Efimovič Rasputin ? Beh non fatelo, perché avrete sicuramente dei problemi, simili a quelli incontrati dal birrificio olandese De Molen. Nel 2009 si vede recapitare una lettera da parte della  North Coast Brewing Company (Fort Bragg, Mendocino) che li intima di cambiare il nome alla propria Imperial Stout  in quanto violerebbe il copyright del marchio Old Rasputin che il birrificio Californiano aveva  registrato nell’aprile dello stesso anno.  La Old Rasputin di North Coast viene prodotta dal 1995 e la Rasputin di  De Molen dal 2007; non sono noti tutti i dettagli della questione, ma il risultato è che il birrificio olandese decide di “desistere” e di abbandonare, per la commercializzazione nel mercato statunitense il nome Rasputin, che può invece essere usato in Europa dove North Coast non distribuisce. 
De Molen ci mette anche un po’ di ironia: prima decide di chiamare la birra “Cease & Desist” (letteralmente “Smettila e desisti”) e poi con il più azzeccato neologismo “Disputin”, che fa contemporaneamente riferimento sia al nome originale della birra che alla “disputa” con gli americani. Ma l’etichetta è ancora meglio, con in bella evidenza la scritta “questa stout si chiamava Rasputin, ma la gente che produce la Old Rasputin in Calfornia pensa che voi (clienti) siate troppo stupidi per distinguere i due prodotti, e quindi ha minacciato di denunciarci per violazione di copyright”
Ora non ho purtroppo tempo di fare una rapida carrellata di tutte le battaglie (minacciate o avvenute) legali per violazione di “trademark”, ma negli Stati Uniti queste sono ormai all’ordine del giorno e potete divertirvi nella lettura.   
Eccovi alcuni link generali, in inglese: 
Ma se avete un birrificio state attenti perché vi dovrete guardare le spalle sia dai vostri compagni di business che anche da altri produttori di bevande e alimenti; attenzione soprattutto alle grandi multinazionali, che hanno (molti) soldi da spendere per proteggere i propri marchi. La Redbull, ad esempio, aveva intimato alla Redwell Brewery (un microbirrificio inglese di Norwich, otto persone in tutto!) di cambiare il proprio nome in quanto poteva confondere i clienti; la questione pare si sia risolta “amichevolmente”, con una dichiarazione da parte del birrificio inglese di non produrre mai bevande energetiche.
Torniamo alla nostra Rasputin; nell'estate del 2011 De Molen inaugura un nuovo e più capiente birrificio in un meno romantico complesso industriale rispetto ai vecchi impianti, situati all'interno di un suggestivo mulino. Il naturale periodo di assestamento di un nuovo impianto è forse durato più del previsto, visto che sono diverse le "lamentele"  (infezioni, carbonazione eccessiva) che potete leggere in rete. Non posso dire molto a riguardo visto che negli ultimi due anni non mi è mai capitato di bere De Molen, e non so neppure se abbia senso citare questo commento alla Rasputin (Laphroaig / Caol Ila barrel aged)  di un bevitore (del quale ignoro identità ed autorevolezza) su BeerAdvocate: "ne ho parlato con il birrificio è loro sapevano che c'era un infezione lattica, ma erano ugualmente soddisfatti del modo in cui la birra era venuta e quindi l'hanno messa in commercio".  E qui si potrebbe aprire una lunga discussione: giusto venderla dicendo "a noi piace anche così" o si tratta solamente della volontà di non buttare via una (costosa) produzione che magari ha anche passato un anno in botte ?
La "mia" Rasputin non fa eccezione all'altalenante qualità produttiva del birrificio lamentata da molti bevitori. Imbottigliata nel settembre 2012, si presenta per lo meno in modo impeccabile: marrone scuro, riflessi mogano, schiuma molto persistente color beige, fine e cremosa. Al naso non ci sono le tostature, il caffè o il cioccolato che ti aspetti ma molta frutta: fico, prugna e dattero disidratati, melassa, forse marzapane, qualche lieve sentori di aceto di mela. L'aroma non è effettivamente male (anche se lungi dall'essere "ottimo"), ma la sorpresa è forte. In bocca arriva molto, troppo carbonata, con il corpo medio ed un gusto che non presenta nessuna delle caratteristiche dello stile. L'elevata presenza di bollicine non aiuta molto a distinguere i sapori, ma ci sono note aspre di frutti rossi (ribes e amarena), una componente acetica abbastanza evidente e un finale - molto poco memorabile - dove l'amaro delle tostature e del caffè è sostituito da quello dell'acido lattico. L'etichetta dice che la birra si potrebbe gustare "entro venticinque anni", ma questa bottiglia è già andata da un po' e l'infezione si è già pappata quasi tutta la componente "scura" di questa imperial stout. A dire il vero quello che resta è effettivamente bevibile ed il risultato assume tutto sommato un senso compiuto, benché non molto gradevole: una specie di birra acida scura, che non porta nessuna caratteristica dei malti scuri utilizzati, se non il colore. 
Formato: 33 cl., alc. 10.4%, imbottigliata 13/09/2012, scad, 13/09/2037, pagata 4.00 Euro.

mercoledì 22 ottobre 2014

Peroni


Oggi una birra che probabilmente non vi sareste aspettati di trovare in questo spazio: parliamo di Peroni. Non è esattamente quello che ogni appassionato della cosiddetta birra “artigianale” sogna di trovarsi nel proprio bicchiere; stiamo parlando del “nemico” industriale ma anche di uno dei produttori storici italiani, fondato nel 1846 a Vigevano da Francesco Peroni, con mescita in un locale adiacente alla fabbrica che ebbe un permesso speciale per rimanere aperto fino alle 23.30.  Per chi volesse saperne di più, segnalo questo bell’articolo di Alberto Laschi per Fermento Birra, al quale credo ci sia poco da aggiungere. Cerco di riassumerlo: dopo una ventina d’anni di successo e di crescita, la Peroni sbarca a Roma aprendo un secondo stabilimento “prima vicino a Piazza di Spagna (1864), poi nel Borgo santo Spirito (1872, con la mescita che si effettuava nella elegante zona di via dei Due Macelli) e, infine, in zona Colosseo (1890), dove, accanto alla fabbrica, apre un “pub” con 19 tavoli”. All’inizio del ventesimo secolo la Peroni introduce in Italia la bassa fermentazione e per fare ciò si rende necessaria la fusione con la più grande fabbrica di ghiaccio di Roma. Nascono Le Società Riunite Fabbrica di Ghiaccio e Ditta F. Peroni, che nel periodo tra le due guerre, si dedicano all’acquisizione di altri piccoli produttori nazionali: la fabbrica Birra Perugia, le Birrerie Meridionali di Napoli, la Birra d’Abruzzo di Castel di Sangro, la Birra Partenope  e la  Birra Livorno. E’ Franco Peroni a trovarsi al comando dell’azienda dopo la seconda guerra mondiale: è lui a doverla far ripartire, e per farlo s’isipira al “modello americano”: la razionalizzazione logistica e la massima organizzazione (e standardizzazione) del processo produttivo si realizzano completamente nel nuovo e moderno stabilimento di Napoli inaugurato nel 1953. Il complesso formava una micro-città moderna e produttiva, composta da un insieme organico di grandi presenze costruite, piccole strutture residenziali o di servizio, ampi spazi verdi ed aree per viabilità e parcheggi. Seguono poi le aperture di Bari (1963), Roma (1971) e Padova (1973). Intanto il pesce grande continua a mangiare (comprare) quelli più piccoli: Dormisch di Udine e Faramia di Savigliano (anni ’50),  Pilsen di Padova e Raffo di Taranto (anni ’60), Itala Pilsen (1970) e Whurer di Brescia (1983).  E’ proprio negli anni ’80 che l’export comincia a diventare una voce molto significativa nel bilancio aziendale, grazie anche al successo della Nastro Azzurro, lanciata nel 1963 e divenuta (ahimè!) la birra italiana più venduta all’estero. 
A cavallo degli anni ’80 e ‘90 viene chiusa una buona parte degli stabilimenti acquisiti in precedenza: Livorno, Savigliano, Taranto, Udine e Brescia.  E arriva anche il giorno in cui il pesce grande, un tempo leader in Italia (40% di quota mercato negli anni ’80, oggi scesa al 19%), viene “mangiato” da un pesce ancora più grosso: nel 2003 la multinazionale SAB Miller acquista da Isabella Peroni la maggioranza aziendale. L’accordo viene “inaugurato” con la chiusura dello stabilimento di Napoli (31 Gennaio 2005); oggi il Gruppo Peroni annovera circa 750 dipendenti, tre stabilimenti produttivi (Roma, Padova e Bari), la malteria Saplo, una produzione annua di birra che ammonta a 3,320 milioni di ettolitri (2012) attraverso i marchi Wührer, Crystall Wuhrer, Raffo, Peroni, Peroni Doppio Malto, Peroni Rossa, Peroni Gran Riserva Puro Malto, Peroni Chill Lemon, Peroncino e Nastro Azzurro. 
Si parla di “gateway beer”  per indicare quelle cosiddette “birre artigianali” di facile fruizione che spesso rappresentano il modo in cui il bevitore “impara” a conoscere sapori e profumi diversi da quelli delle classiche birre industriali. Ma una volta che si è superato il “cancello” (gate), è possibile tornare indietro? Puoi capitare a chiunque birrofilo di bere un’industriale semplicemente perché “non c’è altro da bere” (e l’acqua?) ma difficilmente chi ha la possibilità di scelta lo farà. Ricordo la prima volta che ho assaggiato una IPA, diversi anni fa. Ero in un bar a New York e non sapevo neppure cosa fosse una IPA, anche se mi divertivo già a collezionare le etichette di birra; dal menu delle bevande ordinai qualcosa da bere lasciandomi ispirare dal nome: optai per la Hoptical Illusion IPA della Blue Point Brewing Company.  Avrò avuto la (s)fortuna di ricevere una bottiglia molto fresca (giovane), ma non credo di essere riuscito a finire quel liquido amarissimo, vegetale,  quasi balsamico. Lo trovai orribile; non ne capivo nulla e riconducevo la parola India (e le spezie) a quel gusto particolarmente  resinoso, pepato e pungente, appunto “speziato”. Per un palato “industrializzato” come era il mio di allora si trattò di una specie di shock gustativo;  ma com’è invece il processo inverso, ossia la regressione dall'artigianale all'industriale? 
La “prima sfida” è quella di bere volontariamente una Peroni  in un tranquillo dopocena, seduto sul divano, accompagnato da quel pizzico di nostalgia che ti fa associare il nome Peroni con il Secondo tragico Fantozzi del 1976:  “Sabato 18, alle ore 20:25, in telecronaca diretta da Wembley, Inghilterra-Italia, valevole per la qualificazione della Coppa del Mondo.  Fantozzi aveva un programma formidabile: calze, mutande, vestaglione di flanella, tavolinetto di fronte al televisore, frittatona di cipolle per la quale andava pazzo, familiare di Peroni gelata, tifo indiavolato e rutto libero!” Non sono riuscito esattamente a risalire all’equivalenza in centilitri della “Peroni formato famiglia”; io opto per il 66, ma sappiate che la trovate oggi anche nel 20, 33, 50, e 75.  La “seconda sfida” è quella di descrivere e raccontare una birra che hai trovato molto poco piacevole senza incorrere nel rischio di una denuncia da parte del gruppo industriale (avvocati e soldi…) che la produce.  Proviamoci ugualmente. 
Nel bicchiere è ovviamente perfettamente limpida e dorata, con una bellissima testa di schiuma bianca, croccante, fine e cremosa, anche se non molto persistente. L’aroma, poco pronunciato, è di mais e nello specifico mi ricorda l’amido di mais (provate ad aprire e annusare un sacchetto di maizena);  c’è anche qualche sentore di riso (?) e, in lontananza, qualche traccia di cereale. Non mi capita molto di frequente di bere “industriale”, ma la sensazione al palato è davvero impressionante: corpo leggerissimo, poche bollicine, un’acquosità esagerata per far evidentemente sì che la bevuta scorra il più rapidamente possibile, per rinfrescare  e dissetare. Del resto, avete mai visto una fotografia commerciale di una bottiglia di birra industriale che non sia ricoperta di “nebbiolina” o di goccioline d’acqua, per comunicarvi l’idea del fresco, del ghiaccio, del refrigerio? In bocca l’ho trovata praticamente priva di sapore, ma forse è “colpa” del mio palato che si è abituato ad altri “standard” e che cerca inutilmente di trovare qualche suggestione di pane o di miele: qui domina l’acqua, con qualche sfumatura di mais e di riso ed una timidissima nota amara erbacea a fine corsa. Riesce tuttavia ad essere leggermente dolce, e a lasciare un po’ il palato appiccicoso, soprattutto se evitate di berla “ghiacciata” come la prassi vorrebbe: ma, così facendo, ne ridurrete anche il suo potere dissetante. Direi che sia allora meglio seguire il consiglio. 
La prima chiave di lettura della Peroni sta tutta nell’informazione che trovate sul collo della bottiglia, nella foto in alto a sinistra; ingredienti: acqua, malto d’orzo, granoturco, luppolo. La seconda chiave la trovate sul sito ufficiale di Birra Peroni. “viene prodotta, oggi come allora, solo con ingredienti selezionati, come il malto 100% italiano, frutto di una speciale qualità di orzo cresciuto sotto il nostro sole e seguito con cura in tutte le fasi di crescita”.  L’enfasi è dunque sul malto: non ne metto in dubbio la qualità, ma piuttosto la quantità. Qual è la percentuale di malto e quale di granoturco utilizzata per fare questa birra? Nonostante l'elogio al malto italiano utilizzato, per me questa Peroni è una birra il cui gusto (leggero) è principalmente di mais. Detto questo, siete liberissimi di amarla, tracannarla gelata e dilettarvi nel fantozziano rutto libero o, in mancanza di alternative, considerate la possibilità di bere anche un rinfrescante bicchiere di acqua.
Formato 66 cl., alc. 4.7%, lotto L4 166 101, scad. 06/2015.

martedì 21 ottobre 2014

HOMEBREWED! Postino Brewery Borderline Pale Ale

E' con grande piacere che inauguro oggi un nuovo "spazio" sul blog, quello dedicato alle produzioni casalinghe. Rinnovo quindi il mio invito a tutti gli homebrewers che hanno voglia di esporsi e di far assaggiare le proprie produzioni: l'annuncio lo trovate qui
Subito quindi un ringraziamento a Giancarlo Maccini, alias "Gianpostino", homebrewer di Solignano (Parma) e attualmente residente a Londra che si è sobbarcato l'onere di spedire un paio delle sue produzioni direttamente dall'Inghilterra! Quattro anni di homebrewing alle spalle, socio MoBi e della London Amateurs Brewersha scelto per il "birrificio" casalingo il nome "Postino Brewery", con un logo semplice che richiama gli annunci pubblicitari degli anni '60.
Borderline è invece il nome dell'American Pale Ale autoprodotta, tra l'altro fresca partecipante alla giornata di Verona dello scorso 21 settembre del Campionato Italiano per Homebrewers Mobi, dedicata agli "stili USA" e dove si è piazzata al quattordicesimo posto su 58 partecipanti. La birra ha anche partecipato all'ultima UK National Homebrew Competition ottenendo 43/50 punti sulla BJCP Scoresheet che è la stessa scala di valutazione da me utilizzata per stillare le divertenti classifiche di fine anno. Allo stesso concorso, se non erro, Giancarlo ha ottenuto con un'altra sua birra anche una Honorable Mention nella categoria delle birre affinate in legno. 
La ricetta di questa Borderline Pale Ale prevede malti Maris Otter, Pale, Caramunich 2 e Biscuit, segale, mentre la generosa luppolatura è composta da Warrior, Simcoe, Chinook, Citra ed Amarillo. 
All'aspetto è di color rame opaco (o ambrato scarico, se preferite), con riflessi dorati; la schiuma biancastra è abbastanza fine e cremosa, con una buona persistenza. L'aroma è pungente e molto intenso, portandosi dietro tutta la freschezza di una bottiglia con due mesi di vita. C'è un'elegante macedonia di frutta composta da pompelmo e arancio, mango, ananas, melone retato; scaldandosi, la birra regala anche qualche sfumatura di frutti rossi (lampone, fragola) e di caramello. Per pulizia ed eleganza l'ho trovato non molto distante da alcune produzioni professionali che arrivano proprio da Londra, come The Kernel e Partizan: abbondante dry-hopping, aroma piacione e un po' ruffiano, di quelli che creano grandi aspettative al palato che però bisogna poi mantenere. E al gusto devo dire che la birra fa qualche passo indietro rispetto ai profumi, sia per quel che riguarda l'intensità che la pulizia. Dopo l'ingresso maltato (biscotto e caramello) c'è un calo di tensione che porta quasi in secondo piano la parte fruttata (agrumi e tropicale) per poi risollevarsi nel finale vegetale amaro  (forse anche un po' troppo, per una APA) che riporta in alto l'intensità ma che risulta un po' ruvido e piccante, anche (credo) per l'utilizzo della segale. C'è insomma un po' di incoerenza tra l'eleganza dei profumi e la ruvidezza del gusto (che non riesce però a trasformarsi in "rusticità") complice anche una carbonazione un po' troppo elevata. In conclusione, si tratta di un'American Pale Ale di un buon livello che, se devo essere sincero, non si riscontra spesso negli oltre settecento professionisti (birrifici/brewpub/beerfirm) di birra che ormai popolano la nostra penisola. C'è solo da lavorare sulla pulizia e sull'eleganza del gusto, per una bevuta che sia rustica (se queste erano le intenzioni) senza risultare sgraziata e che mantenga una buona parte delle aspettative create dall'ottimo aroma. Ringrazio ancora Giancarlo per la birra  e vi dò appuntamento a presto per assaggiare la sua Saison.
E visto che ritengo che per ogni homebrewer il feedback sia la cosa più importante, ecco la mia (umile) "valutazione" secondo il BJCP Beer Scoresheet è di 36/50 (aroma 10/12, aspetto 3/3, gusto 13/20, mouthfeel 3/5, impressione generale 7/10).
Formato: 33 cl., alc. 6%, imbott. 18/08/2014.

lunedì 20 ottobre 2014

Green Flash West Coast IPA

Gli Stati Uniti guardano con sempre più interesse all’Europa. Ci sono birrifici che apriranno succursali nel nostro continente con le proprie forze (Stone Brewing Co.) ed altri (Brooklyn) che per farlo si sono alleati con il “nemico” industriale.  E poi c’è un’altra modalità, che è quella di far produrre (contract brewing) le proprie birre destinate al mercato europeo da birrifici europei. E’ questa la modalità scelta dalla californiana Green Flash Brewing Co., una trentina di chilometri a nord di San Diego, fondata nel 2002 da  Mike e Lisa Hinkley.  “E’ da tempo che spingiamo per la distribuzione della nostra West Coast IPA in Europa, ma il problema principale è stato sempre quello di farla arrivare fresca; – dice Mike  – dopo aver fatto dei tentativi con alcuni importatori, ci è parso evidente che la qualità della nostra IPA che arrivava al consumatore europeo non era soddisfacente, ed il suo prezzo era quasi proibitivo. Dovevamo pensare ad una soluzione migliore”. Su questo non posso che confermare la mia esperienza di qualche hanno fa con una bottiglia di West Coast IPA in stato comatoso.
La scelta del partner europeo cade quasi automaticamente sulla belga Brasserie St-Feuillien, che aveva già collaborato con Green Flash nel 2010 per realizzare la “Bière De L’Amitié” poi seguita nel 2012 dalla Black Saison.  Ecco che all’inizio dell’estate 2014 il birraio  Chuck Silva si reca in Belgio per “insegnare” a Alexis Briol tutti i segreti di quella che è considerata la flagship beer di Green Flash.  La buona notizia per i consumatori europei arriva però proprio nel momento in cui la ricetta di una delle IPA più rappresentative della California è stata da poco modificata. La notizia è dello scorso Marzo  e va di pari passo con il rinnovo grafico al quale sono state sottoposte tutte le etichetta di Green Flash. Ma tralasciando l’estetica delle etichette, negli Stati Uniti  numerosi beer aficionados non hanno preso molto bene il cambiamento di ricetta di una birra storica e molto amata.   
Ma cosa è cambiato, concretamente?  E’ innanzitutto aumentato il contenuto alcolico, che passa dal 7.3 al 8.1%: in etichetta è stata aggiunta la parola “double”, mentre prima si tratta solamente di una India Pale Ale. Il vero oggetto del contendere è  - ovviamente – la luppolatura; la storica West Coast IPA prevedeva abbondante uso di Simcoe, Columbus, Centennial e Cascade, mentre la nuova versione aggiunge ai quattro luppoli già citati anche il gettonatissimo Citra. E’ proprio questo l’oggetto del contendere, con “l’accusa” fatta a Green Flash di seguire troppo la moda e di farsi trascinare nell’hype del Citra. La struttura della grafica delle nuove etichette fa poi sì che (casualmente ?) la parola “Citra” risulti quella più grande e più in evidenza rispetto ai nomi degli altri luppoli usati. Perché cambiare la ricetta di una birra che è stata una delle principali protagoniste del grande successo dello stile West Coast IPA, anni prima dell’invenzione del Citra?  Perché non  creare una IPA completamente nuova, se si voleva usare il Citra ? In aggiunta a questo, Green Flash viene “accusata” dai (fortunati) habitué statunitensi di cambiare troppo spesso: formati delle bottiglie, etichette, formato dei packs (4 o 6), indicazione della data d’imbottigliamento sostituita da quella di scadenza e poi viceversa. Ma a dire il vero un motivo per far polemica lo avremmo anche noi consumatori europei:  negli USA Green Flash dà sei mesi di vita alla sua West Coast IPA, ma la sua gemella belga ne ottiene invece dodici. Perché ?   
Da quanto apprendo la versione europea utilizza inoltre malti europei anziché americani.
Birra nel bicchiere, il colore è quello classico di una IPA Californiana: tra l’oro e l’arancio, leggermente velato, con un’impeccabile “testa” di schiuma bianca, fine, cremosa e molto persistente. La bottiglia in questione immagino risalga allo scorso giugno, e siamo quindi al quarto mese di vita: una freschezza ancora “accettabile” che si manifesta nell’aroma, pulito ed elegante. Pompelmo, arancio, mango e papaya dominano la scena lasciando molto in sottofondo la resina e gli aghi di pino: un aroma più piacione che muscoloso, che sembra – effettivamente -  seguire la tendenza attuale che vede le IPA più “dolci” e fruttate rispetto al passato. Lo stesso può dirsi del gusto: pulizia ed equilibrio su tutto, ingresso maltato (biscotto), frutta tropicale dolce, chiusura amara non particolarmente intensa e pungente; l’alcool è molto ben nascosto, la bevuta è molto gradevole – quasi accademica - anche se non molto pungente.   Chiariamoci subito: il livello è alto e se tutte le DIPA che mi arrivano nel bicchiere fossero così sarei ben contento: corpo medio, morbida e scorrevole in bocca, forse solo un pelino carente di bollicine. Ma, tralasciando la bottiglia-cadavere del 2011 i miei ricordi sono di una ottima West Coast IPA bevuta a San Diego nell’estate del 2012. Certo, sei in California per la prima volta, tutto ti sembra più bello ed il tuo metro di giudizio è un po’ sbilanciato verso l’alto. Resta il fatto che quella era una IPA ugualmente bilanciata ma con quell’accelerata finale amara che ti lascia completamente soddisfatto a fine bevuta; in questa West Coast IPA 2014 ci trovo invece molta più frutta e quasi l’intenzione di non fare troppo male al palato del bevitore. Detto questo, ben venga la possibilità di bere una birra  “americana” prodotta in Europa e quindi meno maltrattata dal viaggio intercontinentale; speriamo solo che anche il prezzo risenta dei benefici della produzione continentale. Non sono riuscito a scoprire quanto costi in Belgio, ma se si potesse acquistare al prezzo di una "normale" birra belga (al di sotto dei due euro) sarebbe davvero una manna. Noi invece qui in Italia, tra  importatori, distributori vari e rivenditori,  restiamo coerenti con il caro-birra: pagata 5.00 Euro quella arrivata negli USA nel 2011 (erano 35.5 cl!) e pagata 5.00 Euro anche questa.
Formato: 33  cl., alc. 8.1%, IBU 95, lotto 5782 08:09, scad. 20/06/2016.

domenica 19 ottobre 2014

Hanssens Oude Gueuze

Bartholomeus Hanssens, un tempo sindaco di Dworp (diciassette chilometri a sud di Brussels), iniziò a produrre lambic nel 1871 nei locali che un tempo ospitavano il birrificio Sint Antonius. A partire dal 1896, la produzione avviene in una casa di campagna nella Vroenenbosstraat a Dworp, dove tutt'ora gli Hanssens risiedono. Non troverete però nessun impianto produttivo: fu l'invasione dell'esercito tedesco nel corso della prima guerra mondiale a farli sparire definitivamente. Il rame era un metallo molto prezioso ed utile per l'industria bellica, e tutti i macchinari furono sequestrati. Da allora la produzione non è più ripartita ma gli Hanssens hanno continuato ad assemblare il lambic altrui, quello di Boon, Girardin e Lindemans. 
Nel corso degli anni il testimone è passato da Bartholomeus a Theo e poi, nel 1974, a Jean: oggi alla guida c'è Sidy, figlia di Jean, assieme al marito John, che svolgono questo lavoro "part -time" parallelamente ad altre attività. Pochissimi investimenti, la stessa imbottigliatrice in funzione dal 1954, nessun sito internet; il venerdì e il sabato potete acquistare le bottiglie direttamente dalla casa degli Hanssens che vi aprono le porte. 
Ecco allora una bottiglia di Hanssens Oude Gueuze, gentilmente inviatomi da Iperdrink.it   Assolutamente classica l'etichetta, che racchiude con un'immagine tutte le parole scritte sino ad ora.
E' di colore oro carico, velato, e forma un bel cappello di schiuma bianca, compatta e "croccante", cremosa e dalla buona persistenza. Al naso emergono sentori di legno umido e di cantina, mela verde acerba, uva bianca ma l'aroma è soprattutto netto l'acido lattico e l'asprezza di limone, lime e qualche  traccia di pompelmo. Man mano che la birra si scalda emergono anche le tradizionali "puzze": sudore, polvere, animale. Il gusto è decisamente acido (lattico) con una marcata a sprezzo di ribes bianco, cedro e limone, uva: non c'è spazio per molto altro, se non per qualche leggerissima traccia acetica. Il finale è molto secco e quasi tagliente, aspro, dissetante e molto rinfrescante. Corpo tra il medio ed il leggero, carbonazione media per una sensazione palatale gradevole. Bottiglia che mostra ancora l'asprezza e l'irruenza della giovane età; volendo fare un confronto con il Gueuze di 3 Fonteinen bevuto qualche settimana fa, quello di Hanssens appare meno complesso e meno strutturato. Il consiglio è quindi quello di acquistare qualche bottiglia, lasciarle un po' in cantina e divertirsi ad aprirle anno dopo anno.
Formato: 37.5 cl., alc. 6%, lotto Y, scad. 07/08/2032 (fiammingo) o 07/08/2034 (francese). La potete acquistare qui: www.iperdrink.it
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sabato 18 ottobre 2014

To Øl/Mikkeller Ov-ral Wild Yeast IIPA

Dopo averli avuti come allievi al liceo, Mikkeller ha tenuto a battesimo l'esordio di Tobias Emil Jensen e Tore Gynth, alias To Øl, nel business della birra con una double IPA collaborative chiamata Overall IIPA. La birra del debutto ha poi due sequel: ad uno viene aggiunto del caffè (Sleep Over Coffee IIPA) e all'altro vengono aggiunti lieviti selvaggi (brettanomiceti) per la rifermentazione in bottiglia. 
Avevo parlato di Orval giusto ieri, con il tributo fattole da Toccalmatto e Prairie, e rieccomi ad affrontare il tema; questa Ov-ral Wild Yeast IIPA non rappresenta certo un tentativo di replicare la birra trappista, ma i due birrai zingari danesi non si sono fatti scappare l'occasione di giocare con le parole e trasformare l'Overall originale in una parola che richiama l'Orval e l'utilizzo dei brettanomiceti. Da notare che anche Mikkeller ha realizzato una birra-tributo all'Orval, chiamandola It's Alive.
La ricetta della Ov-ral IIPA prevede una generosa luppolatura di Simcoe, Centennial, Amarillo e, oltre ai malti non specificati, fiocchi di avena. 
Nel bicchiere si presenta di color ambrato, con sfumature ramate, opaco; impeccabile la schiuma, ocra, compatta e cremosa, fine, molto persistente. Il benvenuto è di frutta tropicale (ananas e mango) con pompelmo ed arancio; la pulizia è molto alta, l'intensità è buona mentre la freschezza non è purtroppo allo stesso livello e gli agrumi assumono la forma di una marmellata piuttosto che di un frutto appena aperto. 
L'alcool (10.5%) si fa sentire sin da subito, assieme a sentori di caramello e di biscotto. Ammetto di non amare particolarmente le birre in cui l'alcool alza troppo la testa (fatta eccezione forse per qualche Imperial Stout) e purtroppo in questa Ov-ral IIPA di alcool se ne sente davvero tanto. Visto il rimando all'Orval mi sarei aspettato per lo meno una Double IPA "subdola" dall'alcool molto ben nascosto che ti presenta il conto solamente alla fine del bicchiere. Ma qui la bevuta inizia invece in salita sin dai primi passi e procede piccoli sorsi, con note di biscotto, caramello e marmellata d'agrumi, qualche traccia di frutta tropicale ed un finale amaro abbastanza intenso, resinoso e terroso. La birra è solida, ben fatta, molto pulita e mette in mostra i muscoli a discapito della bevibilità, obbligando ad un lento sorseggiare che dopo un po' si trasforma in noia, visto che il gusto non offre una complessità tale da favorire la cosiddetta "meditazione" o contemplazione. Rimango abbastanza perplesso dall'utilizzo di lieviti selvaggi in una Double IPA (ed anche nelle IPA): i brettanomiceti hanno bisogno di tempo (mesi) per farsi notare mentre qualsiasi Double IPA andrebbe bevuta fresca. Non so che ceppo di Brettanomiceti sia stato usato ma, considerata l'assenza completa delle "puzze" tipiche dei "bretta" Lambicus e Bruxellensis, la mia ipotesi va in direzione dei Claussenii. Mi è sembrata comunque una birra abbastanza inutile, anche se ben fatta, dalla bevibilità davvero limitata e quindi la negazione della Orval stessa. Ma, in uno sterminato portfolio brassicolo come quello di To Øl e Mikkeller, qualche passo falso può anche capitare.
Formato: 33 cl., alc. 10.5%, scad. 09/07/2016, pagata 5.00 Euro (beershop, Italia).

venerdì 17 ottobre 2014

Toccalmatto/Prairie Artisan Ales Okie Matilde

Ad inizio 2014  il Birrificio Toccalmatto di Bruno Carilli annuncia dal proprio blog l'arrivo di una nuova creatura, nata dalla collaborazione con Chase Healey del birrificio americano Prairie Artisan Ales"Abbiamo brassato questa belgian ale brettata, omaggio a una celebre birra trappista, alla leggendaria donna la cui storia lega l'abbazia di Orval a Canossa e allo stato natio del ostro ospite, l'Oklahoma. Non aggiungeremo altro": il suo nome è Okie Matilde. 
Cerchiamo allora di risolvere il mistero, ovvero di scoprire cos'è che lega l'abbazia di Orval a Matilde di Canossa e all'Oklahoma. Il nome dato alla birra non è molto d'aiuto: con la parola Okie si indica un nativo o un residente dello stato dell'Oklahoma. Ma state attenti a dirlo, non si tratta esattamente di un complimento: in California la parola veniva infatti usata negli anni '30 per indicare in modo dispregiativo i poveri immigranti che arrivavano dall'Oklahoma o dagli stati vicini (Texas, Arkansas, Missouri). Negli anni '70, sempre in California, con Okie si indicava qualsiasi membro di un sottogruppo etnico-culturale, come ad esempio potevano essere gli immigrati italiani, gli irlandesi o i polacchi. Ancora negli anni 90 la California vietò ad un ristorante chiamato Okie Girl di mettere la propria insegna pubblicitaria al bordo della Interstate 5, con la motivazione che "si trattava di un insulto ai residenti dell'Oklahoma"; fu solo dopo una lettera del governatore dello stato "offeso" che il divieto fu rimosso. Insomma, sebbene il termine abbia perduto gran parte del suo potenziale offensivo, non usartelo con troppa leggerezza quando andate negli Stati Uniti. 
Tutto questo non ci aiuta però a capire quale sia il legame tra l'Orval e l'Oklahoma. Spostiamoci in Belgio, allora, dove le cose sono decisamente più facili, Partiamo dal matrimonio tra la granduchessa Matilde di Canossa e Goffredo IV detto "Il Gobbo", avvenuto nel 1069; un matrimonio infelice ma, si sa, a quel tempo non ci si sposava certo per motivi sentimentali, soprattutto tra nobili. Goffredo (duca di Lorena) e Matilde vissero praticamente sempre separati, e dopo neppure due anni Matilde era già tornata da sola in Italia. Nel 1076 Goffredo viene assassinato per ordine del conte delle Fiandre e, quasi contemporaneamente, il loro giovanissimo figlio muore a seguito di una caduta nelle gelide acque del fiume Semois che scorre vicino a quello che allora era il Monastero di Orval ancora in costruzione. E a questo punto terminano i fatti storicamente documentati ed inizia la leggenda: questa vuole che il conte Arnoldo II di Chiny (proprietario del luogo dove avvenne la tragedia) portò Matilde, per alleviare il suo dolore, a visitare il neonato Monastero. Ma quando Matilde immerse la mani nell'acqua di una delle sorgenti interne alle mura del Monastero, la sua fede nuziale scivolò dal dito perdendosi tra le acque; Matilde pregò allora la Vergine Maria affinché potesse ritrovarla e, come per miracolo, una trota saltò fuori dalle acque portando in bocca il prezioso anello. All'interno dell'Abbazia di Orval si trova ancora oggi la "Fontana Matilda" sorta nel luogo in cui sarebbe avvenuto il prodigio. La contessa, stupefatta, esclamò "questo luogo è davvero la valle dell'oro!". L'equivalente francese, Val d'Or, è poi mutato nel corso del tempo in Orval, e una trota con un anello in bocca è ancora oggi raffigurato sul logo del birrificio trappista; Matilde ricompensò con lauti finanziamenti il virtuoso monastero.
Svelata una metà del mistero "Orval-Canossa-Oklahoma", rimane nell'ombra il restante 50%; personalmente non sono riuscito a  trovare nessun legame concreto tra Orval e l'Oklahoma, e prego qualcuno più informato di me di farsi avanti e portare un po' di luce nel buio.
Passiamo invece a cose più terrene e concrete, ossia la nostra amata birra. Okie Matilde è una Belgian Ale "brettata" come lo è la Orval ed anche l'alcool (6.2%) è allo stesso livello.
Di colore arancio opaco, forma un cappello di schiuma bianca un po' grossolana, saponosa ma dalla buona persistenza. Il naso offre profumi di fiori bianchi, pepe, scorza d'arancio, pesca e pera, biscotto ed una evidente componente lattica: ottime sia l'intensità che la pulizia. Con un corpo tra il medio ed il leggero e una carbonazione media, in bocca rivela buona scorrevolezza ma non troppa vivacità: il gusto è prevalentemente dolce di frutti gialli, con note di arancio ed una leggera acidità che la rende molto rinfrescante e dissetante. La bevuta è molto facile e soddisfacente, con un finale rustico ed amaro, terroso, vegetale con una nota di erbe officinali. Molto intensa, ben fatta e pulita, questa Okie Matilde ha Brettanomiceti più evidenti al naso che in bocca, non ha la stessa "bevibilità assassina" di una Orval in piena forma ma, se si tratta di un omaggio alla trappista belga, è un tributo molto ben riuscito ed azzeccato. L'unica nota dolente è purtroppo il prezzo: 75 cl. di Okie Matilde costano circa come 132 cl. di Orval (quattro bottigliette da 33, prezzo italiano). A voi la scelta.
Formato: 75 cl., alc. 6.2% lotto 13093, scad. 31/12/2018, pagata 10.26 Euro (beershop, Italia).

giovedì 16 ottobre 2014

CREW Republic Foundation 11 Pale Ale

Il debutto di Crew Reupblic non è stato dei migliori soprattutto a causa di una Double IPA non molto fresca. Il secondo tentativo di oggi avviene con la loro Foundation 11 Pale Ale, che è in verità la prima ricetta che la beerfirm tedesca ha elaborato (in fase di homebrewing) in un appartamento di Monaco di Baviera.  
La ricetta prevede luppoli Herkules, Nelson Sauvin, Chinook, Citra e Cascade, abbracciando tre continenti, mentre i malti (di provenienza bavarese ed inglese) sono Monaco, Pilsener, Caramello.
Gradevole l'aspetto, con un colore tra l'oro e l'arancio, velato; forma una discreta teste di schiuma biancastra, fine e cremosa, che ha una buona persistenza. L'aroma non è al massimo della freschezza ma offre comunque una bella pulizia ed una discreta eleganza: mandarino e arancia, kiwi, uva, mango, fragola, pompelmo. Un bel bouquet che crea aspettative non completamente soddisfatte dal gusto. Dopo l'ingresso maltato di pane, biscotto e caramello, mi aspetterei una piccolo "cestino di frutta"che richiami in buona parte l'aroma. Il gusto sembra invece soffrire la mancanza di freschezza in maniera maggiore dell'aroma, offrendo principalmente un po' di marmellata d'agrumi, dall'intensità neppure particolarmente elevata. La chiusura è amara, di discreta intensità, con note erbacee, vegetali ed un "ritorno" di cereali; il corpo è medio-leggero e si sente un po' la mancanza di qualche bollicina in più a vivacizzare la bevuta. 
Anche per questa Foundation 11 Pale Ale vale lo stesso discorso fatto per la Escalation Double IPA bevuta qualche tempo fa: bottiglia poco fresca, abbastanza bene l'aroma, un po' meno il gusto. Gli elementi giusti ci sarebbero, andrebbe riassaggiata in condizioni migliori (credo che questa bottiglia sia "nata" lo scorso marzo) per farsi un'opinione migliore di una APA facile da bere e dal prezzo contenuto.
Formato: 33 cl., alc. 5.6%, IBU 40, lotto 15:15, scad. 31/03/2015, pagata 1.57 Euro (food store, Germania).

mercoledì 15 ottobre 2014

Celt Experience Ogham Ash

Oggi ci rechiamo in Galles, precisamente a Caerphilly, una quindicina di chilometri da Cardiff, dove ha sede il birrificio Celt Experience. Viene fondato nel 2007 da Tom Newman, un ingegnere e microbiologo che lascia il suo lavoro in un’industria dell’acqua per trasformare anni di homebrewing nel garage del padre a Banwell (Somerset) in una professione. Nel suo passato di adolescente, anche qualche lavoro come aiutante in un birrificio del Somerset.
Nel 2003, grazie ad un finanziamento di 10.000 sterline, Newman riesce ad acquistare un vecchio edificio ferroviario nei pressi di Yatton (Somerset) e ci installa una parte degli impianti della defunta Smiles Brewery, acquistati al prezzo di rottame. Il suo progetto è di formare un birrificio (ed un marchio) con un forte legame con la tradizione celtica: depositato il marchio “Celt”, c’è da risolvere il problema geografico. Non sarebbe molto coerente sbandierare la cultura celtica dal Somerset inglese. Nel 2007 ottiene quindi altri finanziamenti necessari per spostarsi in Galles ed acquistare lo stabile a Caerphilly dove il birrificio si trova tutt’ora e dove Newman stesso nacque. La produzione attuale è di circa un milione di litri l’anno, con una distribuzione che avviene principalmente presso supermercati (40%) e beershop: Newman stesso ammette di aver un po’ tralasciato i pub, per concentrarsi piuttosto sull’esportazione (35%) in venti paesi tra Europa, USA, Russia, Canada, Cile, Giappone e Australia. Il 2014 ha visto il birrificio arricchirsi di una creperie, dove i visitatori possono mangiare, e di una sala da Bowling.  La produzione a Caerphilly è partita nel 2008 con una gamma di birre esclusivamente biologiche, ma Newman ammette che col passare degli anni la qualità delle materie prime è peggiorata sempre di più, al punto da convincerlo, nel 2011, a rivoluzionare completamente l’offerta del birrificio. 
L'ammiraglia di Celt Experience è una imperial porter chiamata Ogham Ash; il riferimento è all'alfabeto ogamico, ovvero un tipo di scrittura che fu in uso soprattutto per trascrivere antiche lingue celtiche. La sua caratteristica principale è quella di non avere lettere di forme differenti, bensì di ottenere le differenti lettere con un numero diverso di incisioni a destra, a sinistra o attraverso una linea che costituisce il fulcro dello scritto.  Incisioni che sono ben raffigurate in etichetta; ammetto la mia completa ignoranza di cultura celtica e quindi lascio ad altri il compito di decifrarle, anche se suppongo il loro significato sia "ash", ovvero cenere.
Nel bicchiere è praticamente nera, con una bella testa di schiuma beige, fine e cremosa, molto persistente. Al naso c'è subito l'alcool in evidenza (rum), con sentori di liquirizia, frutta secca (prugna, fico), frutti di bosco; molto più mi sottofondo qualche traccia di mela verde, tostature e, mi sembra, di marmellata d'agrumi. L'aroma è pulito ed ha una buona intensità. E' invece decisamente meno interessante quello che avviene in bocca: anche qui c'è una presenza dominante di alcool, ma è ingombrante, poco morbida. Le tostature non sono particolarmente eleganti e raschiano un po', la chiusura amara terrosa, torrefatta è leggermente salmastra; nel mezzo trovano posto caffè e frutta sotto spirito. Il corpo è medio, la consistenza è oleosa e privilegia la scorrevolezza alla morbidezza; le bollicine sono poche. Ma il maggior limite di questa birra è la bevibilità: la gradazione alcolica è importante (10.5%) ma sono numerosissime le birre in questo range che si lasciano bere quasi senza nessun sforzo. Questa Ogham Ash richiede invece molto impegno anche solo per essere sorseggiata, risultando un po' slegata in bocca e non molto soddisfacente. Ne ho sentito parlare molto bene, quindi per questa volta mi appello al sempre valido paravento della "bottiglia sfortunata".
Formato: 33 cl., alc. 10.5%, IBU 55, scad. 01/03/2015, pagata 4.75 Euro (beershop, Inghilterra).

martedì 14 ottobre 2014

Granny Hoppie

Il circolo Arci  “I Vizi del Pellicano” di Fosfondo, Correggio (Reggio Emilia) offre da molti anni musica dal vivo, concerti, mostre e – ovviamente – la possibilità di mangiare e soprattutto di dissetarsi.  Nel bar del circolo hanno fatto lentamente comparsa le prime birre artigianali, proposte sia alla spina che in bottiglia; il successo riscontrato tra i clienti ha convinto la gestione, nel 2012, a ristrutturare il sottotetto del casolare per creare un pub dedicato alla birra artigianale: “Il Vizietto” quattro spine, una pompa ed un’ampia selezione in bottiglia.  Dietro il bancone la passione e (mi dicono) la competenza di  Marcello “il Barone Birra” Giuliani. Sua è anche l’idea di realizzare, qualche mese fa, una birra in collaborazione con il Birrificio Oldo di Cadelbosco di Sopra (Reggio Emilia). Abbastanza insolita la scelta di orientarsi su di una Cream Ale: in Italia  ce ne sono già diverse, ma non si può certo dire che sia uno tra gli stili maggiormente proposti dai nostri birrifici.  
Vale allora forse la pena spendere due parole in più: si tratta di uno stile “nativo” americano risalente all’epoca anteriore al proibizionismo e che si diffuse soprattutto nel nord e nel mideast degli Stati Uniti per competere con le American Lager. La loro popolarità in Canada, dove il proibizionismo fu meno “feroce”, le consentirono di sopravvivere e di non essere definitivamente abbandonate, pur continuando ad essere prodotte in versioni molto più “blande” e  meno luppolate rispetto alle originali. La craft beer revolution americana ha riportato in vita le Cream Ale pre-proibizioniste, dal carattere più luppolato e dalla gradazione alcolica più sostenuta.   
Impossibile non parlare dell’etichetta di questa birra, chiamata Granny Hoppie e – per quanto mi riguarda – quasi sicura vincitrice del simbolico premio “etichetta dell’anno 2014”.  La “folle” opera è del poliedrico artista reggiano Frankie Magellano. Lascio a voi ogni commento, sappiate solamente che l’etichetta è stata volutamente attaccata sul vetro della bottiglia in modo approssimativo per darle un “look” più invecchiato, “consumato”, che meglio si abbinasse all’anziana bevitrice ritratta.  Splendida l’etichetta ma, lo dico da subito, ottima anche la birra. 
Granny Hoppie quindi, "an hopped cream ale, the original one not for granny"; presente anche un drinker advisory: "granny content".
Di colore oro antico velato, con riflessi color rame; la schiuma che si forma è biancastra, fine e cremosa,  compatta, con una buona persistenza. L’aroma è fresco e pungente, pulito, estivo: passando in sequenza pompelmo, lime, limone, arancio, ananas acerbo. Lasciate che la birra si scaldi un po' e sentirete affiorare sfumature più dolci di lampone e fragola, frutta tropicale, biscotto. Prerogativa di una cream ale è l'essere dissertante e rinfrascante, e questa Granny Hoppie centra il bersaglio. Vivacemente carbonata, ha corpo più medio che leggero ed una spiccata componente watery che fortunatamente ne alleggerisce un po' la bevuta aumentandone la velocità . L'ingresso è leggermente maltato (pane/cereali, biscotto) e poi è un festival di agrumi con qualche nota tropicale più dolce a bilanciare. Il finale è molto secco (forse un pelino astringente) con una bella chiusura amara ricca di zest (pompelmo, lime, limone) e qualche sfumatura erbacea. Davvero una bella session beer estiva molto profumata ed intensa,  ruffiana quanto basta, da bere a ripetizione; la freschezza che ancora conserva le dona quella marcia in più che vorresti sempre trovare in birre di questo tipo, leggere, fragranti, discretamente luppolate. Spero non si tratti di una one-shot, e che venga replicata nel corso della prossima stagione estiva, in modo da prenotarne un cartone. E, nel caso vi foste posti la domanda, la risposta è sì: è una birra che potete anche far bere a vostra nonna.
Granny Hoppie è reperibile (credo) quasi esclusivamente presso il pub Il Vizietto di Coreggio;  trovate ancora qualche bottiglia anche al beershop Wild Hops di Rubiera, dove la birra è stata presentata con un evento apposito all’inizio di Settembre  Per una volta  faccio “pubblicità gratuita”, ma se anche voi siete collezionisti di etichette (diamo per scontato che vi piace la buona birra), direi che vale la pena andare a fare la spesa.    
Formato: 50 cl., alc. 4.6%, lotto AD032, scad. 31/03/2015.

lunedì 13 ottobre 2014

Birrificio del Ducato Donkere Vader

Forse anche qualcuno di voi si sarà posto la domanda del perché una Black IPA abbia un nome fiammingo (Donkere Vader), quando lo stile di appartenenza non ha niente a che vedere con la cultura belga.   La risposta è semplice, in quanto la birra in questione nasce come una collaborazione con l’olandese Derek Walsh (beer-writer, birraio, consulente e giudice in diversi concorsi tra i quali anche la nostra Birra dell’Anno). Ce lo racconta direttamente Giovanni Campari sul sito del Birrificio del Ducato: “Derek è un giudice di birre di fama internazionale, ha una grande conoscenza ed un approccio molto analitico; ci conosciamo da diversi anni e il nome della birra è in un certo senso un riferimento a lui, il mio “padre oscuro”. Diversi anni fa mi propose di fare una birra insieme, il nostro obiettivo comune era quello di brassare una Black IPA che non fosse dominata dalle tostature dei malti (come purtroppo spesso si sentiva nella maggior parte degli esempi in commercio) per permettere ai luppoli di sprigionare tutta la loro freschezza in libertà.” 
Le prime cotte di Donkere Vader appaiono solo in fusto nella primavera del 2013: il suo debutto avviene all’evento Torbiere in Fermento di Corte Franca (Brescia), con una gradazione alcolica leggermente superiore a quella attuale (7% vs. 6%), ma è solo nel 2014 che entra ufficialmente nell’elenco delle birre prodotte (quasi) regolarmente. L’annuncio è quello di pochi mesi fa riguardante il restyling grafico e la riorganizzazione di tutta la linea produttiva del birrificio di Parma: all’interno della gamma “lo stile” trova posto anche questa Black IPA, disponibile da ottobre a dicembre. I luppoli utilizzati, se non ci sono stati cambiamenti rispetto alla versione che ha debuttato nel 2013, dovrebbero essere Athanum, Centennial, Spalter Select ed El Dorado. L’etichetta è perfettamente coerente con le altre “sorelle” di gamma, ma mette un po’ in disparte il profilo di  Darth Vader rispetto alla clip della spina. 
E' probabilmente la Black IPA più chiara che mi sia mai capitato di vedere: la precisa scelta di utilizzare una piccola quantità di malti torrefatti la rende di color marrone abbastanza scuro con riflessi ambrati; forma un ampio cappello di schiuma compatta e cremosa, beige chiaro, molto persistente. L'aspetto è bello ma, volendo essere pignoli, non è nera, e neppure "quasi" nera: chiamiamola "Brown IPA", allora ? La bottiglia è ancora fresca (un paio di mesi al massimo) e l'aroma non tradisce le aspettative. Immaginate di aprire in due un frutto e di ficcarci dentro il naso: la freschezza è quella. Parliamo di melone, ananas e lychee in primo piano, mentre bisogna attendere che la birra si scaldi un po' per far uscire un po' di mango, frutti di bosco (soprattutto lampone) e una leggerissima presenza di pane nero. In bocca c'è una carbonazione che personalmente reputo eccessiva, il corpo è medio e la consistenza è decisamente watery: da un lato la bevibilità ne beneficia, dall'altro avverto il bisogno di un pochino più di "consistenza". Anche perché la base di malto (pane nero) è solo da supporto ad un gusto che diventa subito molto dolce e fruttato, rispecchiando a grandi linee l'aroma, con il caramello quasi mescolato ad un generico"fruttato tropicale" pulito e molto gradevole. Stiamo tuttavia sempre parlando di una IPA: bene i profumi, d'accordo la frutta tropicale piaciona ma da una IPA mi aspetto un po' di muscoli e di vigore, un finale che deve lasciarmi almeno un po' di amaro. Dopo un bell'inizio intenso, questa Donkere Vader rallenta la sua corsa, andando solo a bilanciare il dolce con un amaro terroso e vegetale che non riesce però a diventare il protagonista conclusivo. La birra è ben fatta, fresca, profumata e pulita, e detto questo possiamo ricondurre il resto alla questione del gusto "personale": se siete per il dolce, gradirete senz'altro questa interpretazione di una Black IPA. Se invece cercate una buona dose di amaro (senza che dobbiate necessariamente asfaltarvi il palato), allora probabilmente resterete un po' insoddisfatti.
Formato: 33 cl, alc. 6%, lotto 188/14, scad. 08/2015, pagata 4.00 Euro (beershop, Italia)

domenica 12 ottobre 2014

The Bruery Saison Rue

Terzo appuntamento con il birrificio californiano The Bruery di Placentia, Orange County, California, presentatovi in questa occasione. E' guidato da Patrick Rue e dalla moglie Rachel, ed ecco già svelato il motivo del perché questa birra si chiami Saison Rue: consideratela un po' la "birra delle casa".
In questo post di agosto 2007, Patrick annuncia dal suo blog che la seconda birra  prodotta tutto l'anno dal birrificio (ancora in costruzione) sarà una saison: non a caso tra le sue birre preferite ci sono la Saison Dupont e la Saison di Fantôme. In quel periodo c'erano diversi birrifici negli Stati Uniti che producevano una Saison come birra stagionale, ma erano in pochi quelli che la offrivano tutto l'anno. Ed erano ancora meno quelli che utilizzavano quei Brettanomiceti che invece oggi vanno tanto di moda negli USA al punto da poter finire dentro (quasi) ogni ricetta, vedi il caso delle Brett-IPA.
L'idea iniziale di Rue è di utilizzare il 35% di segale maltata, malto Special Roast ed una piccola percentuale di Chocolate; i luppoli designati sono Sterling e Crystal, il ceppo di lievito per la fermentazione primaria è ovviamente belga, mentre i brettanomiceti vengono utilizzati per la rifermentazione in bottiglia. Non ho trovato informazioni utili per confermare se la ricetta sia rimasta la stessa anche oggi.
Saison Rue si presenta di color arancio molto carico, quasi ambrato chiaro, ed opaco; la schiuma è generosa, croccante, cremosa ed ha una buona persistenza. Il naso è decisamente speziato, difficile quale sia l'apporto della segale e quello del lievito, ma il pepe è evidentissimo; s'avvertono anche sentori floreali e terrosi, di pesca, di crosta di pane e arancia candita. L'intensità non è particolarmente elevata, bene la pulizia. Anche in bocca è la speziatura a catturare subito l'attenzione: l'ingresso è "quasi" piccante e pepato, e l'alcool (8.5%) ben in evidenza. L'unione di questi due fattori rende la bottiglia molto meno bevibile (e rinfrescante) del previsto: viene un po' a mancare la sua raison d'être, l'essere quella bevanda rinfrescante, dissetante e corroborante che i contadini valloni consumavano durante le pause dal duro lavoro nei campi. La base maltata (biscotto, lieve caramello) è solida ed è seguita da dolci frutti canditi (arancia, pesca); il gusto è davvero molto dolce, lo sarebbe persino troppo se non ci fossero un finale amaro terroso e vegetale, finalmente (!) rustico, ed una leggera nota acidula a bilanciare e a stemperare. La bevuta risulta comunque intensa e gradevole, il corpo è medio e la carbonazione vivace; rimango un po' deluso solamente dalla presenza ingombrante dell'alcool, che allunga di molto i tempi di rimanenza di questa Saison Rue nel bicchiere. 
Formato: 75 cl., alc. 8.5%, IBU 30, scad. 01/12/2016, pagata 18,00 Euro (beershop, Italia).