mercoledì 25 novembre 2020

DALLA CANTINA: Gales Prize Old Ale 2000

I Gale erano una rinomata famiglia di Horndean vicino a Portsmouth, Hampshire: fornai, droghieri, mercanti di mais e di carbone. Nel 1847 la famiglia acquistò il pub Ship and Bell: a quel tempo era abbastanza comune che i pub producessero anche la birra che vendevano e George Gale, che lo gestiva, iniziò a farlo nel 1853. Nel 1896 un incendio distrusse completamente il pub  ma l’edificio fu prontamente ricostruito: la sua torre ancora oggi svetta sui tetti di Horndean. La ditta Gale and Co. nacque nel 1888, iniziò a  distribuire birra anche ad altri pub nei dintorni  e riuscì a superare le difficoltà derivanti dalle due guerre mondiali: negli anni 60 la produzione iniziò a crescere grazie al successo della HSB – Horndean Special Bitter –  che raggiunse il picco di vendite nel 1984. Da quel periodo i marchi del portafoglio Gale’s iniziarono un lento ma inesorabile declino e il birrificio aumentò anno dopo anno la produzione per conto terzi, iniziata nel 1997.  Ma dopo una decina d’anni di sforzi, alcuni soci chiesero di rientrare in possesso del proprio capitale e l’unica soluzione per i Gales fu vendere: si fece avanti Fuller’s, che nel 2005 rilevò il birrificio di Horndean per 92 milioni di sterline. Preoccupato, il CAMRA lanciò subito una campagna di sensibilizzazione nei confronti di Fuller’s: gli 80.000 ettolitri annuali prodotti a Horndean potevano facilmente essere trasferiti a Londra o, nella peggiore delle ipotesi, le birre sostituite dalle concorrenti prodotte da Fullers. Ed infatti alla fine di marzo 2006 gli impianti di Gale’s, la maggior parte dei quali risaliva agli anni ’80, furono definitivamente spenti. Pochi anni dopo tutto il birrificio ad eccezione della torre venne demolito e i terreni furono riconvertiti in zona residenziale.  Ma per gli appassionati c’era ancora qualche speranza: poco prima di chiudere i cancelli alla Gales fu prodotto un ultimo lotto di una birra iconica, la Prize Old Ale,  e venne poi portato a Londra con delle autocisterne.
La Prize Old Ale di Gale’s è un pezzo di storia che vale la pena raccontare, è un viaggio a ritroso al tempo di quelle Stock Ales maturate in tini di legno per mesi, a volte anche per anni, dove sviluppavano acidità lattica, inevitabile conseguenza della contaminazione batterica: era il gusto tipico delle birre del diciottesimo e del diciannovesimo secolo, che i bevitori apprezzavano.  Queste Old/Stock Ales (non è mia intenzione entrare nel dettaglio di eventuali differenze) potevano essere bevute anche da sole ma erano solitamente utilizzare per creare un blend con birre piè giovani: erano la base delle birre più popolari di quel periodo, le Porter e le Stout. 
Ci sono notizie contrastanti sulla storia della Prize Old Ale ma tutti gli storici sembrano concordare sul fatto che sia nata intorno al 1920 quando alla Gale’s arrivò un birraio dallo Yorkshire che intendeva replicare i fasti di quelle Strong Ales, in gergo “Stingo”,  che venivano prodotte da quelle parti, come per esempio alla Hammond Brewery.  La Prize Old Ale maturava in vasche di legno per un periodo variabile tra i sei ed i dodici mesi; John Keeling, lo storico birraio di Fuller’s, ricorda“non è lambic, ma ci assomiglia. Alla Gales fermentava in legno, era impossibile pulire perfettamente quelle vasche; si venne a creare un ambiente selvaggio e quei microrganismi diedero alla birra il suo carattere unico. Anche se veniva poi trasferita e messa ad invecchiare in tini di acciaio non perdeva quella flora batterica”. La ricetta originale pare indicasse malto Maris Otter, un tocco di Black, luppoli Fuggles e East Kent Goldings. Al momento della messa in bottiglia veniva aggiunto poi il lievito per la rifermentazione.  Nel 1971 quando fu fondato il CAMRA, la Gale Prize Old Ale era una delle ultime cinque birre rifermentate in bottiglie che ancora venivano prodotte nel Regno Unito. 

Negli anni che precedettero la vendita a Fullers la Prize Old Ale non fu certo un esempio di costanza produttiva. Scrive lo storico Martyn Connell: “a partire dall’inizio del ventunesimo secolo le cose iniziarono a peggiorare. Le bottiglie erano completamente piatte, la rifermentazione non era mai partita ed erano stucchevolmente dolci. Sembra che alla Gale’s imbottigliassero senza aggiungere zucchero o lievito, facendo affidamento solo sulle cellule di lievito che erano presenti della birra e sugli zuccheri rimasti dopo la fermentazione primaria. Evidentemente non funzionava, ma per anni nessuno alla Gales sembrò interessarsi al problema e continuarono in quel modo”. Come detto, nel 2006 la produzione passò alla Fuller’s che però esitò prima di mettere in circolazione il primo lotto, pronto nel 2007. Ancora Keeling: “amavo quella birra, ma replicarla sui nostri impianti fu una bella sfida. Non avevamo abbastanza posto per trasferire i fermentatori di legno della Gale’s, così facemmo un ultimo lotto a Horndean e lo portammo a Londra nei nostri fermentatori d’acciaio. Realizzammo poi due cotte sul nostro impianto nel 2007 e nel 2008, blendandole con quella di Gale’s e utilizzando il loro lievito che avevamo propagato alla Fuller’s. Il problema era che il nostro ufficio vendita la odiava, dicevano che era impossibile da vendere. Un prodotto in via d’estinzione, troppo acido per la maggior parte dei bevitori”.   I buoni intenti di Fuller’s non trovarono tuttavia quel riscontro commerciale necessario per continuarne la produzione e la Prize Old Ale uscì definitivamente di scena.
Facciamo un altro salto in avanti nel tempo al 2016, a Manchester: il girovago birraio James Kemp (oggi da BrewDog) del birrificio Marble aveva lavorato per un anno alla Fuller’s facendo amicizia con e con John Keeling. James amava le Flanders Red e le Oud Bruin belghe e sognava di poter un giorno replicare il loro “equivalente” anglosassone. Alla Fuller’s Keeling aveva ancora da smaltire parecchie bottiglie di Old Ale invendute e ne mandò un po’ a Kemp: i due si scambiarono idee sulla ricette e poi si diedero appuntamento a Manchester, adattando una ricetta originale del 1926. Malti Pale, Crystal e Chocolate, sciroppo di glucosio, luppoli Challenger e Goldings per amaro, Fuggles e Goldings per aroma. La Marble non disponeva di tini in legno e quindi la prima fermentazione “pulita” avvenne in acciaio, con inoculazione del lievito della Gale’s al momento del trasferimento in botti di legno. Per rendere forse più interessante la birra sul mercato attuale non furono usate botti neutre ma che avevano contenuti in precedenza Bourbon, Madeira, Barbera e Pinot Nero: l’idea originale era di creare un unico blend finale, ma il risultato ottenuto dalle singole botti fu ritenuto soddisfacente e ne furono quindi commercializzate quattro diverse edizioni.  

La birra.
Il destino non è mai stato gentile con le grandi birre storiche inglesi: dimenticate in patria, hanno spesso trovato una seconda vita negli Stati Uniti grazie (anche) all’opera divulgativa del defunto beer-hunter Michael Jackson e dell’importatore B-United. E’ il caso della meravigliosa Harvest Ale di JW Lees,  oggi ancora prodotta ma più facile da reperire in un Whole Foods americano che in un beershop inglese; o degli ultimi lotti di Thomas Hardy's Ale e Prize Old Ale prodotti prima delle rispettive chiusure, la maggior parte dei quali è finita dall’altra parte dell’oceano prima che esplodesse davvero la Craft Beer Revolution.  Sulle etichette trovate infatti il contenuto espresso in once fluide, anziché millilitri.  Ed è quello che è capitato a me: nel 2014 in un beershop di San Francisco mi sono imbattuto in una cesta piena di Prize Old Ale anno 2000 a prezzi di saldo: 3 dollari l’una. Non ho potuto resistere, consapevole  del rischio che poteva trattarsi di un imbevibile fondo di magazzino: ma del resto è lo stesso rischio che corre l’appassionato che tenta la fortuna acquistando qualche vintage su Ebay a prezzi moltiplicati almeno per dieci. E per stapparla ho voluto attendere altri sei anni per rispettare le opinabili indicazioni fornite dall’importatore B-United: “si dice che la Prize Old Ale dia il meglio di sé dopo 20 anni”.  Non ho ovviamente la certezza assoluta sul millesimo: l’anno 2000 è scritto con il pennarello sulla capsula di plastica che protegge il tappo di sughero. L'apertura è abbastanza difficoltosa e nonostante la cautela il sughero si rompe a metà nel collo; con molta pazienza riesco ad estrarre quel che rimane ma non ad evitare che qualche frammento finisca dentro la bottiglia. Devo versarla nel bicchiere aiutandomi con un infusore da te per filtrarla ed evitare di bere le "briciole" di sughero. La schiuma è assente, il colore è ambrato, piuttosto spento e torbido: nessuna sorpresa. Al naso l'ossidazione è evidente, nel bene e nel male: fortunatamente predominano i richiami al passito, ai vini marsalati e fortificati. Uvetta, datteri, caramello, mela al forno, albicocca disidratata: l'intensità è davvero degna di nota. In secondo piano avverto odori ematici, ferruginosi, un po' di cartone bagnato: mi sorprende la completa assenza della componente wild/selvaggia, fatta eccezione per qualche richiamo di plastica bruciata che potrei associare ai brettanomiceti. Al palato è ovviamente piatta e slegata ma c'è ancora un discreto corpo a regalare un mouthfeel ancora accettabile. 
La bevuta segue l'aroma ma con meno intensità: colpisce sopratutto il modo in cui l'alcool (9% al momento della messa in bottiglia, ora sicuramente maggiore) è inavvertibile. E' una birra che assume le sembianze di un vino passito un po' annacquato nel finale, se mi passate il paragone: datteri, uvetta, caramello, marsala e sherry, potrei spingermi oltre e chiamare in causa lo sciroppo d'acero. Anche in bocca spunta ogni tanto qualche lieve accenno di plastica e gomma bruciata: non è però questo a lasciarmi sorpreso, perplesso (eviterei l'aggettivo "deluso", visto l'anzianità della bottiglia). Piuttosto è la completa mancanza di acidità lattica che avrebbe dovuto rendere questa Old Ale unica nella sua continuità storica (confrontate ad esempio le impressioni di Angelo Ruggiero e Stefano Ricci, versione Fuller's). Chiude comunque piuttosto secca, ammiccando al legno e forse all'amaro dei tannini.  
Stappare una bottiglia che ha vent'anni sulle spalle significa privilegiare la curiosità e l'emozione, la parte conoscitiva e didattica alla piacevolezza della bevuta, benché questa bottiglia di Prize Old Ale sia ancora perfettamente bevibile. Posso comunque confermare che la Prize Old Ale è (era) un'ottima birra da invecchiamento, quasi indistruttibile, per come era prodotta alla Gale's. Ritornerà? I tentativi di riesumarla fatti negli ultimi anni non hanno avuto un grande successo al di fuori di una piccola nicchia fatta di appassionati, di vecchi nostalgici e forse di qualche occasionale curioso. Se anche voi siete tra questi e volete aggiungerla al vostro curriculum di bevute, qualche bottiglia è ancora reperibile su Ebay o nelle cantine di qualche locale: mettetevi alla ricerca, anche gli sforzi per trovarla fanno parte dell'esperienza  Gale's Prize Old Ale

Formato 27,5 cl., alc. 9%, IBU 53, anno 2000 (?), pagato 2,99 dollari (beershop) 

giovedì 19 novembre 2020

DALLA CANTINA: Cantillon Iris 2014

Iris, dea greca raffigurata come una fanciulla dotata di piedi veloci e grandi ali dorate, personificazione dell’arcobaleno e messaggera degli dei; la dea accompagnava sovente i defunti ai Campi Elisi e  da questa leggenda si diffuse l’abitudine dei greci di posare sulle tombe dei familiari dei fiori viola, dalle sfumature cromatiche simili all’arcobaleno. Il fiore iris secondo la mitologia greca rappresenta la speranza, la notizia positiva, il buon auspicio per il futuro e la possibilità di attraversare un periodo positivo dopo tante difficoltà.
Non è stata quindi causale la scelta fatta nel 1998 da Jean-Pierre Van Roy,  a quel tempo ancora al timone della Brasserie Cantillon, di chiamare una birra con questo nome prima di passare il testimone al figlio Jean. Il birrificio arrivava da un ventennio molto difficile, era riuscito a saldare i propri debiti solo nei primi anni ’90 e aveva ripreso ad investire. Come ci spiega Kuaska in un articolo per Fermento Birra: “per festeggiare i primi vent’anni di vita del Musée Bruxellois de la Gueuze volle presentare una birra originale che legasse il passato al futuro. Provava una forte nostalgia per una birra che aveva amato sin da ragazzo, la birra che incarnava lo spirito di Bruxelles, la sempre rimpianta Spéciale che vide la luce nella birreria fondata da Léon Aerts nel 1897 e chiusa nel 1963.  Nacque così una birra nuova che nella mente di Jean-Pierre doveva non solo ricordare, ma in un certo modo riprodurre la Spéciale Aerts, sempre seguendo la filosofia Cantillon della fermentazione spontanea. Ecco allora arrivare una birra inedita a fermentazione spontanea ma con l’utilizzo di solo malto Pale, senza nemmeno un grammo di frumento, con l’aggiunta di 50% di luppolo (Hallertau) fresco e di 50% di luppolo vecchio di tre anni (suranné).”
Il primo lotto di Iris fu prodotto nel 1996 e dopo due anni d’invecchiamento in legno venne luppolato a freddo per due settimane mediante un sacco di lino pieno di luppolo Saaz fresco. Al momento dell’imbottigliamento venne poi aggiunto liqueur d’éxpédition.  Ancora Kuaska: “la novità fu il ricorso al dry hopping con luppolo fresco (poi ribadito da Jean, a partire dalla Cuvée des Champions), che dona un ficcante retrogusto amaro, anticipando una tendenza e un cambiamento nel gusto del consumatore belga che si sarebbero in seguito rivelati travolgenti”.
Un secondo lotto di Iris fu prodotto nel 1998 e messo poi in vendita nel 2000: da allora è stata sempre prodotta una volta all’anno con un’etichetta che non è mai cambiata e che richiama i fiori che crescono nei prati di Brussels. Iris è anche l’unico prodotto Cantillon che non può essere chiamato lambic in quanto non rispetta il Regio Decreto del 31 marzo 1993 il quale stabilisce che per produrre lambic bisogna usare almeno il 30% di frumento non maltato.

La birra. 

I tappi di sughero non sono mai stati il punto di forza della maison Cantillon e anche questa bottiglia di Iris 2014 non fa eccezione. Nel corso degli anni un po’ di liquido è traspirato ed ha arrugginito l’interno del tappo metallico; il sughero si è poi spezzato al momento dell’apertura ma sono fortunatamente riuscito ad estrarre anche il pezzo rimato nel collo senza dover farlo cadere all’interno. Nonostante sia rimasta per cinque anni in cantina in posizione verticale, su tutto il fianco interno della bottiglia c’è un evidente striscia tipica degli invecchiamenti in posizione orizzontale.  
Il suo colore è un bell’ambrato, un po’ scarico e acceso da riflessi oro e arancio: la schiuma è cremosa, compatta ed ha ottima ritenzione. Al naso le note funky del lambic (cantina, muffa, legno) convivono con qualche accenno d’aceto di mela, note aspre di uva e limone: in secondo piano arrivano come per magia dolci ricordi di frutti di bosco, vino marsalato, suggestioni di zucchero a velo, forse vaniglia. A cinque anni dall’imbottigliamento è ancora vivacemente carbonata e vivace: il mouthfeel è ottimo, morbido, privo di quelle irrequietezze dei lambic, soprattutto giovani. La bevuta si snoda tra note vinose (dolci ed aspre), funky e legnose, limone, ricordi di aceto balsamico; nel finale, molto secco, arrivano note lattiche e s’avverte ancora netto – dopo più di un lustro - l’apporto amaricante del luppolo. Del resto stiamo parlando della Cantillon più luppolata. 
Bevuta complessa, intensa, ancora scattante e soprattutto non priva di emozioni, quelle che qualche sbuffo acetico qua e là non riesce a compromettere. In ultimo non posso esimermi dalle solite considerazioni sul prezzo, visto che parliamo di Cantillon.  Era il 2015 e la pagai neppure sette euro in Rue Ghede 56; in Italia le ultime bottiglie arrivate costavano dai 25 ai 30 euro; sul mercato secondario una bottiglia di Iris 2014 viene attualmente valutata intorno agli 80 euro.
Formato 75 cl., alc. 6%, IBU 45, lotto 11/2014, pagata 6,80 € (birrificio)  

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 17 novembre 2020

Fremont B-Bomb - Coconut 2019

E’ tristemente un bel periodo per gli appassionati italiani di birra a stelle e strisce: un po’ meno per il loro portafoglio. Ma se avevate messo da parte un po’ di soldi per una vacanza negli States potete usarne una parte per acquistare tutte quelle birre che in questi mesi stanno attraversando l’oceano: avreste probabilmente fatto fatica a trovarle anche in loco, a meno di non capitare nel posto giusto al momento giusto. Sto ovviamente estremizzando: nulla può sostituire il piacere di un viaggio negli Stati Uniti e l’atmosfera che si respira nelle taproom, nei pub e nei bar, nei liquor store o anche le semplici possibilità d’acquisto che offrono i supermercati, i negozi di vicinato o le stazioni di servizio. E questo vale anche se non siete riusciti a reperire quella birra che stavate disperatamente cercando. 
L’emergenza sanitaria legata a Covid-19 ha provocato anche negli Stati Uniti una forte riduzione nei consumi a seguito della riduzione della capienza o alla chiusura di taproom, bar e ristoranti, alla cancellazione dei festival e di quasi tutti gli eventi nei quali scorrevano fiumi di birra. Ogni stato americano ha applicato le proprie restrizioni ma in generale l’impatto si è fatto sentire molto sui birrifici artigianali, per i quali la taproom era un’importantissima fonte di reddito nonché un’immediata iniezione di denaro contante. I birrifici hanno dovuto cambiare strategia riducendo i fusti e privilegiando il formato per l’asporto e per il consumo tra le mura domestiche. 
L’arrivo nel nostro continente di birrifici americani molto quotati non è un evento raro, ma negli ultimi mesi il mercato europeo è stato letteralmente invaso: Moka, Abnormal, Old Nation, Equilibrium, Other Half, Trillium  e Cycle  sono alcuni dei nomi “sulla cresta dell’onda” arrivati solo nell’ultimo mese, per quel che ricordo. A questi va senz’altro aggiunto quello di Fremont, birrificio di Seattle (Washington) che vi avevo presentato in questa occasione quasi un anno fa. Fusti (festival) e lattine (luppolate) di Fremont erano già sporadicamente arrivati in Europa negli scorsi anni; le bottiglie delle birre barricate  (da me avvistate per caso lo scorso anno in Giappone) sono invece arrivate per la prima volta all’inizio dall’autunno, e un’altra infornata è giunta la scorsa settimana; Rusty Nail, Brew 3000 e 4000, Anniversary Stout e molte varianti di B-Bomb e Dark Star. I beergeeks più aggiornati mi faranno certamente notare il fatto che Fremont non sia più un nome in cima alla lista dei loro desideri e in verità lo è stato solo fino ad un certo punto. Ma non ci sarebbe nulla di strano, il meccanismo è inesorabile, lo sappiamo: l’hype dura solamente qualche anno, finché il birrificio è ancora relativamente nuovo, piccolo e le birre sono difficili da reperire, generando così un elevato valore di scambio o di rivendita sul mercato secondario. Non appena la produzione aumenta o entrano in gioco altri nomi, l’hype si sposta altrove.  

La birra. 
L’Abominable Winter Ale è stata per molti anni la birra stagionale invernale (8%) prodotta da Fremont: nel 2016 il suo nome è stato accorciato in Winter Ale per evitare problemi con il birrificio Hopworks di Portland che produceva già una birra con lo stesso nome. E questa la prima birra di Fremont a finire in una botte ex-bourbon: era il 2010 e nasceva la Bourbon Abominable, poi rinominata B-Bomb. Il suo successo ne ha fatto nascere inevitabili varianti: vediamo la Coconut edizione 2019.  Per questa versione sono state utilizzate botti di rovere americano di 8-12 anni che avevano in precedenza contenuto bourbon: il risultato finale è un blend fatto con la stessa birra invecchiata per nove, dodici e ventiquattro mesi, con aggiunta di cocco tostato. La ricetta prevede malti 2-Row Pale, Crystal-120, Munich, Roast Barley, Carafa-2 e Chocolate, luppoli Columbus, Willamette, Goldings americano. E’ stata messa in vendita nel dicembre 2019.
Nel bicchiere è sontuosa, perfetta: color ebano scuro, schiuma generosa, a trama fine e dalla buona ritenzione. Caramello bruciato, bourbon, cuoio/pelle, legno, cocco tostato, fondi di caffè, liquirizia, accenni di fruit cake e di tabacco/fumo: naso splendido, molto pulito ed elegante, avvolgente. Nulla da eccepire. Il suo corpo è quasi pieno: non è un’imperial stout masticabile ed ha una consistenza morbida, leggermente oleosa e cremosa. La bevuta si apre con dolci note di melassa e fruit cake, vaniglia e cocco, liquirizia: è soprattutto la componente etilica, con una splendida progressione che parte in sordina e sfocia in un morbido warming, a portare equilibrio. L’amaro di cioccolato, torrefatto e caffè resta in disparte, la chiusura è sorprendentemente quasi secca grazie al contributo del legno: resta una lunghissima scia finale ricca di bourbon e cioccolato, degno epilogo di una bellissima festa.  Pulizia, precisione, eleganza, intensità, tanti elementi perfettamente amalgamati tra di loro: un’altra gemma dallo scrigno Fremont. Se amate le grandi imperial stout americane non ancora contaminate dalla deriva pastry non perdetevela.  
Formato 65 cl., alc. 13.2%, lotto 2019, prezzo indicativo 32 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

lunedì 16 novembre 2020

Twisted Barrel Fading Signal

Il birrificio Twisted Barrel apparve nella sonnolenta scena di Coventry nella primavera del 2014: un nanobirrificio che operava in un garage con un impiantino da 60 litri. Ritchie Bosworth, uno dei fondatori, aveva iniziato ad espandere la propria conoscenza sulla birra solo qualche anno prima: “tutto iniziò mentre mi trovavo in Nuova Zelanda e non riuscivo a trovare quella lager industriale che ero solito bere. Provai alcune artigianali: quando rientrai nel Regno Unito scoprii che anche la maggior parte dei miei amici avevano iniziato a bere craft beer”. 
Bosworth diviene un appassionato follower del podcast All Hail The Ale; lui e l’amico Chris Cooper ricevono poi come regalo di Natale un kit per l’homebrewing, diventando in breve tempo i fornitori di birra per i matrimoni e gli addii al celibato di amici e conoscenti. Giusto il tempo per ottener i necessari permessi e Twisted Barrel apre le porte: “i nostri familiari venivano ad aiutarci per imbottigliare ed etichettare in una notte quelle 120 bottiglie che riuscivamo a produrre ogni due settimane e che vendevamo poi a qualche negozio e bar locale. Fino ad allora non c’era nessun luogo dove poter bere birra artigianale a Coventry”. La produzione di Twisted Barrel è ovviamente subito insufficiente a soddisfare tutta la richiesta: nel gennaio del 2015 Cooper lascia il proprio lavoro per dedicarsi a fare il birraio a tempo pieno con un impianto da 1000 litri ed una piccola taproom a Coventry. La scelta della location è però molto azzeccata e si rivelerà fondamentale: gli spazi industriali del FarGo Village di Conventry, ristrutturati per ospitare eventi, ristoranti, bar e una trentina di piccoli negozi indipendenti di arredamento, vestiti, artigianato. Gli impresari che stavano sviluppando il progetto erano appena rientrati da Londra per visionare un progetto simile e avevano notato che in quello della capitale era presente un birrificio. Ritchie Bosworth fu fortunato a cogliere l’occasione ed a proporsi.  “La nostra taproom fu un grande successoricorda  – più che un birrificio avevamo aperto un bar con un impianto sul retro. Non siamo in una zona industriale dove la gente deve venire apposta: da noi ci sono gli appassionati ma anche semplici studenti o gente del posto di ogni età. La taproom è la forza del nostro business, ci dà immediato cash flow con un margine extra di profitto: non so come facciano a sopravvivere i birrifici che non l’hanno”.
Nel primo anno di attività Twisted Barrel ottiene l’80% dei propri ricavi da quel piccolo spazio con quattordici spine aperto due giorni alla settimana che poteva contenere quaranta persone. Grazie all’arrivo di un paio di nuovi investitori nell’ottobre del  2017 è di nuovo tempo di traslocare, ma questa volta solamente di qualche metro, all’interno del FarGo Village: i metri quadrati a disposizioni salgono da 140 a 600 e l'acquisto di nuovi fermentatori consente di raggiungere quota 680 ettolitri/anno, con un potenziale di 3000;  ad aiutare Cooper nella produzione è arrivato Carl Marshalli.  La taproom è diventata rapidamente il luogo con la miglior selezione craft di tutta Coventry: 23 spine, 300 posti a sedere e la possibilità di portarsi la pinta a spasso per tutto il FarGo Village.  In cinque anni d’attività Twisted Barrel ha prodotto circa 140 birre: attualmente la gamma prevede 12 etichette disponibili tutto l’anno, 12 stagionali e le solite inevitabili one-short e collaborazioni.

La birra.
La bevo con un po’ di ritardo: Fading Signal  è infatti una Pale Ale pensata per la stagione estiva che ha debuttato alla fine dello scorso luglio. Malti Super Pale e Carapils, avena, luppoli Simcoe, Mosaic, Mandarina Bavaria e Galaxy, lievito London Ale III.  Di colore arancio molto pallido, torbido e reminiscente di un succo alla pera, forma una generosa testa di schiuma dall’ottima persistenza. Il Double Dry Hopping ha inevitabilmente perso un po’ d’intensità nei tre mesi trascorsi dalla messa in lattina ma l’aroma è pulito e molto gradevole: cedro, lime, lemon grass, lievi note dank e floreali. La carbonazione è un po’ più alta rispetto a quanto previsto dalla tradizione anglosassone ma personalmente non ci trovo nulla di male: le bollicine donano vivacità ad una birra juicy e l’allontanano dall’effetto succo di frutta. La base maltata (pane, crackers) non è sovrastata dai luppoli e Fading Signal è una session beer (4%) che strizza un po’ l’occhio al dolce della frutta tropicale per poi virare subito su un finale secco e moderatamente amaro nel quale le note zesty incontrano quelle terrose ed erbacee. Ottimo mouthfeel, massima scorrevolezza e nessun calo di tensione: Pale Ale ricca di gusto, moderna ma non modaiola. Niente spigoli, ottimo livello di pulizia, ruffiana quanto basta, elevata intensità e basso tenore alcolico: ha tutto quel che serve per essere bevuta ad oltranza. 
Formato 44 cl., alc. 4%. Lotto 31/07/2020, scad. 17/04/2021, prezzo indicativo 6,00 euro (beershop) 

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

martedì 10 novembre 2020

Trillium Brewing Company: Dot Ave Double IPA, Vicinity Double IPA, Arnold Arboretum IPA, Double Dry Hopped Stillings Street IPA, Fort Point Pale Ale Galaxy Dry Hopped

Il birrificio Trillium apre i battenti a marzo del 2013 a Fort Point, ex distretto industriale di Boston, con l’intento di volersi ispirare ad altri birrifici agricoli del New England, il più famoso dei quali è ovviamente Hill Farmstead: l’ultima apertura di un birrificio a Boston risaliva al 1986.  A rompere la quiete brassicola della capitale del Massachusetts ci pensano Jean-Claude e Esther Tetreault, da poco sposi e genitori: Jean-Claude, prolifico homebrewer, sognava e progettava da tempo di aprire un birrificio anche se non esattamente a Boston.  Già nel 2009, sul suo blog personale si possono vedere nome e logo di quel birrificio casalingo destinato poi al successo commerciale: le prime bottiglie etichettate furono recapitate agli inviati al matrimonio. Jean-Claude è appassionato anche di botanica e sceglie il nome del fiore Trillium come simbolo di quello che vuole ottenere con le proprie birre“bellezza effimera, equilibrio, semplicità, senso di appartenenza”.
 Tetreault pensano inizialmente di stabilirsi in altre città del Massachusetts  ad alta densità birraria, come Chelsea o Everett, ma si presenta una bella occasione nel distretto di Fort Point a Boston; i locali al numero 369 di Congress Street vengono individuati già nel 2011 ma ci vogliono 14 mesi solo per ottenere tutti i permessi necessari, dalle autorità e dalla comunità di residenti, per iniziare i lavori di ristrutturazione e installare un impianto da 12 ettolitri: “e c’è gente di Boston che ci ha detto di essersi meravigliata del fatto che ci sia voluto così poco tempo”, ricorda Jean-ClaudeEsther ama le IPA di The Alchemist e di Port Brewing, Jean-Claude le saison di Jolly Pumpkin, Allagash e Hill Farmstead: Trillium debutta con la Farmhouse Ale (6.4%), l’American Wheat Adam, la Red Rye Ale Wakerobin, la Fort Point Pale Ale e la Porter Pot & Kettle. 
Nel frattempo i beergeeks americani hanno scoperto le NEIPA, le IPA del New England, e tutti vogliono berle: i birrifici che le producono sono piccoli, le lattine sono distribuite solo localmente e la scarsità dell’offerta fa impazzire la richiesta, alimentando scambi e mercato secondario.  il Vermont ha aperto la strada con The Alchemist, Hill Farmstead e Lawson's Finest Liquids, ma ora sono entrati in campo altri giocatori negli stati vicini. Nel Massachusetts ad esempio c’è l’astro nascente Tree House: al resto ci pensano i social network. Tetreault è bravo ad intercettare quella nicchia di mercato e le sue NEIPA diventano rapidamente famose: impegnato a gestire le file di beergeeks fuori dalla porta si dimentica di chiedere il rinnovo della propria licenza. O forse no. Fatto sta che le autorità di Boston dicono di non aver mai ricevuto nessuna richiesta e, al terzo sollecito privo di risposta, mandano la polizia. A novembre del 2014 la produzione di Trillium viene sospesa e i beergeerks si trovano improvvisamente fuori dalla porta del birrificio senza poter riempire i loro preziosi glowers. Alcuni di loro iniziano a mandare email di protesta alle autorità competenti e nel frattempo supportano l’amato birrificio acquistando tutto il merchandising disponibile. Dopo un mese le parti trovano un accordo e la birra riprende a scorrere. 
Non sarà l’unica macchia nella carriera del birrificio di Boston, che nel 2015 inaugura il nuovo sito produttivo con taproom di Canton, trenta chilometri a sud di Boston:  la produzione annua passa da 3.000 ad un potenziale di  40.000 ettolitri, la location di Fort Point viene destinata alla produzione di birre acide.  L’espansione di Trillium continua nel 2017 con l’apertura di un Beer Garden estivo al Rose Kennedy Greenway, sul Waterfront di Boston, che diviene operativo ogni estate. L’anno successivo i Tetreault annunciano di aver acquistato a North Stonington, Connecticut, il terreno dover far nascere quel birrificio agricolo che avevano immaginato sin dall’inizio, la Trillium Farm & Brewery: il progetto, ancora in costruzione, prevede la realizzazione di un birrificio, un ristorante ed un’azienda agricola in grado di rifornirlo. Alla fine dello stesso anno viene inaugurato a Boston un ristorante-brewpub su tre piani con impianto da dieci barili.
La bravura di Trillium è stata quella di essere riuscita a vendere quasi tutta la propria produzione in autonomia, senza distributori, con enormi margini di profitto: si stima che il 95% dei 21.000 ettolitri prodotti nel 2017, venduti direttamente al pubblico, abbiamo generato ricavi per oltre 20 milioni di dollari. Il passaparola e i social network ne hanno decretato il successo: nel 2016 Ratebeer celebrava Trillium come terzo miglior birrificio al mondo, includendo sei IPA, una DIPA e sei Pale Ale tra le migliori 15 birre al mondo delle rispettive categorie. Ma i social network hanno tirato fuori alcuni scheletri dall’armadio: nel novembre del 2018 un post anonimo sul forum di Beer Advocate di un dipendente denunciava pratiche scorrette ed illegali, in parte poi ammesse dai Tetreault con un comunicato ufficiale. Potete trovare i dettagli in questo articolo in italiano su Fermento Birra. Mentre i beergeeks continuavano a fare la fila fuori dal birrificio per comprare i 4 pack di Trillium a 22 dollari (un prezzo altissimo per gli standard statunitensi), i Tetreault non avevano concesso a molti dipendenti gli aumenti e i benefici promessi; molti di loro erano stati spostati da Fort Point al Beer Garden con uno stipendio ridotto da 8 a 5 dollari all’ora, per fare lo stesso lavoro.  Spacciavano come barricate delle birre che non avevano mai visto nessuna botte, riciclavano resti di birra ossidata e invendibile, mescolati a frutta, per i Beer Slushy, riempivano i growler da asporto quasi solo con la fondazza dei fermentatori.

Le birre.

E’ stata una grossa sorpresa vedere arrivare lattine di Trillium  nel nostro continente, tutte con più o meno un mese di vita sulle spalle. Occasione da non lasciarsi sfuggire per provare birre normalmente reperibili solo in loco o tramite scambio con altri appassionati. 

Dot Ave Double IPA: nel 2013 Trillium lanciava Congress Street, la prima di una serie di IPA single-hop chiamate con il nome delle strade del distretto di Fort Point; un’operazione analoga veniva fatta qualche anno dopo con le Double IPA, passando dalle strade ai più lunghi viali (Avenue). Tra queste vi è Dot Ave (8.2%), ovvero Dorchester Avenue, viale di Boston inaugurato nel 1805. La sua ricetta prevede malti American 2-row, frumento (White e Flaked), luppoli Nelson Sauvin e CTZ. Visivamente è un torbido succo d’arancia, la schiuma è abbastanza compatta ed ha buona ritenzione. Il dank è dominatore assoluto dell’aroma: netto e pulito, speziato  ed 
affiancato da qualche ricordo di aglio. Mouthfeel ottimo: soffice e cremoso, a tratti quasi impalpabile. Mango, melone e pesca sono il biglietto d’accesso ad una bevuta  che s’incanala subito sul dank e sul resinoso-vegetale, molto intenso. L’alcool è molto ben nascosto, la frutta tropicale riaffiora nel retrogusto a portate un po’ di sollievo in una birra che è in pratica una pianta di marijuana. Sorprendentemente amara, priva di spigoli e di hopburn, è ben fatta nel suo genere: ma se voglio una DIPA che picchia forte, per me niente batte la cara vecchia scuola West Coast. Prezzo al birrificio? 20 dollari per un 4 pack: più tasse, ovviamente.

Vicinity è un’altra Double IPA (8%) che fu prodotta in origine per il primo compleanno del Row 34, un oyster-bar con buona selezione di birre artigianali. La sua ricetta prevede malti Pilsner, Flaked Wheat, C-15, luppoli Galaxy, Citra e Columbus. Questa volta il succo di frutta è alla pesca, almeno nel look: schiuma biancastra, grossolana, poco persistente. Aroma splendido, ampio e pulito, ricco di suggestioni che variano all’innalzarsi della temperatura nel bicchiere: albicocca, ananas, papaia, frutti di bosco, arancia, pompelmo, mandarino, melone e potrei andare ancora avanti. Il mouthfeel è morbido ma non mi regala quella straordinaria sensazione della Dot Ave: il gusto purtroppo non riesce a replicare neppure la metà del giardino delle meraviglie aromatico. C’è quella generale sensazione “tropicale” di molte NEIPA dal profilo poco definito, un po’ di agrumi, un finale resinoso-vegetale pungente con un pizzico di hopburn.  Si beve bene ma il suo punto di forza è indubbiamente l’aroma: potrei sniffarla per ore. Anche questo 4 pack costa 20 dollari alla fonte.

Arnold Arboretum (7%): questa IPA deve il suo insolito nome all’omonimo centro di ricerca della Harvard University di Boston, famoso per la sua collezione di alberi e arbusti ornamentali provenienti dall'Asia. Il centro si trova all’interno di un complesso di parchi e corsi d’acqua chiamato Emerald Necklace, nome usato da Trillium per raggruppare un’altra serie di birre a tema. Malti American 2-Row, Flaked Wheat, C-15, luppoli Citra e Galaxy, 17 dollari il 4 pack. Nel bicchiere è di color oro antico, molto velato ma luminoso: schiuma compatta e persistente. L’aroma non è esplosivo ma è molto gradevole, pulito ed elegante: ananas, lychee, melone, mandarino, arancia. Al palato è “moderatamente juicy”: si avverte qualche tocco di panificato e biscottato, il dolce di mango e ananas a bilanciare un finale resinoso e pepato di buona intensità. Anche lei è più interessante e complessa al naso che in bocca, ma per lo meno riesce a mantenere lo stesso livello di pulizia e definizione. Bella IPA, ben fatta e facile da bere che però non mi provoca nessuna visione mistica.

Double Dry Hopped Stillings Street IPA (7,2%): versione amplificata (DDH) della Stillings, ovviamente dalla serie delle Street IPA. La compongono malti American 2-row,  White Wheat, destrine, destrosio, luppoli Columbus e Nelson Sauvin, quest’ultimo in doppia dose. Il colore di questo succo di frutta è a metà strada tra la pesca e l’arancia. Il Nelson si presenta subito con netti profumi di uva e kiwi, uvaspina; in secondo piano note dank, passion fruit, anana. Aroma particolare, intenso e pulito: a me piace molto, ma non se non amate il Nelson potreste non gradire. Il mouthfeel è soffice, leggermente chewy, estremamente appagante. La bevuta è molto succosa e ricalca l’aroma, con l’alternanza tra l’asprezza di  uva e kiwi (mi raccomando non sbucciatelo), passion fruit, ribes e uvaspina  e la dolcezza di mango e ananas. Molto secca, chiude con un breve tocco amaro resinoso-vegetale privo di hopburn. Per me è una birra molto ben riuscita, pulita ed intensa, priva di spigoli: la consiglierei però solo ai fans del Nelson.

Chiudiamo questa rassegna con la Fort Point Pale Ale (6.6%), una delle birre con le quali Trillium ha debuttato nel 2013; nel beer-rating è ancora stabilmente in cima alle classifiche della propria categoria. Il suo successo ne ha fatto proliferare una lunga serie di varianti che si differenziano per il metodo di luppolatura (DH, DDH)  e per il luppolo utilizzato. In Europa è arrivata la Galaxy Dry Hopped Fort Point: American 2-row Barley, White Wheat, C-15, maltodestrine, luppoli Columbus e ovviamente Galaxy.  American Pale Ale piuttosto esosa anche alla fonte: 15 dollari il 4 pack. In etichetta ci sono gli iconici lampioni Congress Street. Nel bicchiere è un torbido ma luminoso succo d’arancia, la schiuma è cremosa, compatta e piuttosto persistente. Il naso oscilla tra note zesty e di frutta tropicale, soprattutto mango e ananas: un aroma fresco e pulito ma migliorabile per quel che riguarda intensità e definizione. La sensazione palatale è ancora una volta perfetta: birra morbida e cremosa, leggermente chewy ma scorrevolissima. E del lotto è la birra di Trillium più simile ad una classica birra, ovvero quel juicy “moderato” che piace a me. Pane, qualche accenno biscottato, frutta tropicale dolce, un bel finale secco e zesty, leggermente resinoso-erbaceo. Una bella APA moderna, generosamente fruttata ma non estrema, intensa ma facilissima da bere, assolutamente priva di spigoli. Non è un mostro di precisione e definizione: appunto zelante ma necessario, visto il blasone del birrificio.

Nel dettaglio: 
Dot Ave Double IPA, 47,3cl., alc. 8.2%, lotto 06/10/2020, prezzo indicativo 13.00 Euro
Vicinity Double IPA, 47,3 cl., alc. 8%, lotto 23/09/2020, prezzo indicativo 14.00 Euro
Arnold Arboretum IPA, 47,3 cl., alc. 7%, lotto 21/09/2020, prezzo indicativo 12.00 Euro
DDH Stillings Street IPA, 47,3 cl., alc. 7.2%, lotto 09/10/2020, prezzo indicativo 13.00 Euro
Fort Point Pale Ale - Galaxy Dry Hopped, 47,3 cl., alc. 6.6%, lotto 05/10/2020, prezzo indicativo 11.00 Euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

giovedì 5 novembre 2020

Belching Beaver Peanut Butter Milk Stout

Si può dire di tutto tranne che Belching Beaver (il castoro che rutta)  non sia un nome originale. Siamo nel 2012 e la contea di San Diego, California, è il paradiso della Craft Beer Revolution americana: Stone, Alesmith, Green Flash, Alpine, Port Brewing, Ballast Point, tutti desiderano le IPA della West Coast. Come tanti altri, anche Thomas Vogel, Dave Mobley e Troy Smith si buttano nella mischia e aprono un birrificio: per essere originali, in una scena dominata dal luppolo, debuttano con una Milk Stout.   ”Siamo stati i primi a farne una a San Diegoricorda Vogel –  è andò subito molto bene. Molti altri birrifici ci hanno poi seguito”.
Thomas Vogel si divertiva a produrre birra e vino in casa sin dai tempi del college; lavorare con la birra era uno dei suoi obiettivi e venne assunto dalla Sublime Ale House, un ristorante di San Marcos con una bella carta di vini e birre artigianali. Tra i suoi clienti c’era anche il birrificio Coronado di San Diego, dove lavorava come birraio Troy Smith. Per lui nessuna esperienza di homebrewing, ma essere figliastro di Rick Chapman, fondatore e presidente di Coronado, aiuta: si fa le ossa direttamente sul campo. Vogel e Smith diventano amici, giocano spesso assieme a poker e frequentano regolarmente le taproom di Port Brewing e Lost Abbey a San Marcos: ridendo e scherzando, abbozzano l’idea di aprire un birrificio a Vista, contea di San Diego. A loro si unisce Dave Mobley, un architetto. I tre danno fondo ai loro risparmi e lanciano Belching Beaver con un impianto da 20 ettolitri.  Il nome?  In verità la storia alle sue spalle non è poi così interessante: “conoscevamo un tipo, che si occupava di marketing e che doveva diventare nostro socio; aveva già quel nome quel logo pronti. In mancanza d'altro, li abbiamo adottati. Non volevamo offendere nessuno, soltanto essere un po’ diversi. Ripensandoci potevamo fare forse altre scelte, ma ormai è troppo tardi per tornare indietro”. 
Dopo un paio d’anni è già tempo di espandersi con una seconda succursale location ad Ocean Beach, San Diego, seguita nel 2016 del brewpub con ristorante Tavern & Grill di Vista Village e dal nuovo sito produttivo ad Oceanside: un milione di dollari d’investimenti. La location originale di Vista viene trasformata nel Pub 980 e viene aperta anche una piccola taproom nella zona di North Park a San Diego. La produzione annuale passa dai 12.000 ettolitri del 2014 ai quasi 50.000 del 2016 ed è tutt’ora s stabile. A guidare le vendite ci sono la Phantom Bride IPA e quella Peanut Butter Milk Stout che andiamo ad assaggiare.

La birra.

Chi segue regolarmente il blog saprà che non sono un amante della deriva “pastry” che sta caratterizzando la scena della birra artigianale negli ultimi anni,  soprattutto quella americana. Ma la Peanut Butter Milk Stout di Belching Beaver ha debuttato in tempi non sospetti, quando il burro d’arachidi in una stout non era ancora la moda ma un’idea stravagante. Ricorda Smith:  “quando aprimmo non c’era nessuno nell’area di San Diego a fare una Milk Stout; oggi offriamo una selezione di birre scure che pochi birrifici in questa zona possono vantare. Aggiungemmo del burro d’arachidi ad un fusto della nostra Milk Stout e boom!, fu un successo”. 
La ricetta base della Milk Stout prevede malti Two-Row, Roasted Barley, Pale Chocolate, Caramel 60, avena, lattosio, luppoli Northern Brewer e Fuggles: per rendere la birra accessibile anche a chi ha allergie, sembra che venga usato un burro d’arachidi non proprio naturale. 
Si presenta di colore ebano scuro, la schiuma è piuttosto grossolana, scomposta e collassa rapidamente. Le tazze di burro d’arachidi della Reese/Hershey si possono comprare oramai abbastanza facilmente anche in Italia: chi le conosce le ritroverà nell’aroma di una birra che offre quanto promesso, ovvero soprattutto arachidi tostate. In sottofondo emergono deboli richiami di cioccolato al latte e di caramello.  Non c’è altro.  Caramello, cola e caffelatte (con molto poco caffè, in verità) formano una bevuta dolce che parte con buona intensità per poi assottigliarsi un po’ troppo e sfociare in un finale che stempera il dolce, porta equilibrio ma presenta qualche spunto acquoso di troppo. Per fortuna la birra torna a galla con un retrogusto di discreto livello dove riemergono le arachidi tostate, il cioccolato e qualche accenno di caffè. 
La Peanut Butter Milk Stout di Belching Beaver non è una pastry spinta all’estremo: il burro d’arachidi è protagonista ma la base milk stout è ancora riconoscibile. Il mouth è scorrevole ma se volete un po’ di cremosità dovete probabilmente optare per la sua versione nitro. Non è una birra che berrei regolarmente, ma un piacevole divertissement ogni tanto non fa male. 
Formato 35.5 cl., alc. 5.3%, IBU 30, lotto 05/07/2020, prezzo indicativo 4,50 euro (beershop)

martedì 3 novembre 2020

Hogs Back Rip Snorter

Rupert Thompson è un pezzo di storia dell’industria brassicola inglese. Assunto alla Bass come direttore commerciale, ideò una serie di annunci pubblicitari su giornali e televisioni che determinarono negli anni ’80  il successo della Carling Black Label;  andò poi a lavorare alla Morland facendo diventare la Old Speckled Hen la Premium Ale in bottiglia più venduta nel Regno Unito, sconfiggendo l’eterna rivale Newcastle Brown Ale. Quando la Morland fu acquisita da Greene King, Thompson fondò la Refresh UK e rilevò nel 2000 il birrificio Wychwood, raddoppiandone la produzione grazie al successo del marchio Hobgobli. Nel 2008 Refresh e  Wychwood furono acquistati per un bel mucchio di sterline dalla Marstons, che già usava gli impianti della Wychwood per produrre qualcuna delle sue birre. 
Thompson ha voglia di cambiare e butta gli occhi su un piccolo birrificio a gestione familiare nel villaggio di Tongham, nel Surrey, ad una cinquantina di chilometri da Londra:.  “non avevo più voglia di lavorare per una grande impresa; mi piace essere coinvolto nelle decisioni. Quello che mi appassiona è far crescere il business, non restare lì a gestirlo. Hogs Back era abbastanza vicino a Londra e aveva già una birra di successo, la TEA (Traditional English Ale).”
Il birrificio Hogs Back era stato fondato nel 1992 dai due ex-homebrewers Tony Stanton-Precious e Martin Zilwood-Hunt in una fattoria del diciottesimo secolo sulle omonime colline: nella zona ci sono molti coltivatori di luppolo e nel terreno circostante anche i due birrai avevano avviato un piccolo luppoleto. Hogs Back aveva iniziato producendo 1500 litri alla settimana guadagnandosi rapidamente le spine dei pub locali con la TEA, che nel 2000 venne anche proclamata Champion Beer of Britain dal CAMRA. Nel 2011 Rupert Thompson rileva le quote di Tony affiancando per un paio d’anni Martin, uomo-immagine del birrificio e presenza fissa ai festival locali con la sua Harley Davidson corredata di sidecar a forma di cask. Oggi Martin è ancora consulente “esterno”.  Thompson inizia a fare quello che ama, far crescere il business:  la produzione annuale di Hogs Back è stabilmente ferma a quota 16.000 ettolitri; Thompson la porta subito a 27.000 introducendo nuove birre ad affiancare la TEA che continua ad assorbire il 70% dei volumi. Finalmente riesce a fare quello che non gli era mai riuscito sino ad allora: produrre una lager, la Hogstar.  La storica birraia di Hogs Back, Mo Zeiher, viene affiancare da Miles Chesterman, un birraio che Thompson recluta alla Molson-Coors di Burton-on-Trent. Per portare un po’ d’innovazione tra le dolci colline del Surrey s‘inventa la Montezuma Chocolate (2014), una lager (chiara) prodotta  con fave di cacao messicano. Nello stesso anno deve imbarcarsi in una disputa legale  contro Magners, responsabile da aver commercializzato Cider Hog, un sidro  il cui nome ed etichetta ricordavano un po’ troppo quello  prodotto da Hogs Back e chiamato Hazy Hog.
Nel 2016 Thompson annuncia un piano d’espansione da 400.000 sterline: nuovi fermentatori e magazzini per aumentare di un ulteriore 30% la capacità produttiva. Lo scorso luglio 2020  Hogs Back ha ristrutturato un vecchio hangar dove era immagazzinato il luppolo convertendolo in bar/tap room: il birrificio dispone anche di un beershop dove è possibile acquistare bottiglie anche di altri birrifici inglesi e belgi.

La birra.

Rip Snorter (letteralmente “qualcosa che si fa notare per la sua straordinaria qualità”)  è una English Strong Bitter  (5%) prodotta per la prima volta nel 2012: la sua ricetta prevede malti Pale, un po’ di Crystal ed un tocco di Chocolate; i luppoli Fuggles e E.K. Goldings sono coltivati nel Surrey.  Il nome nacque “dall’esclamazione di un birraio australiano in visita che aveva assaggiato un sorso del primo lotto. Nello stesso periodo ci venne a trovare anche Chris Moss, il fondatore del birrificio Wychwood.  Martin Hunt gliela descrisse come “the dogs bollocks of his beers” (“le palle del cane” è un idioma un po’ volgare che sta ad indicare “qualcosa di incredibilmente buono”).  Martin non usò mai quel nome, ma qualche tempo dopo la  Wychwood fece uscire una birra chiamata proprio Dogs Bollocks". 
Il suo colore è ambrato piuttosto carico con riflessi che vanno dal ramato al rubino: la schiuma è cremosa, compatta ed ha buona persistenza. Caramello, biscotto, accenni di pane nero, qualche spezia, profumi di marmellata di prugne e ciliegia, terrosi e di frutta secca a guscio: l’aroma è piuttosto intenso e pulito. La sensazione palatale è ottima, scorrevolezza e presenza trovano il compromesso perfetto. Non ci sono variazioni di rotta al palato: è una bitter ben equilibrata tra dolce (caramello, biscotto, marmellata di prugna e ciliegia, accenni di melassa) e amaro (frutta secca a guscio, terroso), intensa e al tempo stesso facile da bere. Lontano dalle mode, per una tranquilla immersioni nella tradizione anglosassone. 
Formato 50 cl., alc. 5%, lotto 5258, scad. 06/2021, prezzo indicativo 4.00-5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio