mercoledì 30 gennaio 2019

The Bruery Melange #3

Mélange:  mescolanza, insieme risultante dall’unione di elementi diversi. Quando si ha a disposizione un arsenale di botti piene di birra è difficile resistere alla tentazione di mescolarle e creare blend, o mélanges che dir si voglia.  Il birrificio californiano The Bruery ha a disposizione circa 4000  tra barili e foeders: il numero si riferisce al 2016 ed è quindi probabile che nel frattempo sia ulteriormente incrementato. 
Ma il primo mélange realizzato dal birrificio di Patrick Rue era arrivato già nell’anno del debutto: nel 2008 veniva offerta in cask la Mélange #1  (11.7%), un azzardato blend tra la imperial stout Black Tuesday invecchiata in botti di bourbon e la Oude Tart, birra acida ispirata alle  Flemish Red Ales.  La birra fu poi commercializzata in bottiglia a partire dal 2011 e ancora oggi viene di tanto in tanto replicata. Nello stesso anno arrivò anche la Melange #2 Yambic  (9.5%), un altrettanto curioso blend tra la belgian strong ale Autumn Maple e un Lambic di sei settimane.  Nel 2009 toccò a Melange #3 (della quale parleremo a breve in dettaglio), Melange #4 (blend tra una Berliner Weisse, una Flanders Red e una Imperial Stout) e Melange #5, una poderosa (15%) unione tra una Smoked, un Wheat Barley Wine  (White Oak, a sua volta blend  50%-50% di Wheat Barley Wine invecchiato in botti di bourbon e la strong ale Mischief)  e Papier, una delle birre che ogni anno The Bruery assembla per festeggiare il proprio anniversario. La Mélange #5  è stata replicata rifatta anche nel 2017.
Nel 2010 arrivò la Melange #6  (9%), curioso mix di una birra sperimentale per festeggiare San Valentino prodotta con aggiunta di barbabietole rosse per darle il colore appropriato; vennero poi aggiunte fave di cacao, petali di rosa e il risultato finale fu mescolato con la White Oak Sap (bourbon barrel aged wheat wine) e la Rugbrød (brown ale invecchiata in botti di bourbon). Qualche mese dopo giunse la Melange #7, blend tra Cuvee Jeune (“lambic”) e una birra realizzata per l’occasione con aggiunta di uva Pinot Noir.  La serie Melange fu poi temporaneamente sospesa per un triennio per ritornare nel 2013 con Melange #8 (14.5%), assemblaggio di una delle Anniversary di Bruery con White Oak Sap (bourbon barrel aged wheat wine) e aggiunta di caffè. Nel 2014 fu chiesto ai membri della Hoarders Society (qui la spiegazione) di partecipare ad un “concorso di blending” con le proprie idee per creare la Mélange #9 (8%): vinse un mix di una Sour Blonde Ale, Sour in the Rye  e White Oak Sap, al quale furono poi aggiunti cocco e zenzero fresco prima dell’imbottigliamento. Nel 2015 il concorso fu replicato per dar forma alla Mélange #10 (15%): questa volta il blend ebbe come protagonisti la solita Anniversary Ale, il Bourbon Barrel Aged Barley Wine Old Richland con aggiunta finale di cioccolato, cannella e peperoncino. Nello stesso anno arrivarono anche Melange #11  (9.3% -  blend tra Sour in the Rye e Anniversary Ale con aggiunta di datteri, cannella e anice stellato) e Mélange #12  (16.8%) con varie Strong Ales invecchiate in botte per una media di 22 mesi al quale furono poi aggiunti vaniglia, fave di cacao e nocciole.
Come saprete gli americani non amano il numero 13 e quindi per scaramanzia la Mélange #13 non fu mai realizzata, passando direttamente alla #14 del 2016 (13.4%): protagonisti furono imprecisate botti di Barley Wine, Old Ale e imperial stout, incluse Black Tuesday a Share This. Nello stesso anno arrivò anche l’ultima della serie, Mélange #15 (14.8%): ancora un blend di Barley Wine e Old Ale invecchiati in botti di bourbon con aggiunta di lattosio, noci, vaniglia e fave di cacao.   Nel 2017 non è uscito nessun nuovo blend ma The Bruery ha scelto di replicarne alcuni del passato: #3 e #5. E per quanto ne so neppure nel 2018.
 
La birra.
Melange #3, 16.3%: riedizione 2017 di una birra apparsa per la prima volta nel 2009 con un contenuto alcolico leggermente inferiore, 15.5%. Si tratta di un blend di tre birre tutte invecchiate in botti di bourbon: il  Wheat Wine White Oak Sap, l’Anniversary Ale (che ricordo è essa stessa un blend della stessa Old Ale, “fresca” con altre invecchiate in botti di bourbon) e l’esagerata (20%) imperial stout Black Tuesday, ovviamente anch’essa Bourbon Barrel Aged. Le percentuali del blend non sono state rivelate.
Il suo colore opaco ricorda la tonaca del frate cappuccino o l’ebano: la schiuma è sorprendentemente generosa, cremosa e compatta se si considera la gradazione alcolica.  Al naso c’è un’impressionante quantità di uvetta e prugna impregnati di bourbon; in secondo piano si scorgono frutti di bosco, legno, melassa, note vinose che richiamano il porto, qualche ricordo sbiadito di vaniglia. La bevuta prosegue nella stessa direzione senza raggiungere grosse profondità: inevitabilmente l’alcool si fa molto sentire e scalda ogni sorso, il corpo (medio) non è particolarmente ingombrante.  E’ chiaramente una birra da condividere con più persone o da bere in piccole dosi. Tanto bourbon, tanta uvetta e prugna, ricordi di porto: la sua dolcezza viene comunque asciugata da un potente finale nel quale il bourbon è protagonista assieme a qualche nota legnosa. Birra o liquore? Difficile tracciare il confine, anche se il risultato è molto appagante, pur non raggiungendo particolari vette espressive o emotive. Lascia una lunghissima scia di bourbon e frutta sotto spirito, un abbraccio caldo e quasi infinito.  
Se avete già provato qualcuna delle Anniversay di Bruery vi troverete molti punti in comune. Il suo prezzo di listino nel 2017 era di 30 dollari / 30 euro:  non ha forse avuto troppo successo anche a causa del rapporto alcool-formato, molto impegnativo. On line la si trova perciò abbastanza di frequente in offerta, talvolta anche alla metà:  a prezzo pieno forse il gioco non vale la candela, ma se la trovate scontata è un’esperienza che vale la pena di fare.
Formato 75 cl., alc. 16.3%, lotto 01/02/2017, #3832, prezzo indicativo 15.00-30.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 28 gennaio 2019

Brasseria Della Fonte Mezzanotte di Fuoco

In poco più di due anni d’attività (il debutto è avvenuto nel giugno del 2016) la Brasseria della Fonte è divenuto uno dei birrifici italiani più prolifici nel realizzare Imperial Stout, uno stile di nicchia che i birrifici italiani non hanno mai frequentato con particolare assiduità, per motivi d’opportunità commerciale ma anche, credo, di preferenze personali di chi le produce.  E sono proprio queste ultime ad entrare in gioco in questo caso; il birraio Samuele Cesaroni ama prima di tutto bere queste birre, soprattutto le potenti versioni barricate realizzate dai birrifici americani. Quando può si reca in loco ad assaggiarle, fa beer-trading , le beve e le studia.  E la Brasseria della Fonte è forse il birrificio italiano che più sta cercando di avvicinarsi alla scuola americana, soprattutto per quel che riguarda gli invecchiamenti in botti ex-bourbon, in Italia stranamente ancora poco utilizzate. 
La prima imperial stout della Fonte è stata la Raven & Demise (10%) del settembre 2017, seguita qualche mese dopo dalla Mezzanotte (9.5%) e, a marzo 2018, dalla Inverno (11%) invecchiata tre mesi in botti ex-bourbon Heaven Hill.  Dopo il primo passaggio in botte sono anche arrivati gli esperimenti con quegli ingredienti che vanno tanto di moda in questo periodo:  ad aprile 2018 è nata Sentenza (13.2%), imperiai milk stout con vaniglia, caffè, lattosio e, in piena estate, caffè e sciroppo d’acero sono stati protagonisti nella Notte Fonda (10.3%). Il 2018 si è chiuso con Mezzanotte di Fuoco (versione barricata della mezzanotte), Flagship Stout #1 W/ Cocoa  (8.8% - con cacao amaro e fave di cacao) e con Notte di Natale (10.5%), prodotta con aggiunta di caffè e cannella.
 
La birra.
Lasciamo la parola al birraio:  Mezzanotte di Fuoco  “è la sorella della Mezzanotte con piccole variazioni per poter affrontare il passaggio in botte. Brassata a dicembre 2017 con malto Pale, 2 tipi di Crystal inglese, melanoidinico e 3 malti scuri, oltre che fiocchi d'avena e zucchero candito, la base di questa stout ha un  grado plato elevato bilanciato da una luppolatura decisa di Warrior e Columbus. Dopo la fermentazione in tank è stata trasferita in botti di bourbon provenienti dalla distilleria Heaven & Hill dove ha riposato e acquistato profondità per 8 mesi.  Successivamente è stata lavorata con chips di cocco tostate e soprattutto caffè, proveniente dalla Torrefazione Caffè GM; abbiamo optato per una varietà 100% arabica tostata a legna”.
All'aspetto è nera, mentre la schiuma un po’ troppo esuberante e persistente obbliga ad una lunga attesa prima di riuscire a comporre il bicchiere. Caffè, cioccolato fondente, bourbon, legno, accenni di fruit cake, forse pan di spagna, tabacco: all’aroma c’è tutto quello che si può desiderare con un buon livello di pulizia e profondità. Il mouthfeel è inizialmente penalizzato dall’eccesso di bollicine e anche qui ci vuole un po’ di pazienza per godere appieno di una imperial stout intensa che inizia il suo percorso ricca di prugna, uvetta sotto spirito e melassa per poi virare sull’amaro del caffè, del cacao e delle tostature, mentre nel finale il bourbon esce di prepotenza, asciugando il palato e riscaldando il cuore. Non mancano piccole sfumature che parlano di legno, cocco e tabacco. Lascia una lunga scia calda e avvolgente che è un piccolo compendio di se stessa: bourbon, caffè, torrefatto, cacao amaro.   Il mio gusto personale mi porta ad eleggere Mezzanotte di Fuoco come la miglior imperial stout italiana barricata mai assaggiata sino ad ora: sia per quel che riguarda la pulizia che per la scelta delle botti (personalmente non amo molto vino o altri distillati per questo stile). Le manca ancora un po’ di definizione e c’è qualche imprecisione che paradossalmente riesce a renderla meno patinata ma  più sincera  (il che non vuol dire migliore) rispetto ad una KBS. 
L’utilizzo degli “adjuncts” (cocco e caffè) è fatto in maniera intelligente: il risultato è sempre e comunque una birra e non una specie di dessert o merendina. Dalla prima imperial stout Raven & Demise a questa Mezzanotte di Fuoco c’è stato davvero un bel percorso di crescita che vale la pena di seguire molto da vicino.
 Formato 33 cl., alc. 9.7%, lotto 85-2017, scad. 10/08/2020, prezzo indicativo 7.00-8.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 23 gennaio 2019

Alchemist El Jefe

La bevuta di oggi è occasione di riflessione sulle mode alle quali la Craft Beer Revolution ci ha abituati; la  birra artigianale ha inventato nuovi stili/sotto-stili  ed ne ha riportato in vita alcuni che erano estinti, o quasi. Se prima il cambiamento era lento o quasi inesistente, oggi è fin troppo veloce. Prendiamo il fenomeno delle Cascadian Dark Ale o Black IPA, che per comodità vado ad accorpare. Nate verso la metà degli anni ’90 hanno poi vissuto il loro momento di gloria nel periodo 2009-2014 quando il loro successo aveva obbligato ogni birrificio o quasi a realizzarne una: mi riferisco agli Stati Uniti in primis, il nostro continente e la nostra nazione hanno come sempre seguito con qualche anno di ritardo. 
Nel 2009 la W’10 Pitch di Widmer Brothers fu la prima Black IPA ad ottenere una medaglia al Great American Beer Festival (GABF) nella categoria Out of Category-Traditionally Brewed Beer: l’anno successivo il GABF corse ai ripari introducendo per la prima volta la categoria American-Style Black Ale. Dopo un quinquennio le Black IPA hanno iniziato la loro parabola discendente ed oggi la maggior parte dei birrifici americani ha smesso di produrle. In verità non vi è mai stato un vero e proprio hype sulle Black IPA, credo che nessun beergeek abbia mai fatto ora di file davanti ad un birrificio per acquistarle. Ma erano altri tempi  e c'era meno isterismo:  fossero di moda oggi forse assisteremo alle stesse cose che circondano le Juicy / New England IPA. 
Del birrificio del Vermont The Alchemist vi avevo già parlato in più di un’occasione. E no, non è stata una Black IPA a renderlo famoso. E’ tuttavia curioso notare che le Black IPA sembrano essere nate proprio in Vermont; era il dicembre del 1994 e Greg Noonan, birraio del Vermont Pub & Brewery, aveva  creato la Blackwatch IPA. Qualcuno a quel tempo parlò  anche di “Vermont Porter”. La birra venne poi replicata l’anno successivo quando al Vermont Pub era arrivato come assistente birraio John Kimmich, poi fondatore di The Alchemist nel 2003. 
Quella birra fu ovviamente l’ispirazione per la prima Black IPA di The Alchemist, che non tardò  ad arrivare al brewpub; la moglie lo convinse a chiamarla come il loro gatto (El Jefe), grasso e grosso, una cui foto natalizia divenne anche l’ispirazione per l’etichetta. “La birra si è evoluta negli anni,racconta Johnall’inizio era quasi tutta basata sul Simcoe in quanto volevo che dominassero gli aghi di pino, reminiscenti del periodo natalizio nel quale la birra veniva prodotta. Da allora quasi ogni anno ho utilizzato diverse varietà di luppolo.  El Jefe non è completamente nera ma non è una Hoppy Porter; mi piace chiamarla Dark IPA”. Nel 2014 i protagonisti furono Simcoe & Galaxy, nel 2016 il Mosaic e nel 2017 Kimmich ha deciso di ritornare alle origini utilizzando solo Simcoe ma cambiando il mix di malti.

La birra.
Effettivamente non è nera ma poco ci manca: la schiuma è cremosa e compatta e mostra ottima persistenza. Non conosco i luppoli scelti per l’edizione 2018 di El Jefe ma da quanto ho nel bicchiere deduco che il Simcoe sia stato ancora una volta scelto come protagonista. Gli aghi di pino ed il resinoso creano un aroma quasi balsamico nel quale s’intravede qualche profumo terroso e di pompelmo; curiosamente i profumi sono molto più forti e definiti annusando il foro della lattina che il bicchiere. E’ una birra piuttosto semplice ma molto pulita e ben definita: l'impressione è d'incamminarsi in una foresta di conifere, anche al palato dominano gli aghi di pino e il resinoso, il cui amaro caratterizza la bevuta dall’inizio alla fine. In sottofondo qualche nota di caramello e di agrumi, nel finale qualche nota terrosa, qualche accenno di tostatura e persino una lontana suggestione di cioccolato. Una birra che mantiene fede al suo nome (Dark IPA) e agli standard qualitativi del birrificio del Vermont, pulizia e precisione e facilità di bevuta in primis. E' semplice, batte sempre sugli stessi tasti ma riesce ugualmente a non stancare il palato, a non risultare mai noiosa e a soddisfare in pieno la vostra voglia d'amaro. 
Formato 47,3 cl., alc. 7%, lotto e scadenza non riportati.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 22 gennaio 2019

Van Pur Roger

Perlenbacher, Grafenwalder, Fink Brau e Best Brau sono i marchi più popolari sugli scaffali dei discount italiani, birre il cui costo s’aggira nei dintorni dell’euro al litro; ma non ci sono solo loro ad allietare il palato di chi desidera spendere il meno possibile o di chi ama l’horror. Prendete ad esempio questa lager leggera (3%) chiamata Roger, la cui lattina da lontano potrebbe quasi ricordare quella di una Coca Cola. 
Il più grande birrificio polacco indipendente si chiama Van Pur ed è stato fondato da Zbigniew Wantusiak e Siegfried Pura: un imprenditore polacco ed uno tedesco che sfruttarono il crollo del regime comunista. Nel 1992 la Van Pur cominciò a mettere in lattina la birra prodotta da altri birrifici per poi iniziare, l’anno successivo, a produrre anche la propria Van Pur Premium; il birrificio finì poi nelle mani della Brau Union austriaca che lo controllò sino al 2003, anno in cui i proprietari originali lo riacquistarono.  Van Pur possiede oggi cinque siti produttivi in Polonia che producono oltre 4 milioni di ettolitri all’anno, il 50% dei quali viene esportato in settanta paesi.  Oltre alla birra prodotta per conto terzi, Van Pur possiede una quota del mercato polacco che si aggira attorno al 10% ottenuto grazie a numerosi marchi propri: Lomża, Export, Łomża non pastrotizzata, Łomża al miele, Łomża non filtrata;  Karpackie Lager, Pils e Strong (9%); Brok Premium Lager, Gluten Free e Specialty (quest’ultima descritta come Craft Beer); Halne Strong (6, 9 e 10%)  il cui orso in etichetta ammicca alla Bjorne beer. La storica Van Pur Premium (Pilsener), affiancata dalle versioni Strong (10 e 12 %) ed analcolica; la Edelmeister Pilsener, Weizen, Witbier, Schwarzbier e Radler, la Hermann Muller Premium Lager e l’inquietante Cortes Cerveza Extra, una lager in bottiglia trasparente o una Corona in incognito, se preferite.

La birra.
Roger:  quaranta centesimi per mezzo litro di birra, ovvero 0.80 euro al litro. Filtratissima e quindi assolutamente limpida, di color oro antico, forma un cappello di schiuma bianca un po’ scomposta e dalla discreta persistenza. La lista degli ingredienti annovera malto e un inquietante… “malto da birra”, o “brewing malt” per dirla all’inglese. Non era meglio chiamarlo estratto? Riso e mais non sono elencati ma l’aroma mi sembra un piccolo compendio di succedanei del malto; c’è una sgradevole nota saponosa e di cereali andati a male (non trovo descrittore più appropriato) e, in fondo al tunnel, qualche ricordo di limone e di mela verde.  Poche bollicine, corpo leggerissimo, praticamente acqua. Il gusto latita, soprattutto se bevuta fresca, e la sensazione è di bere un bicchiere d’acqua con un delicato ma ributtante amaro finale saponoso. Lasciandola scaldare arrivano sbiaditi ricordi di mais, miele e soprattutto un forte gusto metallico a chiudere una bevuta poco secca e neppure troppo rinfrescante. E’ impressionante come una birra dal gusto così blando riesca tuttavia a risultare quasi  imbevibile e a finire nel lavandino. Il verdetto? Risparmiate anche questi quaranta centesimi e compratevi una bottiglietta d’acqua, se avete sete.
Formato 50 cl., alc. 3.0%, lotto 0220LE 13871827 1, scad.  28/09/2019, prezzo indicativo 0.40 euro (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 21 gennaio 2019

Eastside / Rebel's / Vento Forte/ Hilltop / Ritual Lab Sleepless Night

Che vi piacciano o no, le collaborazioni tra birrifici sono uno dei regali che ci ha portato la Craft Beer Revolution.  Sono solo uno dei tanti strumenti di marketing che consentono con poco sforzo di soddisfare il mercato e la sua continua richiesta di novità? Sono utili occasioni di scambio di conoscenze di crescita reciproca tra birrai?  Sono momenti goliardici tra colleghi e amici? C’è sicuramente un po’ di tutto in un fenomeno che, con le dovute proporzioni, ricorda un po’ quello dei supergruppi musicali nato alla fine degli anni ’60.  Ricordate i Cream, i Blind Faith, il poker Crosby, Stills, Nash & Young o il trio Emerson, Lake & Palmer? Negli anni ’80  i supergruppi andarono via via scomparendo ma bisogna comunque annotare sul taccuino i Traveling Wilburys (Bob Dylan, George Harrison, Jeff Lynne della Electric Light Orchestra, Tom Petty e Roy Orbison), gli Asia, i The Firm, Mike and the Mechanics e soprattutto i due megagruppi “a progetto” Band Aid e USA for Africa. Del resto il legame tra musica e birra è più forte di quanto appaia: non si contano i nomi delle birre e le etichette ispirate al mondo della musica, o i gruppi musicali che per fare cassa hanno concesso il proprio nome ad una birra, con risultati spesso purtroppo imbarazzanti. 
Questo preambolo mi è servito per presentarvi una sorta di “supergruppo” di birrai laziali che si sono riuniti a Latina nell’autunno dello scorso anno per produrre una birra a dieci mani; Eastside, Rebel’s, Vento Forte, Hilltop e Ritual Lab. Il risultato della notte insonne passata a lavorare sulla birra è stato appunto chiamato Sleepless Night: o forse la notte insonne è quello che vi aspetta dopo averla bevuta. Si tratta di una imperial porter (9.5%) prodotta con chicchi di caffè tostati dalla torrefazione Rinaldi di Ciampino, macinati a mano e tenuti in infusione per una settimana; al momento del confezionamento è stato poi aggiunto estratto di vaniglia del Madagascar. Gli impianti utilizzati sono stati quelli del birrificio Eastside. Anche se la presentazione ufficiale è avvenuta lunedì 15 ottobre presso la Scurreria Beer and Bagel di Genova, i primi fusti sono stati svelati al pubblico in occasione del weekend del festival Eurhop (12-13-14 ottobre). 

La birra.
Non è nera come la notte ma poco ci manca; la schiuma è cremosa e compatta ma di dimensioni molto modeste e piuttosto rapida nel scomparire. Il caffè, in forma liquida e macinata, è protagonista indiscusso di un aroma che annovera anche profumi terrosi, di orzo tostato, tabacco e cioccolato fondente. Chiudendo gli occhi si riesce ad immaginare anche un brownie al caffè. Il corpo è tra il medio e il pieno, la consistenza è oleosa e piuttosto gradevole anche se qualche bollicina di troppo, benché fine, ne pregiudica un po’ la morbidezza. Chi ha voglia di fare serata o di concluderla con una imperial porter al caffè non resterà deluso: questa Sleepless Night regala una bevuta ricca di caffè e di torrefatto, sostenuti da un velo dolce di caramello e vaniglia. In secondo piano troviamo accenni di tabacco e liquirizia, cacao amaro. L’alcool si fa sentire soprattutto a fine corsa, chiudendo un percorso intenso nel quale la vaniglia riesce a bilanciare molto bene l’acidità del caffè e dei malti scuri. Una birra che fa serata, da sorseggiare in tutta tranquillità. I lettori regolari del blog ricorderanno come spesso mi sia “lamentato” del livello delle imperial stout/porter italiane, ancora troppo lontane dai migliori esemplari prodotti all’estero, Stati Uniti in primis. In questa Sleepless Night c’è ancora qualche imprecisione ma è davvero questione di dettagli:  per quel che riguarda pulizia, intensità e “mouthfeel”  la distanza tra Italia e Stati Uniti (passatemi la semplificazione) risulta notevolmente ridotta e, se amate il genere, vi consiglio di metterla sulla vostra wishlist. 
Formato 33 cl., alc. 9.5%, lotto 25 18, scad. 12/2021, prezzo indicativo 5.50-6.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 20 gennaio 2019

Bierol El Patrón (Prototype Single Hop Mosaic)

Bierol, ovvero Bier and Tyrol, birra e tirolo; la regione dell’Austria non è certamente nota per essere una destinazione ricercata dagli appassionati di birra artigianale, ma anche la sua tranquillità si sta lentamente agitando. Ad Innsbruck i due locali del Tribaun rappresentano una bella oasi nel deserto e a Schwoich, settanta chilometri più a nord, vicino ai monti del Kaiser, è attivo dal 2014 il microbirrificio Bierol fondato da Christoph Bichler e Maximilian Karner. 
In realtà il padre di Bichler possedeva dal 2004 un impianto da 10 ettolitri nella stesso edificio rurale con annessa una piccola locanda-ristorante, lo Stöfflbräu: produceva le classiche helles  e weizen che la gente si aspettava di trovare. La morte improvvisa del suo birraio e un sostituto non all’altezza provocarono la chiusura del business. Il figlio Christoph non era molto interessato a proseguire l’attività del padre e si era dedicato a studiare legge; nel corso di una vacanza negli Stati Uniti assaggia però alcune IPA che cambiano completamente la sua concezione di birra. Al ritorno trasmette il suo entusiasmo all’amico Maximilian Karner convincendolo ad andare a Monaco di Baviera ad un festival di birra artigianale per fargli assaggiare qualcosa di simile a quello che aveva bevuto in America. Dopo quell’esperienza i due amici si trovano d'accordo: perché non provare a rimettere in funzione l’impianto da 10 ettolitri del padre di Christoph che giace inutilizzato da nove anni? Nessuno dei due ha mai fatto la birra ma c’è il vecchio Bichler ad aiutarli a muovere i primi passi, ci sono i libri e c’è internet. Nel 2014 nasce Bierol alla quale si unisce  Marko Nikolic, commerciale e beer sommelier: la prima birra prodotta è una Lager ambrata con dry-hopping di Cascade chiamata Number One seguita dalla Mountain (Double) Pale Ale che risulterà essere la birra più votata dal pubblico del primo Craft Bier Festival di Vienna. Arrivano anche la Padawan (Pale Ale Doing Alright Without A Name, con luppolo Mosaic) e la Going Hazel Nuts Porter, prodotta con nocciole tostate.
Potete assaggiare direttamente alla fonte le birre presso la locanda Stöfflhof che si trova adiacente agli impianti ed è gestita da Caroline Bichler, sorella di Christoph; musica e classica cucina tirolese affiancate da otto spine dalle quali però non sgorgano le classiche birre tirolesi.

La birra.
El Patron non è più un nome particolarmente originale per una birra, basta scorrere il database di Untappd o Ratebeer per rendersene conto, anche se forse non tutte fanno riferimento al defunto Pablo Emilio Escobar Gaviria, il più famoso narcotrafficante di tutti i tempi.  Alla Bierol non lasciano dubbi e ne mettono il ritratto direttamente in etichetta. La El Patrón di Bierol (8.5%) è una Double IPA prodotta per la prima volta nel maggio del 2017, evoluzione (ovvero ancora più luppolo) della prima Double IPA prodotta a Schwoich chiamata El Presidente. Ne esistono anche un paio di varianti “prototipali” prodotte con un solo luppolo: Citra e Mosaic, ed è quest’ultima che andiamo ad assaggiare. 
Il suo colore si colloca tra il dorato e l’arancio pallido ed è piuttosto velato; la schiuma è cremosa e compatta, con un’ottima ritenzione. Al naso emergono freschi profumi di cedro, pompelmo e arancia, floreali, mango e frutta tropicale; intensità e pulizia sono ad un livello piuttosto buono, manca forse un po’ di definizione. Al palato è morbida e scorre con pericolosa facilità, rispettosa della tradizione austriaca: pane, miele, mango, pesca e dolci agrumi formano una bevuta fruttata che non scivola verso gli estremismi del Juicy. La chiusura è secca e c'è un amaro resinoso, di buona intensità ma breve durata, a ripulire perfettamente il palato; l'alcool esce solo a fine corsa, rinforzando l'amaro e riscaldando il retrogusto. Ammetto di essere partito abbastanza prevenuto a causa di molte IPA austriache bevute in passato, timide e poche convincenti, ma che bella sorpresa questa  El Patron! Pulita, intensa, bilanciata, ancora abbastanza fresca: pensate ad una DIPA della West Coast con un bel carattere fruttato e "moderno". Per quel che mi riguarda non sfigura assolutamente con nessuna delle migliori rappresentanti europee di categoria. 
Formato 33 cl., ala. 8.2%, lotto 22.10.2018, scad. 22.04.2019.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 17 gennaio 2019

Epic Son of a Baptist (Corvus Coffee)

Epic Brewing Company debutta nell’aprile del 2010 a Salt Lake City, Utah: a fondarla Dave Cole e Peter Erickson, due biologi californiani che si sono conosciuti a San Diego alla metà degli anni ’80 quando lavoravano per un’azienda che produceva cibo per animali. All’inizio degli anni ’90 si spostano a San Francisco e si appassionano a quella Craft Beer Revolution che in quegli anni sta prendendo piede. Vorrebbero aprire un microbirrificio ma, in assenza di fondi, accettano la proposta dello stato dello Utah che offre buone opportunità ai giovani imprenditori e nel 2002 si trasferiscono a Salt Lake City per avviare un’azienda di acquacultura.  Fare la birra è un sogno che rimane sempre vivo e che si concretizza nel 2008, quando lo Utah modifica la propria restrittiva legislazione sugli alcolici e permette ai birrifici di servire direttamente ai propri clienti anche birre gradazione alcolica superiore al 3.2%. Sino ad allora, potevano essere vendute solamente dai negozi statali. 
Viene reclutato il birraio Kevin Crompton, vent’anni d’esperienza in diversi birrifici delle Hawaii e dello Utah: a lui il compito di elaborare le ricette delle prime nove birre di Epic Brewing. Il successo è inaspettato: Cole e Erickson si erano dati l’obiettivo di arrivare a circa 950 ettolitri all’anno entro cinque anni dal debutto ma dopo solo otto mesi di vita Epic aveva già raggiunto i 1500 e nel  2012 avevano superato quota 10.000 diventando il terzo maggior produttore di birra nello Utah. Nel 2013 Epic si espande aprendo un secondo sito produttivo a Denver, in Colorado: impianto da 24 ettolitri e focus su birre stagionali, occasionali e invecchiamenti in botte, per il cui scopo vengono acquistate un migliaio di botti. Epic al momento produce circa 20.000 ettolitri all’anno nello Utah e 27.000 ettolitri in Colorado; nel dicembre del 2017 ha acquisito il birrificio californiano Telegraph di Santa Barbara.  Entrambe le sedi di Epic sono dotate di taproom: a Salt Lake City (vietato l’ingresso ai minori) è obbligatorio ordinare assieme alle birre anche del cibo (panini, sandwiches e zuppe). A Denver potete invece bere liberamente dalle 25 spine attive, ma per mangiare dovete rivolgervi a dei food truck esterni o portarvi qualcosa da casa.

La birra.
La imperial stout Big Bad Baptist (11.8%), disponibile dal 2011 anche in diverse versioni barricate, è la birra che ha contribuito a rendere famoso Epic, anche se il “moderato hype” che un tempo aleggiava attorno a questa birra è drasticamente scemato. Nel 2015 Epic ha iniziato a produrre la “figlia” Son of a Baptist, una imperial stout dal contenuto alcolico più moderato (8% e dintorni) con aggiunta di caffè; nel 2017 il birrificio ha deciso di metterla in lattina e di utilizzare diverse varietà di caffè nel corso dell’anno. Sul fondo della lattina viene stampato il nome della tipologia di caffè utilizzato. Al di là delle variazioni la ricetta della Son of A Baptist prevede di solito malti Ultra-Premium Muntons Marris Otter, 2-Row Brewers, Black, Crystal, Chocolate, Roasted Barley, Cara-Aroma e zucchero Demerara; i luppoli utilizzati sono Nugget, Chinook e Cascade. 
Nei mesi scorsi qualche lattina è pervenuta anche sul continente europeo; si tratta della versione che utilizza caffè della torrefazione Corvus di Denver, in Colorado. Il suo colore è un ebano piuttosto scuro sul quale si forma un piccola e poco persistente testa di schiuma.  Il caffè domina un aroma nel quale trovano posto anche note terrose, di cuoio, polvere di cacao e torrefatto; il buon livello di pulizia ed eleganza sopperisce ad un’intensità un po’ dimessa sicuramente dovuta al fatto che la birra dovrebbe essere stata messa in lattina a dicembre del 2017.  E’ una imperial stout dalla gradazione alcolica contenuta, per gli standard americani, e la sensazione palatale si adegua: ottima scorrevolezza, corpo medio e nessuna velleità edonistica, ovvero cremosità o morbidezza. La bevuta è molto ben bilanciata tra il dolce del caramello e l’amaro del caffè e delle tostature; c’è anche spazio per qualche nota di frutta sotto spirito e di cacao. L’alcool  si fa sentire con delicatezza solo nel finale, l’acidità donata da caffè e malti scuri è piuttosto contenuta e la chiusura è amara di torrefatto, terroso e caffè quanto basta per essere “smaltita” dal palato in pochi secondi. Pulita, precisa, semplice ma molto ben fatta: un po’ avara di emozioni, ma ci si può accontentare.
Formato 35.5 cl., alc. 8%, lotto 5472, prezzo indicativo 5.50-6.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 15 gennaio 2019

O/O 50/50: Enigma/Nelson Sauvin

Del birrificio svedese O/O Brewing vi avevo già parlato qualche tempo fa: eravamo alla metà del 2017 e Olle Andersson, titolare di quella che allora era solamente una beerfirm, era in procinto di dotarsi d’impianti propri. Andersson si è fatto conoscere per il suo ottimo lavoro come birraio presso il birrificio svedese Stigbergets, autore di alcune tra le migliori New England / Juicy IPA realizzate sul continente Europeo;  e, sugli impianti dello stesso birrificio, realizzava le proprie birre a marchio O/O al ritmo di circa 35.000 litri/anno (dati 2016 e 2017).  
Nella seconda parte del 2017 Andersson ha fatto da tutore ai due nuovi birrai di Stigbergets destinati alla sua successione e, a dicembre, O/O Brewing ha finalmente debuttato con le prime birre prodotte sul proprio nuovo impianto da 20 ettolitri. Ad aiutarlo nella sua nuova avventura è arrivato a Goteborg dalla vicina Copenhagen l’amico Olof Andersson: a lui il compito di seguire la parte amministrativa e commerciale dell’azienda. E il 2018 è andato ben oltre le più rosee aspettative: l’obiettivo era di produrre 120.000 litri ma l’annata si è chiusa a quota 250.000 e per il 2019 si potrebbe arrivare a  vicino ai 400.000. “Siamo piccoli e questo al momento è per noi un vantaggio. – racconta Olle  - Possiamo ancora scegliere a chi vendere la birra, vogliamo controllare la freschezza dei nostri prodotti e sapere dove viene distribuita. A breve inizieremo anche con gli invecchiamenti in botte e le birre acide. Non l’ho mai fatto sino ad oggi, sarà interessante.”

La birra.
Nel 2014 O/O aveva debuttato sul mercato con una Baltic Porter seguita dalla 50/50: Amarillo/Simcoe IPA. Era la prima di una serie di birre con protagonisti due soli luppoli, ciascuno di essi utilizzati in eguali quantità; in quell’anno sono state realizzate anche la Citra/Chinook e Centennial/Columbus IPA prima che la serie venisse temporaneamente sospesa. Nel 2017 è ripresa con l’arrivo delle 50/50 Citra/Columbus e Mosaic/Citra IPA e nel 2018 si è espansa a macchia d’olio grazie alle Amarillo/Citra, Azacca/Citra, Azacca/Mosaic, Citra/Ekuanot, Citra/Nelson Sauvin, Comet/Citra, Comet/Mosaic, Enigma/Vic Secret e Mosaic/Simcoe IPA. Nei giorni scorsi è infine arrivata la Citra/Simcoe IPA.  Noi facciamo invece un passo indietro alla fine di ottobre 2018 quando viene lanciata la Enigma/Nelson Sauvin IPA: il primo è un luppolo australiano commercializzato per la prima volta nel 2015 e discendente dello svizzero Tettnang, il secondo proviene dalla Nuova Zelanda e non credo abbia bisogno di presentazioni. 
Il suo colore segue il protocollo “hazy” del New England: arancio torbido, schiuma biancastra un po’ scomposta e discreta ritenzione. L’aroma vede in primo piano i caratteristici profumi di uva bianca del Nelson Sauvin (ma anche dell’Enigma, a quanto leggo) affiancati da cedro e pompelmo rosa, papaia, maracuja; ancora piuttosto fresco, potente. Il mouthfeel è gradevole e morbido senza quelli eccessi che spesso rallentano la scorrevolezza delle NEIPA. La bevuta mostra buona corrispondenza con l’aroma: c’è qualche traccia dolce di mango, qualche nota maltata di pane e biscotto ma la bevuta è sostanzialmente caratterizzata dall’asprezza di uva, papaia e maracuja. L’amaro è quasi assente, ma asprezza e attenuazione lasciano il palato molto pulito alla fine di ogni sorso; l’alcool  (6.5%) è molto ben nascosto e quella  di O/O è una IPA  intensa che si beve con grande facilità, anche se ci sono margini di miglioramento per quel che riguarda pulizia ed eleganza. A me  è piaciuta, ma la consiglierei soprattutto a chi come me ama il Nelson Sauvin, luppolo in questo caso molto caratterizzante. 
Formato 44 cl., alc. 6.5%,  lotto 24/10/2018, scad. 24/04/2019, prezzo indicativo 7.00-8.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 12 gennaio 2019

Voodoo Big Black Voodoo Daddy

Matt Allyn vanta oltre vent’anni d’esperienza nella produzione di birra ed ha avuto a che fare con quasi tutti i birrifici operanti nella zona del lago Erie, Pennsylvania. Arruolatosi nell’aviazione statunitense dopo il college, è stato “costretto” ad imparare a far la birra nel corso di un periodo passato in Islanda: lui ed i suoi compagni di stanza iniziarono a produrla in un seminterrato come alternativa più “leggera” alla vodka. Ritornato negli Stati Uniti, lascia l’esercito per dedicarsi a tempo pieno alla birra: dal 1993 ad oggi sono oltre una trentina i birrifici che hanno usufruito del suo operato, sia come birraio che come consulente esterno per la progettazione e la messa in funzione degli impianti. 
Allyn corona il sogno di avere un birrificio tutto suo nel settembre del 2007 quando a Meadville (Pennsylvania), in un piccolo spazio nel retro di un ex negozio di mobili, apre la Voodoo Brewing Company: impianto da 12 ettolitri e una produzione che alla fine del 2009 aveva raggiunto solamente i 500 ettolitri/anno grazie a sei birre fisse (IPA, Pilsner, Brown Ale e tre “belghe”) e alcune stagionali. La situazione finanziaria del piccolo birrificio di Allyn era tuttavia abbastanza precaria e, nell’autunno del 2010, la fine sembrava ormai certa; il suo aiuto birraio Justin Dudek se n’era andato e a sostituirlo arrivò il californiano Curt Rachocki che ricorda: “quando Matt mi assunse fu molto chiaro con me riguardo alla situazione finanziaria. Forse il mio lavoro sarebbe durato un mese o poco più; in quel primo mese rimasi sconvolto nel vedere come le cose andavano male. Ogni giorno ci sospendevano la fornitura di qualcosa..  acqua, gas, elettricità… mi furono persino consegnati dallo sceriffo dei documenti di pignoramento di alcune delle nostre attrezzature. Mi accorsi subito che avevamo bisogno di qualcuno abile dal punto di vista imprenditoriale e commerciale; conoscevo uno di cui mi fidavo, mio fratello Matteo”. 
Matteo Rachocki raggiunge Curt e riesce a chiamare a bordo alcuni investitori (tra i quali Jake Voelker che oggi occupa il ruolo di presidente) per ottenere i fondi necessari ad espandersi ed aumentare la produzione; nel 2011 viene inaugurato un pub a Meadville dove la gente può bere e mangiare: è la svolta e Voodoo inizia lentamente ad entrare nelle grazie dei beergeeks. Il merito è ancora una volta degli invecchiamenti in botte; le varianti della imperial stout Black Magic che venivano distribuite normalmente nei negozi ed in buone quantità (e quindi non generavano hype) a partire dal 2013 vengono vendute solamente presso il brewpub. Anche a Meadville i beergeeks iniziano a dormire in macchina per essere tra i primi della fina la mattina del giorno in cui iniziano le vendite. Sotto la guida dei fratelli Rachocki  nel 2014 la produzione di Voodoo aveva già raggiunto i 1200 ettolitri e nel 2015 toccata quota 3000;  in quell’anno viene aperto un secondo pub a Homestead (Pittsburgh), ma Voodoo ha già saturato la sua capacità. Il 2016 è un altro anno fondamentale nella storia del birrificio: a febbraio il fondatore Matt Allyn lascia l’azienda per tornare alla sua attività di consulente fondando l’Allyn Brewing Group e ai dipendenti viene offerta la possibilità di diventare azionisti. Investimenti per quasi un milione di dollari consentono di realizzare un secondo birrificio a Meadville (The Compound) che decuplica la capacità produttiva portandola a 35000 ettolitri/anno; in parallelo prosegue il piano di espansione dei pub in Pennsylvania con le aperture di Erie , Grove City  (2017) e Lancaster (2018).

La birra.
L’imperial stout Big Black Voodoo Daddy non ha il blasone delle sorelle barricate Black Magic e Grande Negro (peraltro impossibili da reperire alle nostre latitudini) ma è comunque una signora birra che vale la pena di provare. E’ una produzione stagionale invernale la cui ricetta include un ricco parterre di malti come 2-row, Chocolate, Roast, Black, Caramel Munich 120, Brown e Crystal 70-80; nessuna indicazione di lotto in etichetta ma la bottiglia in mio possesso dovrebbe risalire al 2017.  
Nel bicchiere è quasi nera, la schiuma è cremosa e compatta anche se non troppo generosa. Il naso è intenso e ricco, dolce di fruitcake, prugna, uvetta, datteri, melassa: in secondo piano qualche nota di tabacco e leggere tostature. Poche bollicine, morbidissima, quasi setosa: una carezza per il palato capace di scorrere con buona facilità, se si considera la gradazione alcolica (12%). Il gusto ribalta le gerarchie stabilite dall’aroma lasciando al dolce della melassa e della frutta sotto spirito solamente i primi metri di un percorso che vira subito nel territorio del torrefatto e del caffè, impreziosito da dettagli che suggeriscono il cacao amaro ed il tabacco. Anche l’alcool fa un bel crescendo sfociando in un finale caldo e potente di frutta sotto spirito che riscalda corpo e anima senza mai dare fastidio. Eccellente pulizia, grande equilibrio tra gli elementi, eleganza e precisione: un’imperial stout che tocca (le mie) corde giuste e che regala anche emozioni. Livello alto, se vi capita a tiro non fatevela sfuggire: qualche bottiglia è arrivata tempo fa anche alle nostre latitudini.
Formato 33 cl., alc. 12%, lotto e scadenza non riportati, prezzo indicativo 8.00 euro (beershop)

giovedì 10 gennaio 2019

DALLA CANTINA: Birrificio Pausa Cafè Tosta Cuvee Normanna

Torrefazione, birrificio e forno:  attraverso queste attività la cooperativa Pausa Café offre percorsi di reinserimento sociale e lavorativo ai detenuti degli istituiti di pena italiani. Il progetto caffè è partito nel 2004 e gli ottimi risultati ottenuti hanno fatto da apripista per il birrificio (12 ettolitri) inaugurato nel 2009 all’interno della Casa di Detenzione Rodolfo Morando di Saluzzo. Alla guida Andrea Bertola, birraio già tra i fondatori del birrificio Troll ed un passato da homebrewer “per colpa” dell’amicizia con Luca Giaccone ed Enrico Lovera, esperti degustatori. Bertola è oggi attivo anche con altri progetti esterni a Pausa Caffè:  c’è lui dietro la birreria Beertola di Cuneo (e la beerfrim Beerfulness a lei collegata) ed il birrificio Lord Chambray di Malta. 
Attualmente Pausa Caffè produce una decina di birre che utilizzano spesso ingredienti provenienti dalle comunità indigene del sud del mondo, America Latina in primis: Chicca (4.5% stout con caffè Huehuetenango), Taquamari (5.2% weizen con tapioca, quinoa, amaranto e riso basmati), Dui e Mes (2.5% saison/table beer con zafferano di Taliouine e pepe nero di Rimbàs), Tosta (12.5% barley wine con cacao del Costa Rica) e le più tradizionali P.I.L.S. (4.7%),  Triplete (9% tripel),  Ermes (4.7% blanche) e T.I.P.A  (6.7% English IPA).  Oltre a queste vi sono produzioni occasionali e stagionali come la Birra Navidad (8% strong ale con melograno, cedro candito, uva sultanina e una spezia del Ceylon).

La birra.
Tosta è un barley wine di scuola inglese prodotto con malti Maris Otter e Crystal, luppolo East Kent Golding e cacao Talamanca (0,01%  proveniente dal Costarica). Nel 2011 per la prima volta ne è stata realizzata anche una versione invecchiata sei mesi in botti che avevano in precedenza ospitato Calvados prodotto dalla distilleria francese Etienne Dupont; non so se da allora sia poi stata replicata. Purtroppo la bottiglia in mio possesso, acquistata nel 2014 ed evidentemente destinata al mercato statunitense (lo sticker sull’etichetta è in inglese), non presenta nessuna indicazione di lotto o scadenza; la sua età anagrafica è quindi di almeno quattro anni, ma potrebbero anche essere di più. La birra è stata imbottigliata “piatta” e da quanto ne so ne esiste anche una versione “sour”, almeno così mi fu detto da un rappresentante del birrificio al momento dell’acquisto. 
Il suo colore è un ambrato piuttosto torbido e poco luminoso; in superficie si formano alcune bolle grossolane che svaniscono piuttosto rapidamente. Il naso mostra buona intensità e complessità a compensazione di una finezza non esente da critiche: uvetta, prugna, datteri, caramello, frutti di bosco, sciroppo di ciliegia. Il passaggio in botte le dona interessanti sfumature legnose e ricordi di mela. Al palato non vi sono ovviamente bollicine e il gusto ripropone con minor intensità il carattere fruttato dell’aroma.  Note caramellate e biscottate si mescolano a quelle di frutta sotto spirito (prugna e uvetta) per un inizio dolce che viene poi sorprendentemente stemperato da una marcata acidità e da un’asprezza (frutti rossi) che non sconfina mai nell’acetico.  Il passaggio in botte si fa sentire soprattutto nel finale, con un bel tepore che richiama il Calvados: il finale è abbastanza attenuato e qualche nota legnosa anticipa una lunga scia dolce di frutta sotto spirito.  Qualche lieve traccia d’ossidazione inizia a far capolino ma non sembra disturbare la bevuta: quello che mi lascia un po’ perplesso è la marcata acidità che, in teoria, non avrebbe dovuto esser presente in questa bottiglia. Non ci sono grandi profondità al palato ma il risultato è tutto sommato ancora gradevole, con il beneficio del dubbio di una birra nella quale non tutto è andato come doveva andare.  
Formato 33 cl., alc. 12.5%, lotto e scadenza non riportati, pagata 4,00 euro (birrificio)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 8 gennaio 2019

Alefarm Solemn Cycle

Del birrificio Alefarm, uno degli astri nascenti della scena danese, vi avevo già parlato nel 2017: da allora sono già avvenuti grossi cambiamenti, a partire dall’addio del co-fondatore (e birraio) Andreas Skytt Larsen che qualche mese fa ha lasciato il comando all’amico e co-fondatore Kasper Tidemann, ora aiutato dalla moglie Britt van Slyck. E nel 2018 è avvenuto anche il trasferimento da  Køge a Greve, trenta chilometri a sud di Copenhagen, dove a maggio è entrato in funzione il nuovo impianto da 20 ettolitri che ha permesso di produrre circa 1400 ettolitri all’anno, buona parte dei quali destinati all’export. Un bel salto in avanti per un birrificio che aveva chiuso il 2017 a quota 120 distribuendo le proprie birre quasi solo in Danimarca. Il nuovo corso inaugurato da Tidemann ha dato priorità alle lattine e ha spostato momentaneamente il focus su IPA e DIPA, realizzate quasi ogni volta con un diverso mix di luppoli: in sei mesi sono già arrivate una cinquantina di diverse etichette (tutte ideate da Dan Johnstone, Brand Manager)  per soddisfare la voglia di novità di beergeeks ed appassionati.  Andreas Skytt Larsen aveva aperto Alefarm per produrre quasi esclusivamente piccoli lotti di saison/farmhouse ale con lieviti selvaggi e batteri: Tidemann promette che a breve il nuovo birrificio sarà operativo anche in questo ambito. A questo scopo è arrivato il birraio Joseph Freund che vanta esperienze presso Jolly Pumpkin e Monkish Brewing negli USA e  Beavertown in Inghilterra. Sempre da Beavertown è arrivato in agosto Mark Walewski: a lui il compito di sfornare continuamente variazioni sul tema APA, IPA, DIPA e dintorni, ovviamente torbide come vuole la moda. Nei progetti futuri di  Tidemann c’è l’apertura di una vera e propria taproom nel birrificio e il sogno di un Alefarm Bar in centro a Copenhagen.

La birra.
Alefarm non è molto prolifico per quel che riguarda le birre scure. In tre anni ne sono state prodotte solamente una manciata ma, assicura Tidemann, le cose stanno per cambiare; alla fine di ottobre 2018 è arrivata la prima stout dai nuovi impianti di Greve, chiamata Solemn Cycle (7.8%). La ricetta prevede aggiunta di lattosio, fiocchi d’avena e caffè brasiliano; nelle intenzioni questa sarà la prima di una serie di varianti con differenti ingredienti e futuri invecchiamenti in botte. 
Si presenta vestita di nero, la schiuma è cremosa e piuttosto persistente ma un po’ scomposta. Il caffè macinato, elegante e pulito, è indiscusso protagonista dell’aroma: in sottofondo c’è qualche nota di tabacco, orzo tostato, accenni di frutta sotto spirito.  Ottime promesse che non vengono tuttavia mantenute al palato, a partire da un mouthfeel un po’ insoddisfacente, addirittura sfuggente in alcuni passaggi nonostante l’utilizzo di avena e lattosio. Il gusto è meno pulito e preciso: il dolce di caramello e lattosio/cioccolatte preparano il terreno per l’arrivo delle tostature e del caffè, quest’ultimo meno evidente e definito rispetto all’aroma. I sapori sono un po’ slegati tra di loro e il finale, nel quale t’aspetteresti un bel carico di caffelatte, è addirittura calante. C’è anche spazio per qualche nota terrosa e di tabacco, mentre l’alcool è ben nascosto facilitando la velocità di bevuta: il risultato è godibile ma lascia parecchi rimpianti per quello che avrebbe potuto essere, partendo dall’aroma. La prima Milk Stout di Alefarm è discreta ma necessita di migliorare per quel che riguarda pulizia, rotondità e precisione.  
Formato 50 cl., alc. 7.8%, scad. 23/10/2019, prezzo indicativo 7.00-8.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 7 gennaio 2019

Toppling Goliath Pompeii IPA

Accendiamo i motori del decimo anno del blog  con il birrificio americano Toppling Goliath, già ospitato in più di un’occasione. Siamo a Decorah, cittadina dell’Iowa sperduta tra chilometri di colline coltivate a mais e soia nella quale vivono circa ottomila persone: la storia ve l’avevo già raccontata qui. Il 2018 è stato un anno molto importante per il birrificio fondato nel 2009 da Clark Lewey e guidato dall’abile birraio Mike Saboe: il 6 febbraio è stato infatti inaugurato il nuovo birrificio (1600 Prosperity Road) costato quasi 15 milioni di dollari: cinquemila metri quadrati di spazio nei quali oltre all’impianto (Steinecker della tedesca Krones) e al magazzino trova spazio un’ampia taproom su due livelli con ristorante capace di ospitare settecento persone. 
Nei piani di Lewey c’è una crescita lenta ma costante che dovrebbe arrivare, nei prossimi dieci anni, a raggiungere i 100.000 barili l’anno: il nuovo birrificio si trova a circa 8 chilometri dalla taproom originale di Decorah dove Toppling Goliath aveva iniziato con un impiantino da 50 litri, poi sostituito nel 2010 con uno da 11 ettolitri e nel 2014 con uno da 35 ettolitri posizionato a qualche chilometro di distanza, negli edifici di 1762 Old Stage Road che dovrebbero essere a breve dedicati alla produzione di birre acide.  Il brewpub originale di Toppling Goliath (310 College Drive) è stato venduto alla famiglia Dixon che a maggio 2018 ha inaugurato il TGII Craft Brews, un beer bar che nel nome voleva omaggiare i precedenti inquilini. La scelta ha però generato confusione e chi veniva da fuori città pensava di trovarsi in una seconda taproom: il locale (che offre comunque regolarmente le birre di Toppling) è stato da poco rinominato Dixie’s Biergarten. 
I nuovi impianti consentono di riportare Decorah la produzione di tutte le birre: fino ad oggi le lattine erano state realizzata appoggiandosi a birrifici terzi in Wisconsin ed in Florida. Il luogo di produzione non era mai specificato sul contenitore e la poca trasparenza aveva creato un po’ di malumori tra i beergeeks americani. E Clarke Lewey non intende fermarsi qui: oltre alla produzione di birre acide pare che stia pensando di aprire una taproom sulla West Coast. Nel frattempo tutta la cittadina di Decorah si gode il successo: nei weekend in cui il birrificio mette in vendita le sue birre più ricercate (ad esempio Kentucky Brunch  e Morning Delight) si stima un giro d’affari che sfiora il milione di dollari. Oltre duemila le persone che affollano ristoranti, bar, negozi  e hotel.

La birra.
Duecentocinquanta al minuto; eco il potenziale della nuova linea di produzione lattine inaugurata nei primi mesi del 2018. Questo il formato scelto soprattutto per le birre che vengono prodotte tutto l’anno, attualmente cinque: la Dorothy New World Lager, la Pseudo Sue Pale Ale, le IPA Golden Nugget e Pompeii, affiancate da un numero sempre più crescente di IPA e Double IPA stagionali e occasionali. Se si tralasciano le ricercatissime (impossibili da reperire alle nostre latitudini) imperial stout, la produzione di Toppling Goliath è alquanto “luppolocentrica”. 
Nasce nel 2013 nell’ambito della serie Hop Patrol, ovvero IPA “single hop” prodotte occasionalmente. Pompeii s’ispira alla Casa del Fauno, una delle domus più vaste del sito archeologico di Pompei: “alcuni dei mosaici più famosi del mondo sono stati preservati dalle ceneri del Vesuvio e, allo stesso modo, questa IPA vuole preservare il lussuoso sapore del luppolo Mosaic”.  Il suo colore è tra il dorato e l’arancio pallido, piuttosto velato, la schiuma biancastra abbastanza cremosa e compatta, con buona ritenzione. L’aroma è ancora piuttosto intenso e fresco: ananas, pompelmo, arancia zuccherata, fiori, qualche leggero ricordo dank in sottofondo. Al palato è morbida e molto scorrevole, perfettamente rispettosa della scuola del Midwest statunitense, mentre la bevuta ripropone in pieno l’aroma con la tipica eleganza e precisione che caratterizza il birrificio di Decorah:  nessun estremismo, grande pulizia ed equilibrio. Qualche nota di miele e biscotto anticipano un fruttato delicatamente tropicale che si mantiene a debita distanza dal succo di frutta: ananas, pompelmo e arancia vengono affiancati da qualche ricordo di mango, la chiusura è molto secca e caratterizzata da un amaro resinoso di discreta intensità e breve durata. L’alcool (6.2%) è praticamente inesistente e la Pompeii di Toppling Goliath è capace di scorrere ad altissima velocità. E’ tuttavia preferibile gustarsela con calma, visto che reperibilità e prezzo (via aerea) sono un problema nel nostro continente: ad essere pignoli qualche leggero cedimento di freschezza inizia già ad intravedersi ma su questa IPA si viaggia ancora in prima classe. Un solo luppolo (sarà poi vero?) ma risultati sempre impressionanti: vedasi il Citra nella Pseudo Sue, il Mosaic nella Sosus, il Nelson Sauvin nella ZeeLander ed il Nugget nella Golden Nugget IPA.
Formato 47,3 cl., IBU 50, lotto 30/10/2018, scad. 27/02/2019, prezzo indicativo 10.00 Euro (beershop).