sabato 12 gennaio 2019

Voodoo Big Black Voodoo Daddy

Matt Allyn vanta oltre vent’anni d’esperienza nella produzione di birra ed ha avuto a che fare con quasi tutti i birrifici operanti nella zona del lago Erie, Pennsylvania. Arruolatosi nell’aviazione statunitense dopo il college, è stato “costretto” ad imparare a far la birra nel corso di un periodo passato in Islanda: lui ed i suoi compagni di stanza iniziarono a produrla in un seminterrato come alternativa più “leggera” alla vodka. Ritornato negli Stati Uniti, lascia l’esercito per dedicarsi a tempo pieno alla birra: dal 1993 ad oggi sono oltre una trentina i birrifici che hanno usufruito del suo operato, sia come birraio che come consulente esterno per la progettazione e la messa in funzione degli impianti. 
Allyn corona il sogno di avere un birrificio tutto suo nel settembre del 2007 quando a Meadville (Pennsylvania), in un piccolo spazio nel retro di un ex negozio di mobili, apre la Voodoo Brewing Company: impianto da 12 ettolitri e una produzione che alla fine del 2009 aveva raggiunto solamente i 500 ettolitri/anno grazie a sei birre fisse (IPA, Pilsner, Brown Ale e tre “belghe”) e alcune stagionali. La situazione finanziaria del piccolo birrificio di Allyn era tuttavia abbastanza precaria e, nell’autunno del 2010, la fine sembrava ormai certa; il suo aiuto birraio Justin Dudek se n’era andato e a sostituirlo arrivò il californiano Curt Rachocki che ricorda: “quando Matt mi assunse fu molto chiaro con me riguardo alla situazione finanziaria. Forse il mio lavoro sarebbe durato un mese o poco più; in quel primo mese rimasi sconvolto nel vedere come le cose andavano male. Ogni giorno ci sospendevano la fornitura di qualcosa..  acqua, gas, elettricità… mi furono persino consegnati dallo sceriffo dei documenti di pignoramento di alcune delle nostre attrezzature. Mi accorsi subito che avevamo bisogno di qualcuno abile dal punto di vista imprenditoriale e commerciale; conoscevo uno di cui mi fidavo, mio fratello Matteo”. 
Matteo Rachocki raggiunge Curt e riesce a chiamare a bordo alcuni investitori (tra i quali Jake Voelker che oggi occupa il ruolo di presidente) per ottenere i fondi necessari ad espandersi ed aumentare la produzione; nel 2011 viene inaugurato un pub a Meadville dove la gente può bere e mangiare: è la svolta e Voodoo inizia lentamente ad entrare nelle grazie dei beergeeks. Il merito è ancora una volta degli invecchiamenti in botte; le varianti della imperial stout Black Magic che venivano distribuite normalmente nei negozi ed in buone quantità (e quindi non generavano hype) a partire dal 2013 vengono vendute solamente presso il brewpub. Anche a Meadville i beergeeks iniziano a dormire in macchina per essere tra i primi della fina la mattina del giorno in cui iniziano le vendite. Sotto la guida dei fratelli Rachocki  nel 2014 la produzione di Voodoo aveva già raggiunto i 1200 ettolitri e nel 2015 toccata quota 3000;  in quell’anno viene aperto un secondo pub a Homestead (Pittsburgh), ma Voodoo ha già saturato la sua capacità. Il 2016 è un altro anno fondamentale nella storia del birrificio: a febbraio il fondatore Matt Allyn lascia l’azienda per tornare alla sua attività di consulente fondando l’Allyn Brewing Group e ai dipendenti viene offerta la possibilità di diventare azionisti. Investimenti per quasi un milione di dollari consentono di realizzare un secondo birrificio a Meadville (The Compound) che decuplica la capacità produttiva portandola a 35000 ettolitri/anno; in parallelo prosegue il piano di espansione dei pub in Pennsylvania con le aperture di Erie , Grove City  (2017) e Lancaster (2018).

La birra.
L’imperial stout Big Black Voodoo Daddy non ha il blasone delle sorelle barricate Black Magic e Grande Negro (peraltro impossibili da reperire alle nostre latitudini) ma è comunque una signora birra che vale la pena di provare. E’ una produzione stagionale invernale la cui ricetta include un ricco parterre di malti come 2-row, Chocolate, Roast, Black, Caramel Munich 120, Brown e Crystal 70-80; nessuna indicazione di lotto in etichetta ma la bottiglia in mio possesso dovrebbe risalire al 2017.  
Nel bicchiere è quasi nera, la schiuma è cremosa e compatta anche se non troppo generosa. Il naso è intenso e ricco, dolce di fruitcake, prugna, uvetta, datteri, melassa: in secondo piano qualche nota di tabacco e leggere tostature. Poche bollicine, morbidissima, quasi setosa: una carezza per il palato capace di scorrere con buona facilità, se si considera la gradazione alcolica (12%). Il gusto ribalta le gerarchie stabilite dall’aroma lasciando al dolce della melassa e della frutta sotto spirito solamente i primi metri di un percorso che vira subito nel territorio del torrefatto e del caffè, impreziosito da dettagli che suggeriscono il cacao amaro ed il tabacco. Anche l’alcool fa un bel crescendo sfociando in un finale caldo e potente di frutta sotto spirito che riscalda corpo e anima senza mai dare fastidio. Eccellente pulizia, grande equilibrio tra gli elementi, eleganza e precisione: un’imperial stout che tocca (le mie) corde giuste e che regala anche emozioni. Livello alto, se vi capita a tiro non fatevela sfuggire: qualche bottiglia è arrivata tempo fa anche alle nostre latitudini.
Formato 33 cl., alc. 12%, lotto e scadenza non riportati, prezzo indicativo 8.00 euro (beershop)

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