venerdì 30 marzo 2018

Põhjala Bänger

E’ iniziato tutto nel febbraio del 2017 con l’arrivo della Bänger:  “bang!” un esplosivo colpo di fuoco del peperoncino Habanero che il birrificio estone  Põhjala (qui la storia) ha aggiunto in una massiccia imperial stout (12.5%). Qualche mese dopo (maggio) è arrivata quella Cocobänger che è rapidamente diventata una delle birre di maggior successo di Põhjala; il peperoncino è stato tolto dalla ricetta ma i “botti” sono rimasti grazie al caffè e ad uno degli ingredienti più amati dai beergeeks, il cocco. 
Lo scorso febbraio 2018 è poi arrivata la Italobänger, (inquietante) variazione della ricetta che include fichi, anice stellato, arance sanguinelle e mosto d’uva: e meno male che ci hanno risparmiato pomodoro e mozzarella. Imperial Stout e Porter rappresentano comunque uno dei punti di forza del birrificio di Tallin e anche il 30% delle circa cento etichette messe in commercio sino ad ora.
Qualche settimana fa abbiamo parlato della Cocobänger e ora facciamo un salto indietro alla primogenita Bänger, la cui ricetta elenca malti Pale, Monaco, Special B, Crystal 300, Crystal 150, Crystal 200, Carafa type 2 special e Chocolate, avena e malto di segale Chocolate Rye, luppoli Magnum e Northern Brewer, prugne, baccelli di vaniglia e peperoncino Habanero. 

La birra.
Il suo colore è abbastanza prossimo al nero ma qualche spiraglio di marrone si riesce ad intravedere in controluce; la schiuma è alquanto modesta e rapida a scomparire, sebbene appaia compatta e cremosa.
Il "problema" (virgolette d'obbligo perché magari per qualcuno è un pregio) di molte imperial stout/porter di Pohjala è che sono dolci, terribilmente dolci: se non siete della partita, fate attenzione. Questa Bänger rispetta la tradizione a partire da un aroma piuttosto ricco di melassa, prugna, uvetta e ciliegia sciroppata, vaniglia e liquirizia, cioccolato, biscotto e pan di spagna; si avverte anche il peperoncino. La complessità è notevole, la pulizia è buona, l'intensità è discreta. Se la dolcezza aromatica può essere tollerabile anche a chi non ama le birre dolci, al palato la situazione è ovviamente differente. Il gusto segue piuttosto fedelmente l'aroma ed è dunque molto, molto dolce, anche se non completamente fuori controllo. L'alcool e il calore del peperoncino, che entra progressivamente in scena verso la fine della bevuta, aiutano a stemperare un po' la situazione e la chiusura è piuttosto "hot": a voi stabilire se una "melassa o un dessert piccante" siano qualcosa di desiderabile. Nel finale ci sono anche un po' di cioccolato e un accenno di caffè, con una sensazione di calore piccante che avvolge tutto il palato con buona intensità. Non è affatto una cattiva birra questa Bänger di Pohjala, tutt'altro: è ben fatta e si mantiene distante da quelle discutibili  birre-dessert che si trovano in giro. E' anzi piuttosto gradevole se presa in piccole dosi,  perché  la sua ostentata dolcezza stanca il mio palato abbastanza presto e la bevuta si trasforma in un lento sorseggiare che, dopo molte pause, occupa tutta la serata. Il mouthfeel non aiuta: corpo quasi pieno, birra viscosa e denso, senza nessuna morbidezza o cremosità. 
Il problema è comunque abbastanza semplice da risolvere: amate le birre molto dolci? Potrebbe fare per voi. Altrimenti passate oltre.
Formato 33 cl., alc. 12.5%, IBU 60, lotto 392, scad. 21/02/2020, prezzo indicativo 6.00-7-00 euro (beershop)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

martedì 27 marzo 2018

Cloudwater Brew Co.: Small Beer Citra Simcoe Pale & DIPA Citra Enigma


Rieccoci a parlare di Cloudwater (qui la storia), birrificio inglese sempre sulla cresta dell’onda fondato da Paul Jones e James Campbell ed operativo a Manchester da marzo 2015. Cloudwater si autodefinisce “specializzato in birre moderne e stagionali” e prosegue la sua attività a ritmo di one-shot senza praticamente mai replicare la stessa ricetta; ogni birra, benché simile ad altre, differisce sempre per qualche piccolo ingrediente.  Le ultime novità in casa Cloudwater parlano di un nuovo sistema di “datazione” delle lattine che è entrato in vigore da qualche settimana: oltre alla data di produzione e alla scadenza, è anche riportata una data di “freschezza” (FFB = Freshest Flavour Before) che vi consiglierà il  termine massimo entro il quale bere la birra per coglierla all’apice della freschezza. Un modo per accontentare anche i distributori/negozianti che hanno difficoltà a gestire birre a scadenza brevissima; loro potranno continuare a venderle per più tempo ma i consumatori sono avvisati che la “freschezza” potrebbe non essere più "al top", anche se la birra rimane comunque ottima.

Le birre.
Noi facciamo invece un passettino indietro alla fine di febbraio quando Cloudwater ha messo in vendita alcune novità. Partiamo dalla Small Beer Citra Simcoe Pale che rappresenta un sfida piuttosto interessante; realizzare una birra dal basso contenuto alcolico (2.9%) ma ricca di profumi e sapori.  La ricetta parla di malti Golden Promise, Destrosio, Heritage Crystal, Caramalt,  malto d’avena Golden Naked, maltodestrine e frumento, lievito New England Lallemand, dry-hopping (12 grammi/litro) di Citra e Simcoe, Ekuanot per amaro.  
Il suo colore è quello di un succo di frutta sul quale si forma una scomposto cappello di schiuma biancastro dalla buona persistenza. L’aroma non ha nulla da invidiare a IPA/DIPA dal grado alcolico molto più sostenuto: intenso, fresco, discretamente pulito ed elegante, offre una macedonia di ananas mango, pompelmo, mandarino con una sorpresina che oscilla tra il bubblegum e le fragole alla panna. Ancora più sorprendente è forse il corpo: 2.9% ABV ma una sensazione palatale abbastanza “piena” e morbida, a tratti cremosa: ottima.  Dei malti non vi è ovviamente traccia e il gusto è un concentrato di frutta dolce: mango, pesca, arancia e ananas sono presenti con buona intensità e discreta pulizia. Le cose peggiorano un po’ quando arriva l’amaro, abbastanza intenso e lungo, nel quale s’intrecciano note vegetali, resinose e di scorza d’agrumi. Il passaggio dolce-amaro è abbastanza brusco e poco armonioso, ma soprattutto non c’è la struttura necessaria a reggerlo. Il finale è praticamente una spremuta di verde che affligge un po’ il palato richiedendogli tempo per riprendersi e di fatto rallentando il ritmo di bevuta di una session beer. Il risultato mi sembra interessante  con un rapporto alcool-intensità inversamente proporzionale: bisognerebbe solo trovare il modo di renderla più gentile ed educata, iniziando ad abbassare il livello di un amaro che personalmente reputo eccessivo in una birra così leggera.

Dall’estremo inferiore passiamo a quello superiore della DIPA Citra Enigma (8.5%), uno degli ultimi episodi nella saga delle Imperial IPA prodotte da Cloudwater. Sono stati utilizzati malti Golden Promise, Barke Pils, Destrosio, malto d’avena Golden Naked, fiocchi d’avena, lievito New England Lallemand, luppoli Citra ed Enigma in dry-hopping (25 grammi/litro), Mosaic nel whirpool, estratto di luppolo Pilgrim Alpha in Co2 per l'amaro. 
Nel bicchiere è di color arancio, opaco ma non terribilmente opalescente, mentre la schiuma biancastra è al solito un po’ scomposta e non molto persistente. L’aroma è fresco e gradevole senza raggiungere grandi livelli di pulizia: pompelmo, mango e ananas guidano le danze, la modesta eleganza non aiuta a trovare il nome per le altre componenti che agiscono in secondo piano. Uno scenario che si ripete anche al palato: qualche accenno biscottato e caramellato e poi la bevuta si dirige verso il frutto, senza tuttavia raggiungere gli estremi del “succo”: c’è una generale sensazione dolce di ananas e mango maturi, non troppo precisa, che viene poi bilanciata da un amaro resinoso di breve durata e modesta intensità. La bevuta è piacevole anche se non esplosiva o emozionante: l’alcool si sente “quanto basta” e riscalda senza disturbare, il mouthfeel è invece eccellente. Morbido, a tratti cremoso e consistente senza ingolfare il palato: perfetto per una birra che si fa sorseggiare anziché bere. Il livello è buono ma i margini di miglioramento ci sono e non è difficile notarli.
Nel dettaglio: 
Small Beer Citra Simcoe Pale, 44 cl., alc. 2,9%, imbott. 21/02/2018, scad. 21/05/2018
DIPA Citra Enigma, 44 cl., alc. 8,5%, imbott. 26/02/2018, scad. 26/05/2018

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

lunedì 26 marzo 2018

Jolly Pumpkin Bamarillo

Bam Biere di Jolly Pumpkin, Michigan, Stati Uniti: ne avevamo parlato qui. E’ una delle birre di maggior successo del birrificio guidato da Ron Jeffries che la dedica al proprio cane, un Jack Russell che venne investito da un automobile mentre attraversava la strada; si tratta secondo Jeffries di una Farmhouse Ale “autentica”, ossia dalla gradazione alcolica molto contenuta (4.5%) in modo che potesse essere plausibilmente utilizzata dai contadini per dissetarsi durante il duro lavoro nei campi senza perdere “lucidità”.  Nel corso degli anni questa birra di successo si è trasformata in una piccola serie di birre con le varianti Weizen Bam (4.5%), che il birrificio descrive come un mix tra una tradiazione Weizen tedesca ed una classica Sour Ale di Jolly Pumpkin, la Turbo Bam (4.9%) prodotta con una percentuale di malto di segale, la Bam di Castagna con aggiunta dell’omonimo ingrediente. 
A giugno 2017 è arrivata la Bamarillo: Amarillo è ovviamente una varietà di luppolo ma è anche una città del Texas, stato in cui si trovano gli armadilli. “Dall’ incontro tra Bam il Jack Russell e Ben l’Armadillo”  nasce una Bam Biere leggermente più alcolica (5,1%) nella quale viene usata una quantità dimezzata di luppoli Crystal e Cascade in favore dell’Amarillo al fine di accentuarne il carattere fruttato-tropicale. Come tutte le Jolly Pumpkin, anche il mosto di questa viene poi trasferito in foudres di legno dove riceve il lievito della casa, pazientemente elaborato in quattro anni partendo dal Belgian Ale (WLP550) di White Labs. I  batteri ed i lieviti selvaggi vengono introdotti attraverso il sistema di areazione che di notte fa circolare l’aria fresca proveniente dall’esterno sui fermentatori aperti; la birra viene infine trasferita in botte per la maturazione che dura tre mesi: è qui avviene dry-hopping di Amarillo. Nell’ultimo mese di maturazione è stata anche aggiunta della purea di ananas.

La birra.
Ricapitoliamo il modo in cui il cane Bam intende cavalcare l’armadillo Ben:  malti Pilsner, Pale, Black e Crystal 75, fiocchi d’orzo, frumento maltato, luppoli Cascade, Amarillo e Crystal, purea di ananas. 
All’aspetto è di un bel e luminoso color dorato, leggermente velato: la candida schiuma è pannosa e un po’ scomposta, ma ha un’ottima persistenza. Al naso c’è il classico carattere funky e rustico di Jolly Pumpkin al quale s’affiancano profumi di legno e paglia, limone, uva bianca, ribes, mela verde, ananas e un delicato dolce tropicale. L’aroma è pulitissimo, fresco, pieno di vita come la sensazione palatale: vivaci bollicine rendono questa Saison scattante, la consistenza leggera la fa scorre come e forse meglio dell’acqua. Ananas, pesca gialla/mango sono il dolce al quale viene affidato il compito di far da contraltare all’asprezza di uva spina, mela acerca e agrumi; è una bevuta pulitissima ed estremamente secca, dall’enorme potere dissetante e rinfrescante, grazie ad una marcata acidità. Il suo percorso si chiude con un tocco di legno e un amaro delicato nel quale convivono scorza d’agrumi, terra ed erba:  è un viaggio velocissimo, di quelli che ti lasciano il  desiderio di ripartire anziché la felicità del ricordo dei bei momenti trascorsi.  Bamarillo, splendida (quasi) session beer che finisce troppo, troppo in fretta. Più intensa e più fruttata rispetto alla Bam Biere originale, fa un uso molto intelligente della purea di frutta: da bere senza tregua, soprattutto in estate.
Formato 37,5 cl., alc. 5.1%, IBU 51, imbott. 06/2017, pagata 6,00 dollari (birrificio)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

domenica 25 marzo 2018

Lost+Found A.BL: R20 OA+S IPA & R21 64 Bit IPA


Sono riuscito a trovare davvero pochissime informazioni sul birrificio inglese Lost+Found A.BL, operativo dal 2016 in un garage della vivace Brighton con un impiantino da 20 litri; lo scorso anno co-fondatori Chris Angelkov (anche designer) e John Checkley si sono trasferiti un po' più a nord, ma sempre nel Sussex, istallando il nuovo impianto da 15 barili e linea d'inlattinamento ad Horsham. Nessuna intervista pubblicata in internet, nessun informazione su chi sia il birraio: grafiche astratte, a volte psichedeliche e nomi delle birre che spesso corrispondono ad incomprensibili serie di numeri e lettere, non facili da ricordare. Poco importa perché il birrificio si dichiara "sempre in evoluzione e pronto a seguire le tendenze", il che ovviamente si traduce operativamente nello sfornare nuove birre in continuazione per assecondare la moda del "che cosa c'è di nuovo da bere"? 
Il significato di una sigla viene comunque svelato: è la "R seguita dai numeri" che tiene il conto del numero di birre prodotte. Forse. Quasi.

Le birre.
Passiamo alla sostanza con la "R20 OA+S IPA", ovvero la ventesima birra prodotta da Lost and Found: una IPA con una buona percentuale di avena, in questo caso "Oa+s". La ricetta elenca malti Pilsner, Maris Otter, Lager, frumento maltato e non maltato, avena maltata e non maltata, lievito WLP001, luppoli Simcoe, Idaho 7, Ekuanot e Azacca. 
Il suo colore è tra il dorato e l'arancio, la schiuma è candida e cremosa, abbastanza compatta. A poco più di due mesi dalla messa in lattina l'aroma è ancora fresco e pulito anche se l'intensità è abbastanza modesta: pompelmo, mandarino, arancia, ananas, un po' di bubblegum. Un bouquet gradevole anche se potrebbe essere un po' più variegato e definito. Al palato l'avena le dona una leggera morbidezza senza rallentare minimamente la velocità di scorrimento; pane e un tocco di miele, frutta tropicale e pompelmo danno forma ad una bevuta moderatamente dolce e fruttata che viene poi bilanciata da un amaro resinoso di buona intensità ma di breve durata. L'alcool (6.2%) si sente però più del dovuto ed è forse questo il tallone d'Achille di quella che sarebbe una IPA moderna ma non estrema (leggi succo di frutta), bilanciata e abbastanza pulita. C'è potenziale ma ci sono ancora delle cose da sistemare per poter arrivare al livello di altri birrifici inglesi "lattinari" che al momento sono sulla cresta dell'onda.

R21 64 Bit è invece il nome scelto per una IPA prodotta con malti Maris Otter, Pilsner e CaraPils, frumento e avena, lievito WLP001, luppoli Mosaic, Ekuanot, Idaho 7  ed  El Dorado.
Abbastanza simile alla R20 sia nell'aspetto (oro-arancio) che nella componente aromatica (pompelmo e arancia, ananas e mango), anche lei ha circa due mesi e mezzo di vita e profumi puliti, ancora freschi ma non particolarmente intensi. Anche nel gusto ripropone caratteristiche simili: il profilo fruttato tropicale non è particolarmente intenso, pane e biscotto rimangono in sottofondo, il finale amaro di resina è di modesta intensità e di breve durata.  C'è un buon livello di pulizia ed un ottimo equilibrio, ma anche qui l'alcool (6.4%) alza un po' troppo la testa e finisce per ridurre la velocità di bevuta. C'è tutto quello che ci dovrebbe essere in una buona IPA ma in tono minore:  s'intravede la buona mano del birraio e un bel potenziale ancora parzialmente inespresso.
Lost+Found A.BL, un birrificio piuttosto giovane che non parla molto di sé ma che sembra valer la pena tenere d'occhio. 
Nel dettaglio: 
R20 OA+S IPA, formato 44 cl., alc. 6.2%, 58 IBU, scad. 08/08/2018
R21 64 Bit IPA, formato 44 cl., alc. 6.4%, 55 IBU, scad. 14/07/2018

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 23 marzo 2018

New Holland Dragon’s Milk

Di New Holland Brewing Company vi avevo già raccontato in questa occasione. Il birrificio del Michigan fondato da Brett VanderKamp e Jason Spaulding ha annunciato a fine 2017 l’arrivo delle lattine, formato che sembra ormai irrinunciabile per competere nel sempre più affollato mercato della craft beer americana. New Holland. Anche loro saranno distribuite in 38 stati americani, grazie all’accordo raggiunto nel 2016 con la Pabst Brewing Company: Pabst non ha tuttavia acquistato nessun’azione di New Holland e l’accordo riguarda esclusivamente la distribuzione. 
E’ abbastanza singolare che la flagship beer di New Holland sia un’imperial stout invecchiata in botti di bourbon e non la solita IPA o APA: la Dragon’s Milk nel 2001 era probabilmente uno dei primi e dei pochi esempi disponibili e, a memoria, era anche circondata da un timido hype essendo prodotta in quantità limitate solamente una volta all’anno. "Ci ispirammo ad un produttore di sidro del Michigan che a quel tempo ne realizzava uno invecchiato in botti di bourbon - racconta VanderKampe mi chiedevo che risultati si potessero ottenere con la birra. Pensai ad una ricetta fatta apposta per finire in botte, un ibrido tra una stout, una porter e una dark ale". 
Oggi la Dragon’s Milk rappresenta il 35% della produzione e il 50% delle vendite del birrificio ed è disponibile tutto l’anno ad un prezzo contenuto e senza che sia necessario fare file fuori dai negozi o scambi per averla. New Holland ha investito fortemente su questo prodotto aumentandone anno dopo anno la produzione grazie anche al fatto che, essendo essa stessa anche una distilleria, oltre che birrificio, ha ampia disponibilità di botti: “è un ottimo prodotto e consente sia a noi che ai rivenditori finali un buon margini di profitto”, ammette VanderKamp.  Non solo: dopo aver ospitato per tre mesi la Dragon’s Milk, le botti di bourbon vengono riutilizzate dalla New Holland Artisan Spirits per produrre il proprio Beer Barrel Bourbon. Di Dragon’s Milk ne esistono puoi svariate varianti che il birrificio fa uscire occasionalmente ogni anno: si differenziano per l’aggiunta di ingredienti o per l’invecchiamento in botti di altri distillati.

La birra.
Malti 2 row, Monaco, Caramello, Black e Chocolate, fiocchi d’orzo, luppoli Glacier e Nugget, lievito American Ale. Questa imperial stout è in realtà un blend di due birre invecchiate con diverse modalità:  una tre mesi in botti appena svuotate dal bourbon, dove l’imperial stout assorbe soprattutto le caratteristiche del distillato, e una tre mesi in botti ex-bourbon già utilizzate per la birra, in modo da assorbire maggiormente le caratteristiche del legno.   
Il suo colore è ebano scuro, la schiuma poco generosa è cremosa e compatta ed ha una discreta persistenza. Il naso è dolce e piuttosto pulito, anche se non molto intenso: bourbon, legno, fruit cake, prugna disidratata e uvetta, cioccolato, vaniglia e qualche suggestione di cocco in sottofondo.  Al palato non c’è nessuna velleità cremosa o oleosa: la scorrevolezza ne trae beneficio e l’alcool (11%) si affronta senza particolari asperità: il gusto è un po’ meno complesso e intrigante dell’aroma ma è comunque un’imperial stout  che si  sorseggia lentamente con buona soddisfazione. La bevuta è tutta basata sull’asse “dark fruits” (prugna, uvetta, mirtilli/more) e bourbon: si aggiungono altri elementi dolci come melassa e vaniglia, mentre le tostature sono praticamente inesistenti. E’ dolce ma ben bilanciata, con l’alcool che asciuga bene il palato e regala un lunghissimo finale caldo e morbido, ricco di bourbon, frutta sotto spirito, legno e un tocco di fumo/tabacco.  
Convince più al naso che in bocca (dove manca anche un po' di "ciccia") ma, pur non essendo un mostro di complessità, la Dragon’s Milk di New Holland si difende con onore: negli Stati Uniti si trova all’equivalente costo di poco più di 3 euro, una vera manna se consideriamo che si tratta di una imperial stout passata in botte. E' reperibile tutto l’anno senza problemi negli stati americani in cui viene distribuita e quindi non ha molto fascino da vendere: meglio così. Per affrontare i freddi inverni del Michigan, averne una scorta in casa è  praticamente un obbligo. Per salire di livello, anche per quel che riguarda la difficoltà d'approvvigionamento, ci sono le altre grandi Barrel Aged Imperial Stout che vengono tutte prodotte nel raggio di 150 chilometri: KBS di Founders, Black Note di Bell's e Bourbon Barrel Plead the 5th di Dark Horse.
Formato 35,5 cl., alc. 11%, IBU 31, imbott. 07/06/2017, pagata 3.79 dollari (supermercato, USA)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 21 marzo 2018

Northern Monk / Verdant / Deya / YCH Hops Hop City DIPA

Per il secondo anno consecutivo nei giorni che precedono il weekend di Pasqua, a Leeds si tiene il festival Hop City organizzato dal birrificio Northern Monk ed ospitato nei propri locali. Da giovedì 29 a sabato 31 marzo trenta birrifici provenienti da tutto il mondo faranno felici appassionati beergeeks e semplici bevitori. Il biglietto d’ingresso, che vi dà diritto solamente ad un bicchiere per la degustazione, è fissato a 16.79 sterline: due le sessioni previste per ogni giornata del festival, una mattiniera  (11:30-16) e una serale (18-22:30). Il festival è ovviamente dedicato al luppolo: se volete bere altro è meglio che attendiate l'evento Dark City che si tiene in autunno.
Duemilacinquecento i tagliandi disponibili per poter accedere ad un’offerta di 88 birre prodotte trentatré birrifici dislocati in tutto il mondo: oltre alle birre di casa di Northern Monk saranno presenti  Foam Brewers, Other Half, Bissell Brothers, Fuerst Wiacek, Mikkeller, Stigbergets, Dry & Bitter, Omnipollo, Seven Island Brewery, Equilibrium, Zapato, Burning Sky,  Brew By Numbers, Cloudwater, Magic Rock, Siren, Verdant, Track, Wylam, Beavertown, Buxton, Stone, Five Points, Fourpure, Burn Mill, Whiplash, Left Handed Giant, DEYA, Legitimate Industries, Wilde Child, Ridgeside  e Saltaire.  L’Italia è ancora una volta assente. 
Anche nel 2018 Northern Monk ha prodotto la birra “ufficiale” del festival, ovviamente chiamata Hop City; non sono riuscito a capire se si tratti di una riedizione di quella fatta per l’edizione 2017 o se i tratti di una nuova ricetta. La lattina è rivestita dalla bella “doppia etichetta apribile” realizzata dalla Jon Simmons Design & Illustration: sul lato esterno un enorme sole a forma di cono di luppolo irradia Leeds, sollevandolo troverete una seconda etichetta che riporta tutte le informazioni sul festival:  birrifici presente, mappa e date.

La birra.
I birrifici Northern Monk, Verdant, Deya e la Yakima Chief – Hopunion, noto fornitore amercano di luppolo, hanno collaborato per realizzare una Double IPA (8.4%) prodotta con Citra, Amarillo, Mosaic (cryo pellets) e una varietà sperimentale nominata HBC 438; oltre al malto sono stati utilizzati frumento maltato e avena. Ha iniziato ad essere distribuita alla metà di febbraio.  
Il suo colore è arancio pallido, opaco: la schiuma biancastra è cremosa e compatta ed ha un’ottima persistenza. L’aroma, valorizzato dalla gioventù anagrafica della lattina, è intenso e pulito: ananas, mango, cedro, pompelmo e mandarino sono accompagnati da quel “dank” che ricorda tanto la cannabis.  Sebbene molto gradevole, il bouquet non è tuttavia un manifesto d’eleganza e i vari elementi potrebbero essere più definiti. La sensazione palatale è ottima e molto gradevole: c’è una leggera cremosità che non sconfina in quegli eccessi  che riducono la velocità di bevuta. Aspetto e mouthfeel guardano al New England ma nel bicchiere io ci trovo un bel pezzo di West Coast: un tocco maltato in sottofondo (pane, biscotto)  e un bel profilo fruttato nel quale trovano posto ananas, pompelmo, mandarino, forse mango. L’alcool è piuttosto ben nascosto e questa Double IPA scorre con pericolosa facilità; chiude con una bella secchezza e un amaro resinoso/dank abbastanza intenso ma di breve durata, pronto a lasciare subito spazio ad un retrogusto “piacione” di frutta tropicale e  ad un lieve alcool warming. Non è esplosiva e potrebbe essere più definita in alcuni passaggi ma questa Hop City viaggia su alti livelli: pulita e fresca, intensa ma ben equilibrata, non scade in inutili manierismi ed estremismi privilegiando la facilità di bevuta.
Che l’Hop City 2018 abbia inizio, per chi ha la fortuna d’andarci.
Formato 44 cl., alc. 8.4%, IBU 25, lotto SYD090/091, scad. 30/06/2018

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 20 marzo 2018

Uiltje RE:RE:CC Porter

Debutta sul blog il birrificio olandese Het Ultje, attivo dal 2013 come beerfirm e dal 2016 dotatosi di impianti propri.  Het Ultje significa “piccolo gufo” ed è un richiamo al cognome del fondatore Robbert Uyleman: siamo ad Haarlem, venti chilometri ad ovest di Amsterdam. Uyleman, che in precedenza si occupava di produzione audiovisivi, ha iniziato la sua carriera nel mondo della birra come homebrewer assieme ad alcuni amici ed ha poi lavorato occasionalmente come barista e birraio presso il brewpub Jopen. 
Proprio su questi impianti è nata nel 2013 la beerfirm Het Ultje, che Robbert gestisce a 360 gradi: sua la realizzazione del sito internet, sue le grafiche delle etichette, sue le ricette delle birre nelle quali sono spesso protagonisti i luppoli americani. 
Ottenuti i finanziamenti necessari da una banca, a settembre 2016 il birrificio ha inaugurato i propri impianti (40 ettolitri) e una taproom con dodici spine aperta dal giovedì alla domenica; in centro ad Haarlem c’è invece l’Uiltje Bar, aperto a febbraio 2015 assieme al socio Tjebbe Kuijper: 30 spine e un centinaio di bottiglie vi aspettano tutti i giorni della settimana dal primo pomeriggio sino a notte inoltrata. In sala cottura ci sono attualmente i due birrai  Gido Koop e Roel Wagemans.  Sono già oltre 200 le etichette realizzate in cinque anni scarsi d’attività: quasi una birra nuova ogni settimana, ovviamente per la maggior parte collaborazioni, one shot e produzioni occasionali.

La birra.
L'etichetta della RE:RE:CC Porter raffigura una email scritta dalla mamma di Robbert; nome e grafica sono a mio parere scelte abbastanza infelici, ma la sostanza parla di una porter "robusta" prodotta con "CC", ovvero cocco e caffè. La sua prima versione, chiamata semplicemente CC Porter, risale al 2015 (7.7%); oltre a luppoli Magnum, East Kent Golding e Chinook, era stato utilizzato caffè del Guatemala e (pezzi interi?) di cocco. Nel 2016 è arrivata la sua seconda versione chiamata BCC Porter, leggermente più alcolica (8.2%) e con una diversa varietà di caffè. Entrambe erano state prodotte sugli impianti di Jopen, mentre lo scorso anno è arrivata la versione numero tre (7.7%) chiamata appunto RE:RE.CC Porter ("RE" sono ovviamente le lettere che appaiono nell'oggetto di una email ogni volta che rispondete ad un messaggio). Non ho trovato informazioni sulla ricetta ma è stata prodotta sui nuovi impianti di Uiltje.
All'aspetto è quasi nera e forma un modesto cappello di schiuma cremosa compatta dalla buona persistenza. L'aroma non è pulito e neppure particolarmente elegante ma racconta di orzo tostato, cioccolato al latte, un accenno di cocco (pensate al Bounty) e un tocco di fumo. L'intensità è bassa e nel complesso i profumi non fanno davvero nulla per ingolosire o attirare l'attenzione di chi avvicina le narici al bicchiere. Al palato è invece gradevole e l'avena le dona una discreta morbidezza leggermente cremosa. Il gusto ripropone tuttavia le approssimazioni e la poca pulizia dell'aroma; i sapori sono poco definiti e il risultato è un agglomerato bevibile e comunque gradevole di orzo tostato, caramello, liquirizia, caffè e cacao. L'alcool alza la testa solamente a fine bevuta apportando un piacevole tepore, mentre nel retrogusto ai fondi di caffè s'aggiunge anche l'amaro terroso del luppolo. Non è (fortunatamente) una pacchiana birra-dessert ma ci sono troppe imprecisioni per renderla davvero buona: una porter discreta, bevibile ma con tanta strada da fare per migliorare. 
Formato 33 cl., alc. 7.8%, lotto Y17B077, scad, 09/08/2022, pagata 3.90 euro. 

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 19 marzo 2018

Verdant Brewing: Light Bulb & Pulp!


Uno dei birrifici inglese più chiacchierati e di moda tra i beergeeks è oggi Verdant con sede operativa a Falmouth, cittadina da 20.000 abitanti della Cornovaglia; la bella e selvaggia contea inglese non è certo nota per essere una “craft beer destination” essendo patria di due birrifici di grosse dimensioni come Sharp’s e St. Austell.
E’ una vacanza in Nuova Zelanda nel 2010 a far scoprire a James Heffron la “birra artigianale” e a fargli venire voglia di farsela in casa: la passione per l’homebrewing contagia anche l’amico Adam Robertson e i due, dopo quattro anni di esperimenti tra le mura domestiche, mettono in funzione un impiantino da 200 litri posizionato all’interno di un container marittimo. Verdant nasce nell’autunno del 2014 e inizia producendo quasi esclusivamente delle Single-hop Pale Ale ispirate alle produzioni del New England, ovvero hazy; nella primavera avviene il primo trasloco in locali più ampi che permettono di installare altri fermentatori ed aumentare la capacità produttiva a 12 fusti a settimana. Nascono Lightbulb, HeadBand, Bloom e Pulp, birre che riscuotono grande successo e posizionano Verdanti sul radar dei beergeeks; alla fine del 2015 Adam e James lasciano i loro lavori per dedicarsi a tempo pieno a Verdant. Nel 2016 arriva ad aiutarli Richard White e, grazie ai fondi ottenuti da amici e parenti ai quali viene offerta una quota societaria, a ottobre Verdant è di nuovo in viaggio e si trasferisce nella sede attuale, la zona industriale di Tregoniggie a Falmouth: è qui che vengono installati il nuovo impianto da 1,6 ettolitri  (la capacità produttiva arriva a 4800 litri la settimana) e una linea per la messa in lattina. 
Il 2016 è l’anno della consacrazione per Verdant, ovviamente grazie al beer-rating: a gennaio 2017 il popolo di Ratebeer lo nomina “miglior nuovo birrificio inglese del 2016” e per  Untappd  Verdant è attualmente “il miglior birrifico inglese in assoluto”. Al successo contribuiscono anche le collaborazioni con altri birrifici di moda come Lost & Grounded, Left Handed Giant, Cloudwater e Northern Monk:  “al contrario di molti birrai ammette Heffronio presto molta attenzione a siti come Untappd e Ratebeer. Penso che sia importante”. La produzione di Verdant è quasi tutta dedicata al luppolo: le 44 birre elencate sul database di Ratebeer sono tutti APA/IPA/DIPA ad eccezione di due stout: “facciamo le birre che piace bere a noi – dice Heffron – e se qualcuno vuole bere quello che noi non facciamo, si rivolga altrove. Possiamo ancora migliorare le nostre IPA/DIPA ed è quello a cui penso prima di andare a letto la sera e la mattina quando mi alzo. Prima di fare altre stili, cerchiamo di rendere perfetto quello che stiamo già facendo”. 
Alla fine dello scorso anno Verdant ha ricevuto un finanziamento di 26.000 sterline dal distributore-rivenditore londiese HonestBrew che sarà ripagato con della birra: il denaro è stato destinato all’acquisto di nuovi fermentatori per portare la capacità produttiva a 8000 litri la settimana.

Le birre.
Andiamo ad assaggiare due delle birre che Verdant produce regolarmente quasi tutto l’anno: la (Extra) Pale Ale Light Bulb e la Double IPA Pulp: per entrambe il birrificio dichiara di essersi ispirato sia alla West Coast statunitense che al New England.  
Light Bulb è una session beer”(4.5%) “chiara come la luce di una lampadina da 100 watt”;  la sua attuale ricetta prevede malti Extra Pale Ale, Vienna, Caragold e Carapils, avena, lievito LalBrew New England, luppoli Simcoe e Centennial. Il suo colore è un arancio piuttosto pallido e opalescente, la bianca schiuma cremosa è un po’ scomposta ma ha un’ottima persistenza. L’aroma è piuttosto pulito e fresco, ma l’intensità non è particolarmente elevata. La macedonia di frutta non è molto variegata ma è composta da ananas, mango, arancia e cedro: è una session beer, nessuno si aspetta fuochi d’artificio è c’è tutto quello che ci dev’essere. Il mouthfeel è invece davvero ottimo, con una presenza e una morbidezza che sembrerebbero suggerire una gradazione alcolica molto più elevata: la scorrevolezza non è tuttavia minimamente compromessa. Il gusto compensa la “parsimonia aromatica” con un’intensità notevole che privilegia l’eleganza agli eccessi cafoni: i malti (pane e crackers) non vengono sopraffatti da pesca, ananas, mandarino e la birra finisce con una grande secchezza che disseta il palato per poi riassetarlo. L’amaro erbaceo/zesty è piuttosto delicato e non stanca mai: pulizia, equilibrio ed eleganza portano il livello piuttosto in alto, la bevuta regala anche qualche emozione e se ci fosse un po’ più d’aroma saremmo vicino all’olimpo. Ottima.

Con Pulp! entriamo nel territorio delle Double IPA (8%): la ricetta attuale dovrebbe prevedere malti Best Ale, Extra Pale, Caragold e frumento maltato, destrosio, lievito US-05, luppoli, Columbus, Eukanot e Citra, con quest’ultimo presente in larga percentuale. 
Nel bicchiere si presenta di color arancio opalescente e la schiuma biancastra, non impeccabile per compattezza, mostra comunque un’ottima persistenza.  Il naso è pulito e intenso, un cocktail fruttato che contiene ananas e mango, passion fruit, arancia: l’intensità è buona anche se non esplosiva, con un buon livello di eleganza. Anche in questa birra il mouthfeel è davvero eccellente: corpo medio, bollicine delicate, leggermente cremoso e quasi vellutato. Al palato c’è quel succo di frutta previsto dal protocollo New England: nessun spazio ai malti, ananas e mango guidano le danze lasciando un po’ di spazio al pompelmo. L’amaro (resina, zesty) è delicato e piuttosto corto, con un leggerissimo “grattino” da pellet che viene però subdolamente incorporato nella componente etilica: un bell'espediente per nasconderlo in un gradevole alcool warming. La bevibilità è buona ma non eccelsa (caratteristica che personalmente riscontro in quasi tutte le Double NEIPA) e sicuramente non ai livelli di una classica DIPA della West Coast. Anche la Pulp di Verdant ha il pregio di finire con un’ottima secchezza che fa aumentare la frequenza dei sorsi: il livello è sicuramente alto, le NEIPA in generale non sono la massima espressione dell’eleganza birraria e anche in questo senso ci sono ancora margini di miglioramento.  
Da Verdant due birre di ottimo livello: non m’interessa molto determinare se l’hype (britannico) su questo birrificio sia giustificato o no: se Cloudwater viene incensato, queste due birre di Verdant non hanno nulla da invidiare. La Pulp è (ovviamente) quella che riscuote più successo tra i beer-raters ma personalmente ritengo molto più interessante la Light Bulb, una session beer davvero degna di nota.

Nel dettaglio:
Light Bulb, formato 44 cl., alc. 4,5%, imbott. 31/01/2018, scad.  30/04/2018
Pulp! formato 44 cl., alc. 8,0%, imbott. 08/02/2018, scad.  08/05/2018

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 18 marzo 2018

DALLA CANTINA: Dieu du Ciel Solstice d'Hiver 2012

Un nuovo appuntamento con il vintage è l'occasione per ritrovare il birrificio canadese Dieu du Ciel, attivo dal 1988 a Montreal; lo fondarono Jean-François Gravel, Patricia Lirette e Stéphane Ostiguy, compagni di studi (microbiologia). "Dieu De Ciel!" sarebbe stata l’esclamazione di Jean-François dopo aver assaggiato la sua prima birra fatta in casa. Patricia Lirette lasciò la società nel 2006, rimpiazzata (anche nell’azionariato) dal birraio Luc Boivin, esperienza decennale alla Les Brasseurs du Nord.  
Boivin e la moglie Isabelle Charbonneau formarono la Dieu Du Ciel Microbrewery Inc., un primo passo del necessario processo di espansione visto che la produzione nei modesti locali del  brewpub di Montreal non poteva più essere incrementata e non c'era neppure lo spazio per installare una linea d’imbottigliamento. Venne trovato un nuovo edificio (16.000 metri quadri) a St. Jerome, 60 chilometri a nord di Montreal, vicino a casa di Luc ed Isabelle,  inaugurato nel 2007 con un potenziale produttivo di 3500 hl. Nello stesso anno vennero finalmente distribuite le prime bottiglie, mentre nel 2008, attiguo al nuovo birrificio, fu inaugurato un brewpub-fotocopia di quello di Montreal; attualmente gli impianti di St. Jerome producono circa 13000 ettolitri. Nel 2010 Bouvin ha lasciato Dieu Du Ciel per fondare in Quebec la Microbrasserie des Beaux Prés. 

La birra.
Nasce nel dicembre 1998 il barley wine Solstice d'Hiver ed ancora oggi viene commercializzato una volta all'anno in quello stesso mese, nell'ambito della Moumentum Series che racchiude le dodici birre stagionali di Dieu Du Ciel. La splendida etichetta è realizzata da Yannick Brosseau, da sempre collaboratore del birrificio.
Vediamo come ha resistito nel tempo questa Solstice d'Hiver anno 2012 che si presenta di un bel color ambrato piuttosto carico ed arricchito da intense venture rossastre; la schiuma non è molto generosa ma rivela compattezza e persistenza. L'aroma è intenso ma mostra già tutti i segni del tempo; l'ossidazione (cartone) è evidente ma non pregiudica un naso gradevole e ricco di prugna cotta, uvetta, mela al forno, vino marsalato, melassa, forse ciliegia. Al palato la birra ha ancora una buona presenza e non mostra particolari cedimenti: il mouthfeel è ancora piacevole. L'aroma è tuttavia l'unica cosa che vale la pena di descrivere, perché non sono proprio riuscito a berlo questo barley wine. Il gusto è infatti praticamente assente, se se eccettua un remoto ricordo degli stessi elementi protagonisti dell'aroma: la bevuta è praticamente un bicchiere d'alcool che si conclude in modo sgradevole con note medicinali che s'affiancano all'amaro di ortaggi come indivia, cicoria, radicchio. Un paio di sorsi e non resta che versarla nel lavandino. Invecchiare la birra equivale a gioie e dolori e in questo caso avrei fatto meglio a stappare questa bottiglia qualche anno fa.
Formato 34,1 cl., alc. 10.2%, lotto 10/2012, pagata 6.00 euro (beershop)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 16 marzo 2018

Brasseria della Fonte Caffè Doppio

Ultimi mesi ricchi di “oscure novità”, se mi passate il termine, per la Brasserie della Fonte guidata dal birraio Samuele Cesaroni: ve l’avevo presentata in questa occasione. Lo scorso novembre è arrivata l’imperial stout Raven & Demise (10%), a fine gennaio è stata presentata a Birraio dell’Anno la “sorella” Mezzanotte (9.5%)  e un mese fa è venuta alla luce la “più piccola” Caffè Doppio. 
Parliamo proprio di quest’ultima, “liberamente ispirata ad una birra che il birraio non ha mai bevuto ma che sogna di bere, ovvero la Good Morning! del birrificio Tree House”; per chi (me incluso) non la conosce, si tratta di una Imperial Coffee Stout  “delicata” (8.4%) prodotta con sciroppo d’acero. La ricetta della Caffè Doppio, disponibile sul sito del birrificio come quelle di tutte le altre birre, prevede malti Pale, Brown, Roasted, Special B, Chocolate, Crystal DRC e fiocchi d’avena, zucchero candito, luppolo Warrior e lievito Atecrem American Ale; estratto di caffè freddo viene aggiunto   post-fermentazione e pre-imbottigliamento, mentre per la rifermentazione viene usato lievito F2 e sciroppo d’acero (grado A). “La nostra idea  - racconta Samuele - è quella di creare un gusto che unisca la freschezza di una crema di caffè fredda, con la dolcezza dello sciroppo d’acero, che mescolandosi insieme creano un sapore di cioccolato al latte, melassa e cacao in polvere”. Gli abbinamenti (musicali) consigliati sono  Journey to the End dei Windir e Nattens Madrigal degli Ulver.

La birra.
Il suo aspetto è impeccabile: nera e adornata da un bel cappello di schiuma fine, cremosa e compatta dalla buona persistenza. Ad una birra che si chiama Caffè Doppio non puoi che chiedere caffè in abbondanza e questo ingrediente è assoluto protagonista dell’aroma, sia in forma liquida che macinata: con buona pulizia ed eleganza, viene affiancato da note terrose, di cuoio, di cioccolato fondente e una componente dolce formata da zucchero caramellato e sciroppo d’acero.  Ancora più in sottofondo si scorge anche un filo di fumo. La sensazione palatale è piuttosto gradevole: non ci sono densità ingombranti e l’avena le dona una morbidezza quasi vellutata senza interferire con la scorrevolezza. Un tocco di caramello brunito e di sciroppo d’acero sono a supportare l’amaro del caffè e del torrefatto, veri protagonisti di questa stout, con il primo dei due a fare da mattatore;  nei dettagli si annidano note terrose e di cuoio, cacao amaro. L’amaro s’intensifica ulteriormente nel finale grazie anche all’apporto di una generosa luppolatura, l’acidità di caffè e malti scuri aiutano ulteriormente a ripulire il palato prima di un retrogusto abbastanza lungo ma duro e un po’ ruvido, con fondi di caffè e intense tostature. E’ proprio qui che forse si potrebbe portare ancora più in alto il livello di una stout di per sé già piuttosto buona: una conclusione un po’ più elegante e accondiscendente secondo me non potrebbe che giovarle. 
Pulito e ben eseguito  il Caffè Doppio di Brasserie della Fonte tiene fede al suo nome: astenetevi se non vi piace il caffè perché qui ce n’è davvero tanto e potreste anche farci colazione. Per tutti gli altri sarà invece una bevuta ampiamente soddisfacente. 
Formato 33 cl., alc. 7.7%, IBU 45, lotto 07-18, scad. 05/02/2019, prezzo indicativo 6.00 euro (beershop)

NOTA:  la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio della bottiglia in questione e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 15 marzo 2018

East London Nightwatchman

East London Brewery apre le porte a settembre 2011 nel Fairways Business Park di Leyton, periferia nord-orientale di Londra: per darvi qualche coordinata, siamo quattro chilometri a nord del beermile di Hackney (dove trovate Redchurch, London Fields, Pressure Drop, Howling Hops e Five Points) e cinque chilometri a sud dal quartier generale di Beavertown. La aprono la coppia di quarantenni Stuart Lascelles e Claire Ashbridge-Tomlinson, entrambi insoddisfatti della propria vita lavorativa: Stuart lascia il suo lavoro di chimico e decide di trasformare il proprio hobby dell’homebrewing in una professione.  Contrariamente ai tanti protagonisti della new-wave brassicola della capitale del Regno Unito, East London sceglie di portare avanti la tradizione anziché buttarsi sull’emulazione di quello che avviene in territorio statunitense.
L’impianto originale da 16 hl è ancora in uso e la capacità produttiva è stata aumentata aggiungendo nel corso degli anni altri fermentatori in locali adiacenti: le birre sono principalmente distribuite in cask ma nel corso degli anni si sono aggiunti anche fusti, bottiglie e, di recente, anche le lattine. La settimana scorsa Lascelles ha annunciato di essere alla ricerca di finanziamenti per 500.000 sterline per poter raddoppiare la capacitò produttiva e costruire una taproom da affiancare al piccolo negozio dove attualmente potete fare acquisti. Il debutto di ELB è avvenuto con la Foundation Bitter seguite da altre quattro birre “sessionabili”:  le bitter Ear Blend e Nightwatchman, le Golden Ale Jamboree e Pale Ale. In seguito è arrivata Quadrant, una Oatmeal Stout. Tutte disponibili nel classico formato da mezzo litro che rimpiazza quello da trentatré abbracciato dalla craft beer revolution Britannica.

La birra.
Sembrerà paradossale ma non è facile trovare birre tradizionali inglesi prodotte da birrifici inglesi della nuova onda; ben venga quindi East London con questa Nightwatchman, una “dark bitter” che il birrificio definisce “ben luppolata ma più dolce della flagship bitter chiamata Foundation”. 
Nessuna informazione disponibile sugli ingredienti utilizzati: nel bicchiere è di un color ambrato molto carico, prossimo all’ebano e illuminato da intensi riflessi rosso rubino. Cremosa e compatta, la schiuma biancastra mostra un’ottima persistenza. L’aroma è pulito e abbastanza intenso per lo stile: frutti rossi, ciliegia e prugna sono poi incalzati da profumi terrosi e di frutta secca a guscio, biscotto. Il mouthfeel è morbido e scorrevole, anche se in qualche passaggio c’è una sensazione watery/annacquata un po’ troppo presente. E' comunque una session beer di discreta intensità il cui gusto segue con fedeltà l’aroma: biscotto, caramello, ciliegia e prugna, un finale amaro piuttosto intenso nel quale s’incontrano note terrose e di frutta secca, un po’ di tè, una lieve astringenza.  Il passaggio dolce-amaro è forse un po’ troppo brusco e potrebbe essere più armonioso; nel complesso molto pulita, ha ancora qualche spigolo da limare per farsi voler davvero bene. Il carattere “british” è un po’ irrequieto e una maggiore flemma soprattutto a fine corsa le gioverebbe sicuramente. 
Formato 50 cl., alc. 4.5%, imbott. 24/05/2017 (?), scad. 05/2020 (?).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 14 marzo 2018

Mukkeller Beach Boys Pils

Ritorna sul blog il birrificio Mukkeller, attivo dal 2010 a Porto Sant'Elpidio (Marche): l’avevamo già incontrato con la Double IPA Hattori Hanzo e con la doppelbock Devastator Mukkeller è Marco Raffaeli: "mukka" è il suo soprannome sin da bambino al quale lui ha voluto affiancare lo stile brassicolo da lui prediletto: le Kellerbier tedesche.  Il suo è un percorso che accomuna quello di molti birrai c che parte dalle prime birre da kit fatte in casa per "evolversi" nelle produzioni all-grain, passando dalle pentole ad un mini impianto professionale. I genitori vanno in pensione e cessano l’attività di famiglia: per Marco è il momento di diventare imprenditore di se stesso e, dopo alcuni stage presso microbirrifici italiani parte l’avventura Mukkeller. Nel birrificio “familiare” fa quasi tutto da solo con l’aiuto del fratello e del padre, che assieme a lui imbottigliano le prime cotte: la tradizione tedesca è quella che guida i primi passi ma ben presto arrivano anche i luppoli americani, il Belgio e l’Inghilterra.  
E Mukkeller ha svolto un bel percorso di crescita che gli ha portato numerosi riconoscimenti a Birra dell'Anno: poche settimane fa, nell’ultima edizione, ha conquistato il primo posto con la Mukkamannara nella categoria 28 (birre scure, alta fermentazione, alto grado alcolico di ispirazione belga), il  terzo con la Devastator nella categoria 7 (birre chiare, ambrate e scure, bassa fermentazione, alto grado alcolico di ispirazione tedesca) e con la Hattori Hanzo nella 13 (birre chiare e ambrate, alta fermentazione, alto grado alcolico, luppolate, di ispirazione angloamericana  - Double IPA), la menzione d’onore con la Nonnukka in categoria 4 (birre chiare e ambrate, alta fermentazione, basso grado alcolico di ispirazione anglosassone).

La birra.
La Beach Boys Pils nasce nell’ottobre del 2016 da una collaborazione con l’Old Spirit Authentic Football Pub, un locale a San San Benedetto del Tronto nel quale potete dissetarvi scegliendo fra tredici spine di cui due a pompa inglese e un centinaio di bottiglie; Mukkeller è ovviamente una presenza fissa.  Se non erro per questa West Coast Pilsner sono stati utilizzati luppoli americani Amarillo e Citra. 
Il suo colore è un bel dorato, leggermente velato e movimentato da riflessi quasi verdognoli; la bianca schiuma, cremosa e compatta, ha un’ottima persistenza.  L’aroma cerca di coniugare la delicatezza e la “nobiltà” di una Pils classica con l’esuberanza dei luppoli americani: il risultato è soddisfacente e non scade in eccessi cafoni,  anche se i luppoli dominano la scena oscurendo i malti:  pompelmo, cedro, limone e lime regalano freschezza e pulizia, un velo dolce di frutta tropicale passa in sottofondo.  La sensazione palatale è gradevole ma forse un pochino più ingombrante a livello tattile rispetto a quella che mi aspetterei di trovare in una Pils: la scorrevolezza non incontra problemi ma non è a livelli record.  Pane e crackers costituiscono il delicato supporto ad una generosa luppolatura che riporta subito il gusto sui binari dell’aroma: tanta scorza d’agrumi, bevuta molto secca e rinfrescante, un finale nel quale il livello d’amaro fa un ulteriore passo in avanti aggiungendo note vegetali, quasi resinose/balsamiche. La scia amaricante finale è piuttosto intensa e il palato ci mette un po’ a smaltirla: dopo tutto staremmo parlando di una variazione sul tema Pils e non di una cosiddetta IPL (India Pale Lager).  Pulizia e freschezza sono ad ottimi livelli e la birra è indubbiamente molto ben fatta: per il mio gusto personale abbasserei però un pochino il livello d’amaro, al fine di ottenere maggior equilibrio tra luppoli, malti e  - ultimo ma non meno importante - velocità di bevuta.
Formato 50 cl., alc. 5.3%, lotto 1804, scad. 06/2018, prezzo indicativo 5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 13 marzo 2018

Spencer Trappist Ale

Correva l’ottobre del 2013 e al mondo veniva annunciata la nascita del primo birrificio trappista al di fuori del continente europeo: l’abbazia di St. Joseph a Spencer (Massachusetts) fondata nel 1950 avrebbe iniziato a produrre birra. Lo sbarco di monaci trappisti sul suolo americano (Nuova Scozia) risale tuttavia all’inizio del diciannovesimo secolo, e per chi volesse saperne di più segnalo questa pagina
Padre Isaac Keeley, che oggi dirige il birrificio, ammette che l’idea nacque nell’anno 2000 quando i frati iniziarono a pensare a nuovi metodi di autofinanziamento; la produzione di prodotti caseari, marmellate e conserve (Trappist Preserves) non era infatti più sufficiente a garantire la sopravvivenza del monastero. Il birrificio tuttavia non convinceva molto l’abate e per fargli cambiare idea Isaac chiese a Dann e Martha Paquette della beerfirm Pretty Things Beer & Ale Project di realizzare un piccolo lotto di una birra d’ispirazione trappista da regalare all’abate per Natale. Evidentemente il regalo fu gradito e il progetto-birificio venne presentato alla città di Spencer nel 2011 e fu approvato nel 2013, anno in cui iniziarono i lavori di costruzione, 3500 metri quadrati di spazio e impianto Sabco. Nel frattempo due frati americani passarono sei mesi in in Belgio a visitare tutti i birrifici trappisti e fare una sorta di apprendistato. Ad avviare la nascente Spencer Brewery viene chiamato l’esperto ingegnere belga Hubert de Halleux: a lui il compito di elaborare la ricetta di una birra trappista “belga” con ingredienti americani.  Dopo ventiquattro tentativi, destinati al consumo interno, arriva finalmente la versione definitiva della Spencer Ale, una tradizionale patersbier quotidiana che debutta ufficialmente a gennaio 2014. 
A produrre le birre, ovviamente sotto la supervisione dei monaci, c’è oggi il birraio Larry Littlehale, un americano diplomatosi in Germania dove ha lavorato per venti anni; ad aiutarlo otto frati. 4500 gli ettolitri prodotti il primo anno con l’obiettivo di arrivare in fretta a 12000. Dopo l’approvazione qualitativa della birra da parte dell’Associazione Internazionale Trappista, Spencer viene autorizzato ad utilizzare il  logo "Authentic Trappist Product"; inizialmente sembra che ci fosse il vincolo di produrre una sola birra per i primi cinque anni, ma evidentemente non era così perché nel 2015 il birrificio ha realizzato la Spencer Holiday Ale, una strong ale “natalizia” (9%) seguita nel 2016 dalla prima India Pale Ale trappista (7.2%, luppoli Perle, Apollo, Cascade), dalla prima Imperial Stout trappista (8.7%) e dalla prima Pils trappista (Feierabendbier, 4.7%).  Nel 2017 sono poi arrivate la Trappist Festive Lager  (7.5%), la Monks' Reserve Ale (quadrupel, 10.2%) e le versioni barricate di IPA ed Imperial Stout. Qualche settimana  fa ha invece debuttato la Spencer Peach Saison (4.3%) che credo possa essere definita la prima “fruit beer” trappista.

La birra.
I frati non sono molto chiacchieroni sulla ricetta della propria Trappist Ale: si limitano a citare luppoli provenienti dalla Yakima Valley (Willamette e Nugget, ma non solo), un mix segreto di malti  a 2 e 6 righe  (Monaco del Wisconsin, ma non solo) e un ceppo di lievito proprietario.  
Il suo colore è un arancio velato piuttosto carico: la schiuma biancastra è vivace, pannosa e compatta ed ha un’ottima persistenza. Frutta secca a guscio, biscotto e zucchero candito formano un aroma “belga” che s’arricchisce di profumi floreali, di pasticceria e di una delicata speziatura.  La bevuta è abbastanza agile, vivacemente sospinta dalle bollicine, il corpo è medio.  La scuola belga si ritrova anche al palato, con una bella base maltata di caramello, il biscotto che ricorda quasi gli speculoos, lo zucchero candito e qualche indizio di panettone; c’è la marmellata d’albicocca, una delicata speziatura e un finale delicatamente amaro di mandorla e nocciola. C’è equilibrio, la giusta attenuazione, l’alcool è ben nascosto e nel complesso questa trappista americana è una birra tecnicamente ben fatta, alla quale forse manca ancora un pochino di cuore o d’anima, quelli per intenderci che riscaldano altre patersbier come ad esempio Westvleteren 6, Chimay Dorée e Westmalle Extra.
Formato 33 cl., alc. 6.5%, lotto F27, scad. 17/03/2019, prezzo indicativo 4.50 -5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 12 marzo 2018

Westbrook Siberian Black Magic Panther

Westbrook Brewing viene fondata nel dicembre 2010 da Edward e Morgan Westbrook, marito e moglie che grazie ad una campagna di equity funding riescono a racimolare gli investimenti necessari per acquistare un terreno nel sobborgo Charleston di Mount Pleasant, Carolina del Sud; ne avevamo già parlato in questa occasione.  
La birra di oggi è l’imperial stout Siberian Black Magic Panther e non è certamente la birra più famosa di Westbrook, nota soprattutto per la Mexican Cake Imperial Stout e – per quel che riguarda il beergeekismo -  le sue versioni Barrel Aged. Birre che circolano ovviamente sul mercato nero a prezzi abbastanza elevati e Westbrook sembra essersi allineata alle speculazioni. Presso la taproom potrete infatti acquistare (solo per consuno in loco) alcune bottiglie da 66 cl. d’annata per qualche centinaia di dollari l’una, come ad esempio Mexican Cake invecchiata in botti di Pappy Van Winkle (2015) o in botti di Bourbon che hanno ospitato più di recente sciroppo d’acero (2016). 
Lo scorso novembre le quattro varianti Barrel Aged 2017 della Mexican Cake erano acquistabili solamente in un set da dieci bottiglie miste per un valore totale di 300 dollari, ovvero 30 cadauna. Quasi un favore a chi volesse poi rivenderle sul mercato nero: una volta fatto l’investimento iniziale di 300 dollari, potevate poi cercare di rivendere alcune bottiglie sul mercato secondario per rientrare della spesa e bere le vostre “gratis”, se non guadagnandoci qualcosa. Inutile dire che le prenotazioni dei set sono andate subito esaurite.
La Siberian Black Magic Panther non ha lo stesso fascino della Mexican Cake tra i beergeeks ma anche lei dispone di tre varianti barricate: Apple Brandy (2013), Bourbon Barrel (2014) e Rum Barrel (2017).

La birra.
Montagne di malti tostati e zucchero candito scuro: queste le uniche informazioni rivelate da Westbrook sulla ricetta di una birra che viene definita (sic) “pelosa come un siberiano… o come una pantera”. 
Il suo aspetto è inappuntabile: nera, bella testa di schiuma cremosa e compatta dall’ottima persistenza. L’aroma è dolce, caffè e orzo tostato sono avvolti da zucchero candito, caramello e cioccolato, biscotti leggermente bagnati nell’alcool; l’intensità è discreta, e sebbene l’aroma sia nel complesso gradevole, pulizia ed eleganza mostrano ampi margini di miglioramento.  Lo zucchero candito scuro  fa pensare subito alla scuola belga ed il mouthfeel sembra adeguarsi: nessuna viscosità, la sensazione palatale è quasi vellutata e molto morbida, le bollicine un po’ più presenti di quello che vi aspettereste in una imperial stout da 12%. Per il mio gusto personale manca un po’ di “ciccia.  Il gusto ripropone l’aroma disegnando una birra inizialmente dolce di caramello e zucchero candito, biscotti e melassa, poi bilanciata dall’amaro del torrefatto e del caffè. L’alcool è forse sin troppo timido ed esce solamente a fine corsa quando la frutta sotto spirito accompagna il cioccolato il caramello e le delicate tostature. 
La “pantera nera siberiano” di Westbrook risulta in verità abbastanza docile: bilanciata ma orientata al dolce, piuttosto facile da bere grazie ad un mouthfeel poco impegnativo che non asfalta il palato. Il livello è buono ma pulizia e finezza potrebbero essere migliori: il risultato è un "amalgama" gradevole nel quale i singoli elementi non riescono ad emergere con la necessaria chiarezza.
Formato 65 cl., alc. 12%, imbott. 20/02/2017, prezzo indicativo 16.00-19.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 11 marzo 2018

Beavertown / Verdant: Shut Up And Play The Hits Double IPA

Collaborazioni, collaborazioni, collaborazioni: la craft beer sembra non poter far a meno di domandarsi "che cosa c'è di nuovo?" (anziché "che cosa c'è di buono?") e i birrifici, sopratutto quelli "alla moda", devono  sottostare a queste regole. Lo ha capito benissimo Beavertown, che prosegue senza sosta a sfornare novità, one shot e collaborazioni: questa ultime hanno un peso particolarmente rilevante nella gamma del birrificio di Londra, tanto che sono state inventariate in questa pagina
Tra le ultime birre realizzate a quattro mani c'è la Double IPA "Shut Up And Play The Hits", nome credo ispirato all'omonimo documentario sul gruppo musicale LCD Soundsystem, peraltro protagonista di un'altra birra prodotta da Wylam, la 45:33. Il partner scelto da Beavertown è il birrificio Verdant (Falmouth, Cornovaglia), un altro nome caldo sulla lista dei beergeeks inglesi e non solo: avremo modo di conoscerlo meglio nelle prossime settimane. 
L'etichetta non lo elenca tra gli ingredienti ma ci dovrebbe essere la purea di mango in questa Double IPA (8.8%) realizzata lo scorso gennaio la cui ricetta prevede malti Golden Promise e acidulo, avena maltata, frumento maltato e malto d'avena decorticato Golden Naked Oats; il lievito è Lallemand New England, i luppoli Columbus, Simcoe, Bru-1, Eureka e Galaxy.

La birra.
I talebani della freschezza diranno che due mesi dalla messa in lattina sono troppi ma il mio pensiero è che se in otto settimane la birra ha perso vigore e vitalità c'è qualcosa da rivedere a monte, non a valle. 
Ad ogni modo, la Shut Up di Beavertown/Verdant rispetta il "protocollo hazy" con un (bel?) color arancio opalescente e una testa di schiuma biancastra un po' scomposta ma dalla buona persistenza, per lo stile. Passi che le New England IPA non siano famose per l'eleganza, ma per lo meno l'aroma dovrebbe essere una bella macedonia di frutta tropicale: in questo caso l'intensità è solo discreta, il mango è accompagnato da un po' di passion fruit, forse anche melone retato. Non c'è molta freschezza, non c'è quella sensazione di frutta appena tagliata e il gusto prosegue in questa direzione. Il mango è protagonista, affiancato da ananas e qualche nota di arancia e pompelmo; l'alcool sostiene la bevuta con vigore facendosi sentire soprattutto nel finale, quando arriva anche un lieve bruciore "vegetale", o effetto pellet che dir si voglia. E' l'unica debole avvisaglia di amaro in una birra che ne è praticamente scevra; la sensazione palatale, morbida e leggermente chewy, fa il suo dovere. Ma nel complesso questa Shut Up mi pare una birra poco pulita, sgraziata, benché bevibile: fallisce anche nel suo intento di voler essere un succo di frutta. Una birra inutile e noiosa, da due birrifici di questo calibro c'era d'aspettarsi ben altro. Non per fare il nazionalista, ma quest'altra Double IPA al mango italiana la guarda dall'alto in basso.
Formato 33 cl., alc. 8.8%, lotto 10/01/2018, scad. 10/04/2018, prezzo indicativo 6.00-7.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 9 marzo 2018

DALLA CANTINA: Retorto Malalingua 2013

Malalingua è il barley wine che il birrificio piacentino Retorto, guidato dai fratelli Marcello, Monica e Davide Ceresa, presenta per la prima volta nel 2013; uno stile abbastanza di nicchia per i consumi del mercato italiano (e non solo) che tuttavia ottiene subito un bel risultato piazzandosi al primo posto del CIBA (Campionato Italiano delle Birre Artigianali), concorso organizzato dall'Associazione Degustatori Birra e celebrato all’interno dell’IBF – Italian Beer Festival. In quell’edizione (anno 2014) Malalingua risultò non solo il miglior barley wine in concorso, davanti alla Draco di Montegioco e alla BB Evò di Barley, ma anche la miglior birra dell’intera manifestazione, precedendo la Verdi Imperial Stout del Ducato e la B Space Invaders di Toccalmatto. Retorto bissò così il successo ottenuto l’anno precedento con la strong ale Black Lullaby
Malalingua è anche l’apripista per gli esperimenti in botte di Retorto: la sua versione invecchiata dodici mesi in un caratello di Vin Santo diventa Malanima. Qualche tempo dopo arriveranno la Marsellus W. (ovvero la tripel Vincent Vega invecchiata in sei botti di rum, non rifermentata) e la Mia W. (tripel invecchiata in quattro botti di whisky, due delle quali torbato, anch’essa non riferimentata).

La birra.
Il birrificio definisce Malalingua come “raffinata, mondana, da meditazione”. Personalmente preferisco sempre far fare ai barley wine qualche anno di cantina; in questo caso sono stati quasi cinque. Troppo? Vediamolo aprendo una Malalingua 2013 nella bottiglia allungata da mezzo litro tipica dei vini liquorosi o passiti. 
Nel bicchiere si presenta piuttosto torbida e di color ambrato; le poche bolle grossolane che si formano in superfice si dissipano alquanto velocemente.  L’aroma è ancora piuttosto intenso: profumi di pera e vino liquoroso/marsalato, uvetta, ciliegia, un pochino di cartone bagnato in sottofondo. Nonostante la ricchezza non c’è molta eleganza e gli aromi sono un po’ troppo “sparati” e disarmonici. Al palato è quasi piatta e l’età si fa sentire in un mouthfeel un po’ scarico e slegato in alcuni passaggi. Il gusto ripropone pregi e difetti dell’aroma: intensità (uvetta, prugna), note di vino marsalato e un rinfrancante tepore etilico che viene fuori soprattutto nel finale e che accompagna per diversi minuti chi ha il bicchiere in mano. Ma l’ossidazione porta anche qualche inconveniente (cartone, ematico) che, pur non rendendo questo barley wine troppo problematico, riduce indiscutibilmente il piacere di sorseggiarlo.  
Una bottiglia che ha già passato il suo periodo migliore e che è ben avviata verso il tramonto:  del resto affidare le birre alla cantina è spesso un’incognita e in questo caso sarebbe stato meglio stapparla prima. 
Formato 50 cl., alc. 12%, IBU 58, lotto 13057, scad. non riportata, prezzo indicativo 12,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.