giovedì 31 maggio 2018

Northern Monk / Other Half / Equilibrium Patrons Project 13.01 Infinity Vortex

Una parte della craft beer vive di facili entusiasmi e di mode che consumano una novità dietro l’altra a ritmo sempre più veloce. La domanda alla quale i birrifici di tendenza sono chiamati a rispondere non è “che cosa c’è di buono?” ma  “che cosa c’è di nuovo?”. Leggere varianti della stessa ricetta, limited edition e collaborazioni con altri birrifici sono lo strumento ideale per soddisfare le richieste del mercato e, contemporaneamente, guidarne le tendenze: nuove belle etichette, meglio se appiccicate su di una lattina, ed il prodotto è servito. 
Fortunatamente non tutta la birra è questo, ma è innegabile che questo muova una buona parte di business: i social network sono  lo strumento ideale per propagare rapidamente le nuove birre generando subito la corsa all’acquisto da parte di chi vuole seguire la moda. In Europa ancora non abbiamo raggiunto alcuni eccessi della scena craft statunitense, nella quale centinaia di persone si mettono in coda davanti ad un birrificio la notte prima della release di una nuova birra. O pagano persone (i “muli”) per farlo. Spesso acquistano birre che neppure berranno solamente per venderle a prezzi maggiorati sul mercato secondario. 
Non è dunque questo quello che è accaduto all’uscita di una delle ultime birre del birrificio inglese Northern Monk: l’entusiasmo dei beergeeks sui social network ha tuttavia contribuito a farne esaurire rapidamente le scorte in tutta Europa e anche l’Italia, nel suo piccolo, ha in parte contribuito. Del progetto Patrons Project di Northern Monk avevamo già parlato in questa occasione, così come del festival Hop City che il birrificio di Leeds organizza ogni anno. 
Ed è proprio all’ultima edizione di questo festival che si è materializzata questa collaborazione a sei mani chiamata  Infinity Vortex: tra gli invitati alla Hop City 2018 vi erano infatti i birrifici americani Other Half ed Equilibrium. Northern Monk ed Other Half avevano già collaborato nel 2017 realizzando con ciliegie e caffè l’imperial porter Leeds Lurking ma questa volta vogliono produrre qualcosa di luppolato. Nasce così la una DDH IPA (ovviamente New England style) nella quale sono protagonisti luppoli Citra (30 g/l), El Dorado e Cashmere. La splendida etichetta è realizzata dall’artista di strada polacco Tankpetrol che aveva già lavorato alla grafica della IPA Projects 2.03 City of Industry.

La birra.
Protocollo New England / Juicy rispettato: nel bicchiere ricorda un torbido succo e di frutta e la schiuma, un po’ scomposta, è rapida a dissolversi. L’aroma è fresco ed esplosivo ma come spesso accade con queste birre l’eleganza lascia un po’ a desiderare: c’è comunque quanto basta per restare piacevolmente sorpresi. Tanto ananas, un po’ di mango, forse passion fruit, pompelmo zuccherato. Al palato c’è quella sensazione chewy (masticabile) tipica delle NEIPA: morbida al palato, poche bollicine, gradevole ma ovviamente un po’ penalizzata per quel che riguarda la scorrevolezza.  La bevuta è perfettamente coerente con l’aroma, un succo di frutta all’ananas nel quale fa capolino un po’ di mango e di pompelmo; nel finale c’è un amaro resinoso di breve durata, ma dall’intensità un po’ superiore a quello solitamente riscontrato nelle NEIPA. E’ qui che viene a galla qualche problemino, con qualche nota vegetale che “raschia” un pochino in gola mescolandosi al lieve tepore etilico (7.4%). Niente di drammatico, sia chiaro, ma impossibile negarne la presenza. 
Questa Infinity Vortex  anglo-americana non suscita in me grandi entusiasmi ma è indubbiamente un’ottima bevuta se siete amanti dello stile: pulizia ed eleganza non sono encomiabili ma ho sinceramente visto molto di peggio in questo tipo di birre. Facile da bere, o meglio da sorseggiare, ma non al livello di alcune NEIPA americane che mi è capitato di bere recentemente: quelle di Old Nation e proprio quelle di Equilibrium coinvolto anche in questa ricetta.
Formato 44 cl., alc. 7.4%, lotto SYD 116/117, scad. 01/08/2018, prezzo indicativo 8.00-9.00 euro (beershop).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 30 maggio 2018

Jackie O's Bourbon Barrel Champion Ground

Ritrovo sempre con piacere Jackie O’s Pub & Brewery (qui la storia), birrificio dell’Ohio che negli ultimi mesi è transitato sul blog con buona frequenza anche a causa delle ammissioni del fondatore Art Oestrike, costretto a dichiarare possibili infezioni su un certo numero di bottiglie prodotte nel 2017, alcune delle quali arrivate anche in Europa.  La birra di oggi (la imperial stout Bourbon Barrel Champion Ground) è fra queste e quindi conviene anticipare la bevuta per  cercare di limitare i possibili danni.
“In birrificio ascoltiamo molte musica reggae e l’accompagniamo con buone dosi di caffè” dicono alla  Jackie O's. “Avevamo una imperial stout che stava invecchiando in botti ex-bourbon da 11 mesi ma che aveva bisogno di qualche aggiustamento. Così la torrefazione  Stauf’s Coffee Roasters di Athens ci fornì  del caffè giamaicano varietà Blue Mountain”. 
Sull’etichetta viene raffigurato il negozio di dischi ambulante Swing a Ling di proprietà di Charlie Ace. Charlie era un Dj giamaicano attivo a partire dalla fine degli anni ’60: la figura del Dj giamaicano non è da confondere con quella del DeeJay che conosciamo noi. Era un’artista che improvvisava toasting, uno stile vocale mezzo parlato e mezzo cantato, su di una base musicale di musica reggae già esistente. Charlie Ace non raggiunse la notorietà di altri Dj giamaicani come U-Roy, Big Youth, Dennis Alcapone  e fu assassinato a Kingston all’inizio degli anni ’80. Possedeva anche una piccola etichetta discografica (Swing a Ling) e vendeva i propri dischi per le strade con un negozio ambulante ricavato da un vecchio furgone Morris.

La birra.
Il suo vestito è di un color marrone prossimo al nero, mentre la schiuma cremosa e compatta ha un’ottima persistenza. L’aroma è pulito e abbastanza intenso, gli elementi “giusti” ci sono tutti: caffè, tostature, legno e bourbon, vaniglia, qualche suggestione di cocco, uvetta e prugna. Il mouthfeel è quello tipico delle produzioni Jackie O’s: non cercate densità  o particolari intenzioni edonistiche, è una birra dal corpo medio-pieno che risulta gradevole ma che forse necessiterebbe di un po' più di "ciccia”. Il passaggio in botte caratterizza la bevuta imprimendole bourbon e una componente etilica che potenzia e riscalda dall’inizio alla fine: frutta sotto spirito e vaniglia accompagnano ogni sorso, mentre il caffè rimane sorprendentemente in secondo piano. Nel finale emerge qualche suggestione di cioccolato e di tabacco.  Nel bicchiere c’è un liquido intenso e potente che tuttavia riesce ugualmente ad esprimere una buona eleganza:  il bourbon limita abbastanza la velocità di bevuta obbligando ad un lento sorseggiare che non va visto così negativamente. E’ una birra da bere con calma, nel corso di tutta la serata: le manca sicuramente un po’ di profondità, soprattutto al palato, il caffè sbandierato in etichetta non brilla di gloria ma alla fine riesce comunque a regalare belle soddisfazioni.
Formato 37.5 cl., alc. 12%, lotto 2017, prezzo indicativo 17.00-20.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 29 maggio 2018

Bernard Jantarový Ležák 12°

Il birrificio ceco Bernard nasce dalle ceneri dello storico birrificio Humpolec che operava sin dal 1597 e, dopo la fine della seconda guerra mondiale, era stato incorporato prima nell’azienda statale Horácké pivovary Jihlava e poi,  negli anni ’60, nella České Budějovice. Con la caduta del regime comunista il birrificio era confluito nella società statale Pivovary České Budějovice, per nulla in grado di fare gli investimenti necessari alla sua riqualificazione: nell’ambito del vasto processo di privatizzazione delle imprese statali il birrificio fu venduto all’asta il 26 ottobre del 1991 e acquistato da Stanislav Bernard, Josef Vávra e Rudolf Šmejkal, che lo rinominano Rodinný pivovar Bernard (Birrificio Famigliare Bernard). Sono loro ad avviare quell’inderogabile processo di rinnovamento che ha lentamente salvato il birrificio dalla definitiva scomparsa: nel 2000 Bernard era già riuscito a conquistare il 15% del mercato domestico. 
Nel 2001 il colosso belga Duvel Moortgat ha rilevato il 50% delle quote azionarie e apporta il capitale necessario a finanziare un ulteriore piano di crescita: attualmente il birrificio che si trova ad Humpolec, a metà strada tra Praga e Brno, produce circa 315.000 ettolitri all’anno ed esporta in 35 paesi.  Le birre della tradizione ceca sono oggi affiancate da qualche estemporanea incursione nel mondo anglosassone (la Bernard India Pale Ale)  e belga.

La birra.
La  Jantarový Ležák 12° (5%) di Bernard è una classica lager ambrata ceca ovvero una  Polotmavé Pivo, letteralmente una “mezza scura”. Il suo limpido color ambrato è agitato da intense venature rosso rubino: la schiuma è perfettamente compatta e cremosa ed ha una lunghissima persistenza.  Al naso troviamo crosta di pane bianco, accenni di pane nero e caramello, una lieve speziatura donata dal luppolo Saaz  e una poco gradevole nota metallica: l’intensità non è granché ma quello che colpisce non in positivo è la scarsa finezza e fragranza. Il gusto prosegue nella stessa  direzione apportando al bouquet qualche estero fruttato che chiama in causa prugna e frutti di bosco, ma anche qui c’è una fastidiosissima presenza metallica che disturba la bevuta; la birra termina bilanciata da un finale amaro nel quale s’incontrano note terrose, erbacee e di frutta secca a guscio. Ottima scorrevolezza e facilità di bevuta per questa Jantarový Ležák che tuttavia non brilla per l’intensità dei sapori e che, in questa bottiglia, viene fortemente penalizzata da una presenza metallica che ne annulla buona parte della capacità rinfrescante. La dignitosa sufficienza non è raggiunta, peccato.
Formato 50 cl., alc. 5%, lotto T26, scad. 20/07/2018.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 28 maggio 2018

Harviestoun Old Engine Oil Engineer's Reserve

Inizia nel 1986 l’avventura del birrificio scozzese Harviestoun fondato da Ken Brooker, un ex-homebrewer che coltivava questo sogno da almeno tre anni. Con pochissimi fondi a disposizione Brooker riesce a ristrutturare una vecchia fattoria a Dollarfield e a riciclare/riconvertire attrezzature di seconda (o terza) mano: il tino di ammostamento era stato usato in precedenza da un produttore di marmellate, il bollitore veniva invece utilizzato nella sua vita precedente per la tintura della lana. Un topo, divenuto poi il logo aziendale, sembra essere la sua unica compagnia  nelle giornate passate in sala cottura: il debutto avviene con la Harviestoun Real Ale. 
I primi investimenti per gli indispensabili ammodernamenti iniziano nel 1989, quando il birrificio si dota finalmente di un vero e proprio impianto per la produzione della birra; il successo della Schiehallion Lager, che ottiene numerosi riconoscimenti da parte del CAMRA e della Bitter & Twisted convincono Brooker a fare ulteriori investimenti e a portare in sala cottura il birraio inglese Stuart Cail che ancora oggi riveste il ruolo di Head Brewer. Nel 2000 debutta la porter Old Engine Oil, nata per partecipare al bando organizzato dalla catena di supermercati Tesco: la birra si piazza al primo posto ed inizia così ad essere distribuita in tutti i loro punti venditae.  Sarà lei la base di partenza per altre birre di successo del birrificio scozzese che vengono espressamente richieste dall’importatore americano: la serie delle Ola Dubh, invecchiate in botti di whisky e la Engineers' Reserve, versione potenziata della Old Engine Oil. Nel 2004 debutta la nuova sede operativa di Alva, a poche miglia di distanza da quella originale, dove entra in funzione il nuovo impianto da 60 barili:  dopo neppure due anni Harviestoun viene acquistato dalla Caledonian Brewing Company che a sua volta, nel 2008, viene venduta alla  Scottish & Newcastle da poco divenuta di proprietà Heineken. Nell’accordo commerciale viene tuttavia esclusa la Harviestoun che viene invece rilevata da un gruppo di azionisti che fuoriescono dalla Caledonian:  Stephen Crawley (già vecchio azionista di Harviestoun), Sandy Orr e Donald MacDonald.  Dopo solo due anni Harviestoun ritorna ad essere un birrificio indipendente e continua a crescere: nel 2009 i cask vengono affiancati anche dai fusti in acciaio e  nel 2016 arrivano anche le prime lattine.

La birra.
La Old Engine Oil Engineer's Reserve nasce su specifica richiesta dell’importatore americano  B. United International: il titolare Matthias Neidhart apprezzava molto la Old Engine Oil (6%) ma pensava che fosse un po’ troppo debole per i palati degli americani. A questo scopo fu quindi elaborata una ricetta più robusta (9.5%) che utilizza lo stesso mix di malti e di luppoli (Fuggles, East Kent Goldings  e Galena).
Il liquido non è esattamente denso come l'olio motore ma un po' lo ricorda: prossimo al nero, forma una bella testa di schiuma cremosa e compatta dall'ottima persistenza. Una discreta intensità permette d'apprezzare i profumi delle tostature e del caffè, del pane nero, della liquirizia e del tabacco. Al palato c'è una leggera viscosità ed è una coltre morbida quella che avvolge il palato ad ogni sorso: poche bollicine, sensazione tattile ottima e non particolarmente ingombrante. Nera (o quasi) alla vista, nera al naso e ancora più nera al gusto: la Old Engine Oil Engineer's Reserve è una black ale (o imperial porter) che non fa sconti e prende subito con decisione la strada dell'amaro e del torrefatto, con una generosa luppolatura a incrementare ulteriormente la dose. La componente dolce, che chiama in causa caramello ed esteri fruttati, è solamente a supporto e rimane nelle retrovie. Nel finale emergono ricami di cacao amaro, tabacco e liquirizia: l'alcool riscalda senza eccessi e il sorseggiarla non richiedere particolari sforzi. 
Una birra pensata per il mercato americano e che ricorda per alcuni aspetti proprio interpretazioni americane  "dure e pure" di imperial stout/porter, per palati forti: penso ad esempio alla Yeti di Great Divide o alla Ten Fidy di Oskar Blues. Birre che battono con vigore sul tasto del torrefatto e rincarano la dose con una generosa luppolatura: le manca profondità ma questa Old Engine Oil Engineer's Reserve è intensa e ben fatta, una bevuta di livello anche se avara nel regalare emozioni.
Formato 33 cl., alc. 9.5%, lotto 1902, scad. 01/03/2019, prezzo indicativo 5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 27 maggio 2018

Põhjala Talveöö

Põhjala, birrificio estone attivo dal nel 2011 come beerfirm e  dal 2014 come birrificio, sta ottenendo sempre più successo e il mezzo milione di ettolitri attualmente prodotto sarà presto incrementato dalla messa in funzione del nuovo impianto di Kalamaja, quartiere periferico di Tallinn: un ambizioso piano d’espansione da quattro milioni di euro lanciato dai fondatori Enn Parel e Peter Keek, assieme ad altri soci. 
“Põhjala  no solo IPA”, potremmo dire: sono le birre “scure”, che nel nostro paese non hanno una grande diffusione, ad aver maggiormente contribuito all’affermazione del birrificio guidato in sala cottura da Chris Pilkington ed il suo team di birrai;  il mercato del nord europa, nel quale Põhjala è molto attivo, ama stout e porter, meglio se in versione “imperial” o affinate in botte e,  ça va sans dire, le baltic porter delle quali i paesi affacciati sul mar Baltico ne sono stati la culla. 
Sono quattro le (imperial) baltic porter prodotte da Põhjala e note con il nome di Öö: la versione base (10.5%) l’avevamo assaggiata in questa occasione, all’appello mancano la sua versione invecchiata in botti di Cognac (Öö XO, 13.9%), la sua variazione al ribes nero chiamata Öö Cassis (10.5%) e la
la più “leggera” Talveöö (9%, con aggiunta di cocco, vaniglia e cardamomo). Stappiamola.

La birra.
"Notte d'inverno", questo il significato di Talveöö. La sua ricetta elenca malti Pale, Monaco, Carafa 2 Special, Cara Pale, Chocolate, Cara 150, avena in fiocchi, zucchero Demerara, luppoli Magnum e Northern Brewer, cocco tostato, baccelli di vaniglia e semi di cardamomo. Il suo colore è prossimo al nero, mentre la schiuma è cremosa, compatta ed ha una buona persistenza. Al naso pane nero, vaniglia e cioccolato al latte, cocco, un po' di effetto bounty: a dominare è però inaspettatamente il cardamomo. Chi conosce le "birre scure" di Põhjala sa come a volte siano un po' troppo sbilanciate sul dolce: non è il caso di questa Talveöö. Pane nero, caramello e vaniglia, cioccolato al latte, cocco e prugna definiscono una bevuta dolce, movimentata dal cardamomo e che sfuma gradatamente nell'orzo tostato, con qualche accenno di caffè. C'è quasi equilibrio ma non c'è quella pulizia e quella definizione che vorresti trovare in una baltic porter che è invece un po' "sporcata" e confusa dagli ingredienti aggiunti. Poche bollicine attraversano una birra molto morbida al palato, quasi vellutata, dal corpo medio. C'è una leggera astringenza finale, l'alcool (9%) è ben nascosto e regala solo un delicato tepore a fine corsa.
La "notte d'inverno" di Põhjala è una buona e soddisfacente bevuta, discretamente speziata: non è esente da imprecisioni, ma il bilancio è comunque positivo.
Formato 33 cl., alc. 9%, IBU 40, lotto 499, scad. 27/08/2018, prezzo indicativo 5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 25 maggio 2018

Nix Malle

Torniamo a parlare di Nix Beer, nuovo progetto dell’instancabile birraio Nicola Grande, in arte Nix: dopo le esperienze al birrificio al Birrificio Settimo (ex Siebter Himmel) e al Birrificio Etnia, questa volta scende in campo in prima persona con la propria beer firm utilizzando il proprio soprannome e il proprio volto stilizzato sulle etichette. Nix Beer debutta a maggio del 2017 con cinque etichette tutte ispirate alla tradizione belga, quella con cui il birraio Nix ha già dimostrato di sapersi ben destreggiare nelle esperienze precedenti. Dopo la Xelles (una “hoppy blond ale” leggere e moderna) assaggiata qualche settimana fa, è il momento di alzare l’asticella e stappare Malle, la tripel della casa. 
Se il nome scelto vi può sembrare strano ad una lettura superficiale, basta poco per collegarlo a quella che è considerata “la madre di tutte le tripel”, ovvero la Westmalle. Malle è una municipalità (15.000 abitanti) che si trova ad una quarantina di chilometri di Anversa e che comprende i villaggi di Oostmalle e Westmalle, dove si trova l'abbazia di Nostra Signora del Sacro Cuore. Della Westmalle Tripel ne avevamo già parlato in questa occasione: venne sviluppata da frate Thomas assieme al consulente birraio Hendrik Verlinden, proprietario del birrificio Drie Linden, per festeggiare nel 1934 l’inaugurazione del nuovo birrificio del monastero che allora produceva solo due birre scure, Extra Gersten e Dubbel Bruin. 
Verlinden viene considerato da Michael Jackson come l'artefice della prima tripel belga, lanciata nel 1932 con il nome di Witkap Pater: l’aver anticipato di qualche anno quella di Westmalle non le è comunque bastato per guadagnarsi l’appellativo di “madre di tutte le tripel”.

La birra.
Rientriamo in Italia e stappiamo la Malle di Nix. Ringrazio innanzitutto il beershop on-line Ubeer che mi ha inviato la bottiglia d’assaggiare. Il bicchiere si colora di arancio, velato ma luminoso, e si colma con una generosa testa di schiuma pannosa e compatta, dall'ottima persistenza. Una delicata speziatura che richiama il pepe bianco ed il coriandolo apre un naso pulito e ricco di biscotto e pasticceria, scorza d'arancia candita. E' una tripel con vivaci bollicine, come da manuale, corpo medio e una buona scorrevolezza se confrontata con l'importante gradazione alcolica (9.7%). Il gusto prosegue in linea retta il percorso aromatico riproponendo biscotto e frutta candita gialla, una delicata speziatura e un finale amaro dall'intensità abbastanza  sostenuta per lo stile, nel quale trovano posto note terrose e di scorza d'arancia. Il retrogusto è di nuovo dolce, ricco canditi e frutta sotto spirito. C'è un ottimo equilibrio, favorito da una bella secchezza e da una gradevole acidità che stempera il dolce: non fosse per la componente etilica, la si potrebbe quasi definire una birra sorprendentemente rinfrescante. Niente da eccepire per quel che riguarda pulizia e finezza, qualche appunto invece devo invece farlo proprio per quel che riguarda l'alcool che non è subdolamente nascosto come nei migliori esempi belgi. Non presenta una grossa asperità ma indubbiamente rallenta il ritmo di bevuta di quella che è comunque un'ottima interpretazione della tradizione belga. Per chi volesse provarla ma non riesce a trovarla, ecco un utile link all’acquisto diretto.
Formato 33 cl., alc. 9.7%, lotto 6417, scad. 28/09/2019.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 24 maggio 2018

Evil Twin / Westbrook Imperial Mexican Biscotti Cake Break

Viene annunciata a ottobre 2016 e genera subito entusiasmo tra i geeks americani: si tratta di una collaborazione tra il birrificio Westbrook e la beerfirm Evil Twin (che da Westbrook spesso produce) chiamata Imperial Mexican Biscotti Cake Break. Il nome è un chiaro riferimento a due famose imperial stout già prodotte dai suddetti birrifici a partire dal 2012: la Imperial Biscotti Break di Evil Twin, realizzata con mandorle tostate, caffè e vaniglia e la Mexican Cake di Westbrook che utilizza mandorle tostate , cacao, caffè, cannella, vaniglia e peperoncino habanero. Jeppe Jarnit-Bjergsø (Evil Twin) afferma che la birra è una ricetta “a quattro mani” che vuole combinare le altre due birre di successo: liberissimi di crederci e non pensare che si tratti invece di un semplice blend di due birre.  Il suo debutto è datato 17 novembre con vendita diretta al birrificio Westbrook: 16 dollari per 65 cl. e un limite di sei bottiglie a testa; in contemporanea è anche partita la distribuzione su scala nazionale ed internazionale. 
La birra è poi stata seguita dalle inevitabili varianti barrel aged. Nell’autunno del 2017 sono arrivate la Maple Bourbon Barrel Aged Imperial Mexican Biscotti Cake Break, invecchiata 16 mesi in botti ex-bourbon che avevano poi contenuto sciroppo d’acero, e la Double Barrel Aged Imperial Mexican Biscotti Cake Break,  che all’invecchiamento appena descritto ne fa seguire uno ulteriore in botti di vino marsala. Non vi basta? Lo scorso aprile i due birrifici hanno annunciato l’arrivo della  Maple Bourbon Barrel-Aged Imperial Mexican Biscotti Toasted Coconut Cake Break, ovvero versione della Maple Bourbon Barrel Aged Imperial Mexican Biscotti Cake Break con aggiunta di cocco tostato. E che dire della Maple Bourbon Barrel-Aged Imperial Mexican Biscotti Churros Cake Break? Sembra che l’etichetta non elenchi esplicitamente la presenza della famosa pastella fritta spolverata di zucchero, ma non ci sarebbe da stupirsi visto che ormai abbiamo visto finire del bollitore qualsiasi cosa, dagli hamburger alle patatine fritte, dai croissant agli insetti: basta la parola per farla diventare subito oggetto del desiderio di beergeeks che amano trastullarsi con queste pastry stouts.

La birra.
Se tutti qui nomi vi hanno confuso, avvenimento più che probabile, ricordo che stiamo parlando della Imperial Mexican Biscotti Cake Break. Si presenta di colore nero, mentre la piccola schiuma che si forma è cremosa ma velocissima a dissiparsi. Il naso è dolce e propone solo in parte gli ingredienti riportati in etichetta: vaniglia, cioccolato al latte, melassa, prugna e uvetta sono affiancati da lievi note di peperoncino. La sua intensità è inversamente proporzionale alla sua eleganza: il risultato è dolce, quasi stucchevole, grossolano e tuttavia gradevole.  Al palato non c’è una particolare viscosità ma il mouthfeel è comunque piacevole: poche bollicine, corpo medio-pieno, consistenza oleosa. Il gusto è fortunatamente un po’ più complesso e regala piacevoli (dolci) sfumature di biscotto e frutta secca, fruit cake, melassa e tanta frutta sotto spirito: uvetta, prugna, frutti di bosco. Su questo tappeto dolce affiorano anche note di vaniglia e cioccolato al latte, poi arriva il piccante del peperoncino a riequilibrare una situazione che stava pericolosamente andando alla deriva. L’alcool non fa sentire particolarmente la sua presenza, ma è difficile dire nel finale dove inizi il suo effetto e dove termini quello dell’habanero: è una conclusione calda e piuttosto piccante nella quale mancano però un po’ di tostature e di quel caffè dichiarato tra gli ingredienti.  E’ una bottiglia che dovrebbe avere già 18 mesi di vita alle spalle e quindi suppongo che il caffè sia svanito per effetto del tempo. 
Detto questo, se vi piace il genere delle imperial stout dolci e ricche di ingredienti gourmet, questa  Imperial Mexican Biscotti Cake Break entrerà nelle vostre corde: è intensa, potente e non scivola troppo in quell’artificioso che caratterizza molte pastry stout. Personalmente preferisco la Imperial Biscotti Break di Evil Twin, mentre non ho avuto un’esperienza molto positiva della Mexican Cake di Westbrook, forse a causa di una bottiglia “sfortunata”.
Formato 65 cl., alc. 10.5%, lotto e scadenza non riportate, prezzo indicativo 13.00-19.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 23 maggio 2018

Birra del Borgo: IPA - Italian Pale Ale & Dorata


Birra dal Borgo, credo quasi tutti lo sappiate, non è più birrificio artigianale da maggio del 2016, data in cui è stato ceduto alla multinazionale AB-Inbev (quella proprietaria di marchi quali Budweiser, Corona, Stella Artois, Beck's, Hoegaarden, Leffe, Diebels, Franziskaner/Spaten, Labatt e Bass.. solo per citare i più noti). All’annuncio sono seguite le rassicurazioni di rito: la qualità resterà uguale, si tratta di una partnership che ci consentirà di migliorare e di crescere, etc etc..  E come da copione sono iniziate anche le discussioni tra gli appassionati, impegnati a decidere se nel bicchiere ci fosse una birra più o meno buona di quella che era una volta. 
Che Birra del Borgo si trovi anche sugli scaffali della grande distribuzione non è una novità: anzi, il birrificio guidato da Di Vincenzo fu uno dei primi ad avventurarsi nei supermercati prima con una linea dedicata e chiamata Trentatré (Ambrata e Dorata) proposta ad un prezzo interessante. Correva l’anno 2010 e dintorni.  Le Trentatré non ebbero vita molto lunga e pian piano furono le classiche bottiglie da 75 di Del Borgo a finire sugli scaffali, a prezzi secondo me improponibili per il contesto in cui si trovavano. All’acquisizione da parte di AB-Inbev  ha fatto seguito un anno di relativa quiete nel quale si sono sicuramente gettate le basi per nuove e più ambiziose strategie commerciali; negli ultimi mesi ho avvistato molte 75 di Del Borgo a prezzi mai visti prima (parliamo di 5-7 euro) e il birrificio ha anche rilanciato una nuova linea da 33 per la vendita nei supermercati:  è tornata Lisa (questa volta in bottiglia e sotto forma di una lager) affiancata da Dorata, Ambrata e da una IPA, acronimo che sfrutta la popolarità dello stile ma che in realtà significa Italian Pale Ale. Un’operazione simile a quella fatta di recente da Birra Moretti.

Le birre.
Come si posizionano le nuove (industriali) birre del Borgo per il supermercato in uno scenario molto più affollato rispetto a quello 2010 quando forse i tempi per vendere nella GDO non erano ancora maturi? 
Partiamo dalla IPA – Italian Pale Ale, una session beer (4%) descritta come “elegante e luppolata” che nel bicchiere appare limpida e dorata, con una cremosa e compatta testa di schiuma bianca. L’aroma non è particolarmente intenso ma è pulito: profumi floreali, di arancio e mandarino, biscotto e caramello.  La bevuta prosegue nella stessa direzione ma si sente la mancanza di qualche bollicina in più: il corpo medio-leggero e la consistenza watery la rendono molto scorrevole, ma un po’ di vitalità in più le gioverebbe. C’è una delicata base maltata (pane, biscotto, caramello), un lieve passaggio fruttato nel quale gli agrumi assumono più le forme della marmellata piuttosto che della frutta fresca, un finale amaro resinoso di modesta intensità e lunghezza.  Nel bicchiere non c’è molta intensità e il risultato finale,  benché gradevole, è un po’ anonimo ad un palato che si è già allontanato da tempo dalle anonime lager industriali. Non sto chiedendo “fuochi d’artificio” ad una session beer, ma sarebbero senz'altro auspicabile maggior personalità e fragranza. Il rapporto qualità prezzo (2.59 € per 33 cl.) è tutto sommato accettabile e la IPA di Birra del Borgo può essere una discreta opportunità se avete il frigorifero vuoto e siete costretti ad andare al supermercato. Per emozioni, intensità e tutto il resto dovete invece rivolgervi altrove e aprire di più il portafoglio.

Dorata è invece un nome poco fantasioso ma efficace nel comunicare ad un bevitore poco esperto che cosa ci sarà nel bicchiere.  Si tratta di una Belgian Ale (5%) “morbida e delicata” il cui colore tiene fede al nome. Anche lei è limpida ma la sua schiuma, benchè cremosa e compatta, non ha quella lunga persistenza della migliore tradizione belga. Al naso una leggera spolverata di   coriandolo e pepe introduce profumi floreali, di frutta candita, pane e crackers: bene la pulizia, l'intensità è invece alquanto modesta. Al palato risulta effettivamente "morbida" come descritto in etichetta ma in una Belgian Ale personalmente vorrei trovare vivacità e qualche bollicina in più. Ideale continuazione dell'aroma, il gusto ripropone pane e crackers, frutta a pasta gialla come pesca e albicocca, arancia candita, coriandolo e un finale amaro piuttosto corto nel quale s'incontrano note terrose e di scorza d'agrumi: una breve parentesi che cerca di ripulire il palato e sopperire ad una scarsa secchezza. Anche per Dorata valgono le stesse considerazioni fatte per la IPA: risultato discreto, non molta intensità, buon livello di pulizia. Il DNA belga è evidente ma non c'è molta personalità in una birra che fa il suo compitino e porta ampiamente a casa la sufficienza. Sugli scaffali del supermercato e a questo prezzo mi sembra comunque una buona opzione di scelta.
Entrambe le bottiglie sono ancora abbastanza fresche e guardando la scadenza ipotizzerei un imbottigliamento avvenuto lo scorso febbraio: come saranno tra dodici mesi o più?

Nel dettaglio: 
IPA - Italian Pale Ale, 33 cl., alc. 4.0%, lotto LS 25 18A, scad. 01/02/2020, prezzo 2.59 Euro.
Dorata, 33 cl., alc. 5.0%, lotto LS 21 18A, scad. 01/02/2020, prezzo 2.59 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 22 maggio 2018

Lervig Easy

Lervig, birrificio norvegese con sede operativa Stavanger e guidato dal birraio Mike Murphy, è da anni una presenza quasi fissa sul blog e nei locali italiani: ma mettiamo per un attimo da parte la birra e concentriamoci sulla identità visiva. E’ interessante notare come sia cambiata negli anni la grafica di Lervig, inizialmente basata su personaggi (Johnny Low, Easy e Lucky Jack, Hoppy Joe..) in qualche modo collegati alla vocazione marinara di Stavanger, un tempo porto peschereccio, o sulla “stella” del logo aziendale
Per stare dietro alla moda è indispensabile flessibilità, velocità e capacità di adattamento: negli ultimi due anni Lervig ha abbracciato la tendenza delle New England IPA con etichette colorate e basate su semplici pattern geometrici, nascondendo quasi completamente quella “stella” che per anni era stata in primo piano. 
La vera rivoluzione è avvenuta tuttavia nel 2017 quando è stata assunta la giovane danese Nanna Guldbæk, attualmente ancora impegnata nell’ultimo anno di disegno industriale alla scuola di Kolding, in Danimarca. Nanna, che ha anche lavorato al Mikkeller Bar di Copenhagen, ha conosciuto Lervig in occasione del festival di Tallinn mentre era occupata allo stand di un altro birrificio; dopo alcune etichette di prova a è diventata all’inizio dell’estate una collaboratrice occasionale per poi essere assunta a tempo pieno. 
“La cosa è nata quasi per casoracconta Murphyma ora ha preso il sopravvento; le agenzie grafiche tradizionali non hanno la necessaria flessibilità per seguire il mercato e ad esempio realizzare un nuova etichetta in poche settimane. Avevamo bisogno di un designer creativo come noi: Anna è perfetta perché è una bevitrice di birra e ha già lavorato nell’ambiente. Nel 2017 abbiamo realizzato circa 35 nuove prodotti, incluse molte collaborazioni, e quest’anno sarà più o meno lo stesso!”
E’ quindi la Guldbæk, che confessa di amare birre come Lervig Barley wine o la imperial stout Sippin’ into Darkness (qui la vecchia e qui la nuova etichetta), ad aver creato il vestito a Perler for Svin, Passiontang, Hazy Days, Orange Velvet e Socks’n’sandals: è lei ad aver fatto nascere quei personaggi che oggi popolano le etichette, come gli “yeast men”  o gli “hop shark”:  al di là della grafica, oggi le nuove lattine di Lervig rappresentano anche un’esperienza fisica. “Le mie illustrazioni sono fatte sia a mano che al computer e combinano diversi elementi e materiali che potete sentire al tatto” dice Nanna. “Non sono semplici etichette incollate sulle lattine: l’illustrazione si relaziona direttamente con l’alluminio della lattina, con chi la tiene tra le mani e con la birra che contiene. Sono questi gli aspetti che vorrei maggiormente sviluppare in futuro con Lervig”. Vista, tatto, olfatto e gusto:  quattro dei cinque sensi sono coinvolti.

La birra.
L’etichetta della Easy di Lervig, disponibile in lattina dallo scorso febbraio, è un perfetto esempio di quanto espresso precedentemente. L’alluminio della lattina è riprodotto sull’etichetta e regala piacevoli effetti ottici sotto la luce; il contenuto è invece un’American Pale Ale “modaiola”, ovvero torbida e prodotta con abbondanti quantità di avena e frumento, oltre che malti Golden Promise e Munich Pilsner. I protagonisti sono però i luppoli Mosaic e Citra, ovviamente usati anche in DDH, imprescindibile acronimo che identifica il Double Dry Hopping. 
Perfettamente opalescente e simile ad un succo di frutta, forma nel bicchiere una testa di schiuma biancastra abbastanza scomposta e poco persistente. Non troverete molta finezza o eleganza nell’aroma ma è cosa da mettere in conto quando si parla di “Juicy/New England”: c’è tuttavia una buona intensità di mango e ananas, qualche ricordo di agrumi e il risultato è comunque gradevole. E’ un’American Pale Ale sulla soglia  della sessionabilità  (4.5%) ma il mouthfeel ricco di avena non permette comunque una bevuta rapida e agile: meglio sorseggiarla, anche se ad elevata frequenza. Nel bicchiere c’è una birra-succo di frutta molto intensa, rinfrescante e dissetante: mango e ananas guidano un percorso piuttosto semplice (o easy, per riprendere il nome) arricchito da qualche nota agrumata. Non c’è praticamente amaro, se si esclude un brevissimo momento di resina finale, lungo quanto un battito di ciglia. Anche al gusto valgono le stesse considerazione fatte in precedenza: eleganza e pulizia non sono i suoi punti di forza, caratteristiche probabilmente non fondamentali per chi cerca un torbido succo di frutta. Se amate lo stile il risultato è molto gradevole e ampiamente soddisfacente: difficilmente si sbaglia con Lervig.
Avrei solo una domanda da spedire in Norvegia: perché birre leggere come questa vengono proposte nella lattina da 33 e la maggior parte delle Double IPA in quella da 50 ?
Formato 33 cl., alc. 4.5%, IBU 30, lotto 15/03/2018, scad. 15/12/2018, prezzo indicativo 4.00-4.50 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 21 maggio 2018

Mezzavia Nautilus

Inizia nel 2014 a Selargius (Cagliari) l’avventura del birrificio Mezzavia: a fondarlo sono il birraio Alessandro Melis e Gianmichele Deiana. Il debutto è ovviamente il punto d’arrivo di un percorso molto più lungo e complesso iniziato con l’homebrewing e, ancora prima, con il collezionismo d’etichette e la scoperta delle birre del Belgio classico.  Melis e Deiana hanno in comune la frequentazione della storica birroteca di Cagliari “Al Merlo Parlante”:  dei due è stato poi Alessandro a cimentarsi con l’homebrewing in una “carriera” decennale che gli ha portato numerosi riconoscimenti in concorsi nazionali e  anche l’esortazione, al Villaggio della Birra 2011, ad entrare nel mondo dei professionisti da parte di Kuaska. 
Ottenuti i finanziamenti necessari, nel 2012 sono iniziati i lavori per la costruzione del birrificio Mezzavia, nome ispirato da un frammento della poesia “Dopo la tristezza” di Umberto Saba:  “della birra mi godo l'amaro - seduto del ritorno a mezza via - in faccia ai monti annuvolati e al faro”. Due anni dopo, su di un impianto da sei ettolitri, prendono forma su grande  scala le ricetta precedentemente elaborate in casa da Melis:  la blanche Lunamonda, la blonde Merìdie ispirata al Belgio moderno e luppolato (De La Senne, De Ranke),  la Biére de Garde chiamata Gare de Roubaix, la belgian strong ale Malacoda e la imperial stout Nautilus costituiscono la gamma classica alla quale s’affiancano produzioni stagionali in fusto (l’American Pale Ale Line Up) o speciali in bottiglia (Resoa, un’American Wheat).

La birra.
Nautilus, in greco “marinaio”, è il nome scelto per una Russian Imperial Stout: birre destinate a “viaggiare per mare” dall’Inghilterra ai porti del Mar Baltico per raggiungere poi la corte degli Zar di Russia, dove erano particolarmente apprezzate. Il birraio Alessandro Melis la descrive così: “volevo esprimere in una birra una gamma di profumi a me molto cara, il profumo del tipico fine pranzo natalizio. Immaginate il momento del caffè, a tavola agrumi e frutta secca come noci prugne e fichi, cioccolato, panettone e dolci sardi (pabassinas e pan'e saba). Quella è stata la percezione da cui è nata Nautilus”. 
Il suo vestito è di colore ebano, piuttosto scuro: la schiuma è cremosa, compatta e mostra un’ottima persistenza. Ad un bell’aspetto fa però seguito un naso non particolarmente entusiasmante: l’intensità è davvero ai minimi termini e bisogna davvero faticare per avvertire qualche tostatura e  qualche accenno di caffè. Ma è l’unica note dolente in una bevuta che in verità regala belle soddisfazioni, se si ha la pazienza di lasciare che la birra si scaldi a dovere e si “apra” nel bicchiere. Al palato non c’è molta viscosità, ma Nautilus è un’imperial stout che preferisce rispettare la tradizione inglese piuttosto che correre dietro alle mode: il corpo è medio, la scorrevolezza è buona e c’è comunque una sensazione palatale morbida, quasi vellutata, a rendere gradevoli i sorsi. Caramello brunito, liquirizia, fruit cake, prugna e uvetta sotto spiritio danno forma ad una bevuta inizialmente dolce che viene poi bilanciata da una leggera acidità data dai malti scuri ma soprattutto dall’amaro del caffè, del torrefatto e di una generosa luppolatura. La chiusura è abbastanza secca, pulizia ed eleganza non mancano, l’alcool (9.5%) si fa sentire con vigore ma senza dover mai alzare troppo la voce,  regalando un morbido retrogusto e accomodante retrogusto. 
Gran bella imperial stout quella del birrificio Mezzavia, con l’unico rimpianto di un aroma sottotono: non cercate in lei la moda, i fuochi d’artificio o le densità catramose proposte dai birrifici scandinavi. Non entrerà nelle grazie dei beergeeks, ma chi ha voglia di versarsi nel bicchiere un classico molto ben eseguito e rispettoso della tradizione inglese troverà in questa Nautilus un ottimo esempio col quale passare un tranquillo dopocena.
Formato 75 cl., alc. 9.5%, lotto 007, scad.  01/11/2020, prezzo indicativo 12.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 18 maggio 2018

Northern Monk / Alefarm Patrons Project 7.01 DDH Saison

Rieccoci a parlare di Northern Monk, birrificio di Leeds fondato  da Russell Bisset, guidato dal birraio Brian Dickinson e diventato rapidamente una delle realtà più apprezzate del Regno Unito, ovviamente tra coloro che seguono le tendenze birrarie.  Tra queste vi è senz’altro il Patrons Project inaugurato a luglio 2016: un progetto che chiama a collaborare non solo altri birrifici ma anche artisti, grafici, fotografi e che riguarda non solo quello che c’è dentro alle lattine ma anche quello che viene incollato su di esse.  Il contenitore di latta è un vero e proprio supporto fisico per l’esposizione dei lavori artistici e Northern Monk annuncia orgoglioso di essere il primo birrificio ad utilizzare etichette del tipo “peel and reveal” realizzate dalla CS Labels. In pratica sulla lattina vi sono due etichette incollate l’una sull’altra: su quella esterna viene dato il massimo spazio possibile alla grafica e sul suo retro vengono fornite informazioni sull’artista che ha partecipato alla collaborazione. Dopo aver rimosso questa prima etichetta ne viene rivelata un’altra con il logo del birrificio e informazioni “tecniche” sulla birra. 
Tra i birrifici coinvolti ci sono anche i danesi di Alefarm che avevamo incontrato in questa occasione. Alefarm fu invitato da Northern Monk a partecipare al festival Hop City 2017 di Leeds e quella fu l’occasione per discutere i dettagli di una collaborazione che si è poi concretizzata qualche mese dopo. Le Saison/Farmhouse Ales sono tra le produzioni più apprezzate di Alefarm e i due birrifici hanno scelto di proseguire in questa direzione con alcune libere interpretazioni dello stile.  Il Patrons Project 7.01, disponibile da marzo 2017, è una DDH Saison seguita a breve distanza dal 7.02 Peach Vanilla Saison e dal 7.03 Blueberry Wild Ale.

La birra.
Qualche anno fa spopolavano le IPA “normali” e il concetto di IPA iniziò ad essere rielaborato in (quasi) ogni possibile declinazione; se ricordate, ci furono molti esempi di “India Saison”, birre dove si cercava di far convivere una generosa luppolatura (e un generoso amaro) con il carattere rustico e belga di una saison. Ora l’amaro non va molto più di moda e le parole di tendenza sono “haze”, “juicy”, “DDH-Double Dry Hopping” e “New England”: parole che anche questa volta si cercano di applicare ad ogni altro stile. 
Il Patrons Project 7.01 consiste proprio nella realizzazione di una DDH Saison o, come scritto sulla seconda etichetta della lattina, in una New England Saison: in concreto significa utilizzare 6 diverse varietà di malto, abbondanti quantità di frumento, avena e farro, lievito WLP565 e ovviamente una generosa quantità di Galaxy, Citra e Mosaic. La parte grafica è invece stata affidata al fotografo Esben Bøg Jensen: a lui il compito di interpretare visivamente il concetto di New England Saison...  fotografando un gruppo di felci. 
Il suo colore torbido e arancio pallido potrebbe effettivamente rappresentare il punto d’incontro tra il New England e una saison “vecchio stile”, di quelle prodotte nelle fattorie della Vallonia nel diciannovesimo secolo per dissetare i braccianti agricoli: la schiuma generosa e compatta ha un’ottima persistenza. Nonostante la definizione di New England Saison mi faccia venire la pelle d’oca devo dire che l’aroma è interessante e tutto sommato centrato:  si avverte l’effetto del Double Dry Hopping con una macedonia composta da soprattutto da agrumi (lime, limone, arancia) e qualche accenno di frutta tropicale. Al suo fianco profumi di paglia, crackers e pane, fiori bianchi, una delicata speziatura e tutto sommato un discreto carattere rustico. L’inizio è promettente ma la bevuta non mantiene purtroppo le aspettative, a partire da una sensazione palatale leggermente cremosa (NEIPA style) che si scontra un po’ con le vivaci bollicine di una saison: la scorrevolezza è un po’ penalizzata. E’ una saison alla quale manca secchezza e che mostra un residuo zuccherino un po’ troppo ingombrante con il risultato di essere meno dissetante e rinfrescante del dovuto: pane e crackers, un po’ di agrumi e una delicata nota di pepe formano una bevuta leggermente rustica ma completamente priva di quel succo di frutta che il riferimento al New England farebbe supporre. Il percorso termina con un finale terroso, delicatamente amaro ma è un esperimento riuscito solo a metà. Bene l’aroma, dove effettivamente s’avvertono le due componenti dichiarate in etichette, un po’ deludente il gusto, poco incisivo, meno definito: la birra non è affatto male ed è tutto sommato gradevole, ma l’obiettivo dichiarato non mi pare sia stato raggiunto. 
Al di là dell’utilizzo dell’acronimo DDH, tanto di moda oggi, ci sono esempi molto più godibili di saison “moderne”, abbondantemente luppolate e fruttate, nonché molto più secche di questa, che non hanno bisogno di scomodare il New England e che si trovano anche vicino a casa nostra. Su queste vado a memoria: Strelka di Muttnik, Abiura di Bruton e ovviamente le Extraomnes Hond.erd e Wallonië.
Formato 44 cl., alc. 7%, IBU 20, lotto SYD0105 (?), scad. 22/06/2018, prezzo indicativo 6.00-7.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 17 maggio 2018

Founders Lizard of Koz

Nell’estate 2011 il birrificio Founders (Grand Rapids, Michigan)  otteneva l’autorizzazione per aggiungere altri 1000 metri quadrati di spazio al proprio quartier generale. Questo a completamento di un piano di espansione da 7 milioni di dollari per aumentare la capacità produttiva da 32.000 a quasi 60.000 ettolitri e, soprattutto, una nuova linea d’imbottigliamento flessibile per permettere di affiancare alle classiche bottiglie da 35.5 centilitri anche le nuove da 75. 
L’occasione è ghiotta per rendere finalmente disponibili al grande pubblico anche quelle birre “sperimentali” o occasionali che si potevano sino ad allora assaggiare solo alla taproom del birrificio: la “backstage series”. La prima ad essere imbottigliata è la Blushing Monk, una belgian ale con aggiunta di lamponi che era stata prodotta l’ultima volta dieci anni prima con il nome di Imperial Belgian Razz. A settembre dello stesso anno è poi arrivata la “mitica” CBS seguita, a febbraio 2012 dalla Curmudgeon’s Better Half.  Da allora ogni anno Founders ha continuato a rilasciare bottiglie di Backstage Series ad intervalli irregolari ma senza largo preavviso, perché “le birre sono pronte quando sono pronte. Abbiamo impegni con i distributori solo per le birre in produzione regolare, che sono poi quelle che ci aiutano a far tornare i conti”  dice il fondatore Engbers. La serie è poi continuata con la Frangelic Mountain Brown (oggi nota come Sumatra),  il barley wine 15th Anniversary Bolt Cutter, la Doom Imperial IPA la  Mango Magnifico con Calor  e tante altre. 
Non ho capito se la Backstage Series in bottiglia sia ancora attiva o se sia stata negli ultimi due anni sostituita dalla Barrel Aged Series: anche questa è formata da 4 birre che vengono commercializzate nel corso dell’anno, quasi a sorpresa.

La birra.
Una imperial stout nata per celebrare il trentesimo compleanno di Liz, la sorella del birrario di Founders  Jeremy Kosmicki. Viene chiamata con il suo stesso soprannome  (Lizard of Koz) e viene prodotta con alcuni dei suoi ingredienti preferiti: mirtilli freschi raccolti nel Michigan, cioccolato e vaniglia. L’imperial stout è stata poi messa ad invecchiare in botti ex-bourbon. Non si tratta tuttavia di una novità assoluta: la birra era già stata prodotta in occasione del Black Party organizzato da Founders nel 2015, ma allora era disponibile solamente alla spina della taproom. Il suo debutto in bottiglia nell’ambito della Backstage Series arriva solamente a novembre 2016.  
La sua veste è di colore nero, la sua schiuma è generosa, cremosa e compatta e mostra un’ottima persistenza. L’aroma restituisce quanto viene promesso in etichetta, con discreta intensità è ottima pulizia: il dolce dei mirtilli e della vaniglia, il legno. In sottofondo c’è qualche profumo di cioccolato e di frutta sotto spirito, prugna ed uvetta. La sensazione palatale è quella tipica  di molte altre birre “scure” di Founders: corpo medio, consistenza vellutata, quasi setosa. La bevuta è un caleidoscopio di sapori abbastanza inusuale, o se preferite un tumultuoso ottovolante. La partenza è quella di una imperial stout dolce di cioccolato al latte (non molto artigianale, in verità) e vaniglia alla quale fa seguito una brusca virata ricca dell’asprezza del mirtillo: dopo le curve e la ripida risalita, c’è una nuova discesa a capofitto nel dolce bilanciata da leggerissime tostature. Il bourbon rimane sotto traccia ma riesce comunque a regalare un bel finale un po’ più tranquillo (pensate al fine corsa del giro sulle montagne russe) con un retrogusto tiepido e accomodante di frutta sotto spirito. 
Il percorso non rientra esattamente nelle mie corde e i vari elementi sembrano respingersi anziché incontrarsi: a quasi due anni dalla messa in bottiglia il mirtillo è ancora molto evidente e la sua asprezza stride fortemente con il dolce di cioccolato e vaniglia. Se pensavate ad una birra simile ad un mirtillo disidratato ricoperto di cioccolato fondente siete fuori strada: birra tecnicamente ben eseguita che qualcuno magari amerà. Personalmente rimango un po' perplesso. 
Formato 75 cl., alc. 10,5%, IBU 40, lotto 11/2016, prezzo indicativo 15.00-20.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 16 maggio 2018

Birrificio Ventitré: Hirpinia Aria IPA & Hirpinia Luna Oatmeal Stout


Il Birrificio Ventitrè apre i battenti il 23 luglio 2015 a Grottaminarda, al centro della valle dell'Ufita, in provincia di Avellino; non è tuttavia solamente questo il motivo del nome scelto. Come il birrificio stesso precisa sul proprio sito, 23 litri è stato il volume della prima cotta prodotta tra le mura domestiche ai tempi dell’homebrewing e 23 è il numero civico di via Perugia dove sono ubicati gli impianti. Dietro al progetto ci sono quattro soci: Guido Annicchiarico Petruzzelli  e Clementina Totaro, Jacopo e Jenni: tutti ancora indaffarati in altre attività lavorative ma allo stesso tempo impegnati a portare avanti in parallelo il birrificio, che soddisfa la maggior parte del proprio fabbisogno energetico grazie ad un impianto fotovoltaico. 
Non sono riuscito a reperire in rete molte informazioni storiche sul birrificio e quindi passiamo ad elencare le birre che compongono attualmente la gamma: la witbier Urania, la oatmeal stout Urania, la pale ale Tamatea, la IPA Amarante, la strong ale Aura, il barley wine Ambrosia. 
Da qualche tempo Ventitrè ha anche realizzato una linea parallela, chiamata Hirpinia Birra Artigianale destinata alla grande distribuzione: non so se si tratti di una semplice rietichettatura delle stesse ricette o se queste siano state rivisitate per renderle più adatte alla conservazione sugli scaffali dei supermercati. Le ho incontrate in offerta ad un prezzo interessante e quindi perché non assaggiarle? 

Le birre.
Partiamo dall’American IPA chiamata Aria (7.5%): il suo colore è ambrato, leggermente velato e movimentato da venature color rame. La schiuma biancastra è cremosa e compatta e mostra un’ottima persistenza. L’aroma, poco intenso e poco pulito, regala davvero poche soddisfazioni:  ci sono note terrose e di tostatura, forse di biscotto: quei luppoli americani che vorrei annusare in un’American IPA non sono pervenuti. La pulizia non migliora neppure al gusto e la bevuta restituisce soprattutto il biscotto ed il caramello dei malti fino a quando la bevuta non prende una direzione amara (vegetale, terrosa) piuttosto sgraziata e intensa. Nel finale emergono delle leggere tostature, qualche sconfinamento nella gomma bruciata e una fastidiosa astringenza. L’alcool ben nascosto è onestamente l’unico pregio di una IPA grezza e poco pulita che rimpiango subito di non aver lasciato dove l’avevo trovata:  sullo scaffale del supermercato. 

Per fortuna le cosa migliorano con la oatmeal stout (6%) chiamata Luna: anche lei molto bella alla vista, nera con una compatta testa di schiuma color cappuccino dalla buona persistenza.  Al naso ci sono tostature, fondi di caffè, richiami al cioccolato fondente e alla liquirizia, qualche nota terrosa: l’eleganza e la finezza non sono le sue caratteristiche principali ma c’è una buona intensità. Al palato è abbastanza gradevole, anche se l’avena dichiarata in etichetta faceva sperare in una maggior morbidezza o cremosità. Il gusto si mostra coerente con aroma e colore: al dolce del caramello il compito di sostenere un intenso carattere torrefatto, i fondi di caffè e la liquirizia amara. Nel finale arriva anche un po’ di cioccolato ad ingentilire un po’ l’amaro (poco elegante, in verità) delle tostature.  C’è ampio spazio per migliorare (finezza, pulizia), c’è qualche passaggio slegato ed acquoso ma questa Luna nel complesso  si beve con discreta soddisfazione e buona facilità, visto che la gradazione alcolica è molto ben celata.

Nel dettaglio:
Aria American IPA, formato 33 cl., alc. 7.5%, lotto  012/2018, scad. 01/02/2019, pagata 2.45 euro (supermercato)
Luna Oatmeal Stout, formato 33 cl., alc. 6%, lotto 016/2018, scad. 01/02/2019, pagata 2.29 euro (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 15 maggio 2018

HOMEBREWED! Old Fashion Beers: Best Bitter & Bitter Soul IPA

Oggi torniamo a parlare di birra fatte in casa con la rubrica HOMEBREWED!  Dalla Toscana ecco Andrea Di Grancio e il suo birrificio casalingo chiamato “Old Fashion Beers”:  tre anni fa l’incontro fortuito con la birra artigianale che ha per sempre cambiato la sua percezione di questa bevanda. E’ stato l’inizio di un viaggio alla scoperta di stili e tradizioni brassicole, al quale si è presto affiancata la voglia di provare a fare la birra in casa districandosi tra pentoloni e fermentatori di plastica. Due sono le bottiglie che Andrea mi ha inviato ad assaggiare: e mai uso migliore poteva essere fatto per riciclare il vetro della Peroni da 66 centilitri!

Partiamo da una Best Bitter (4.3%) , primo tentativo di Andrea con questo stile poco di moda ma a me sempre piuttosto  gradito. La ricetta prevede malto Maris Otter, un tocco di CaraRed, Crystal 100 e Carapils. luppoli Target, Fuggle ed E.K. Golding, lievito WLP013 London Ale. 
Il suo colore quasi limpido è ambrato con intense venature rossastre la schiuma è cremosa e compatta ed ha un'ottima persistenza. Al bell'aspetto fa seguito un naso pulito e dalla discreta intensità: ciliegia e prugna sono protagonisti assieme ad altri esteri che suggeriscono quasi la fragola; in secondo piano biscotto e caramello, qualche accenno di marmellata. La sensazione palatale è buona, con quella scorrevolezza necessaria in una session beer ed una carbonazione contenuta. Il gusto mostra buona corrispondenza con l'aroma: caramello e biscotto, ciliegia, un finale amaro nel è protagonista il terroso. Buon equilibrio e semplicità in una bitter da bere ad oltranza nella quale emerge il carattere inglese: il livello è buono, c'è pulizia e una discreta intensità, non ci sono difetti. Personalmente cercherei tuttavia di controllare meglio gli esteri per valorizzare ulteriormente la componente maltata e tirare fuori quel carattere nutty, quella frutta secca che non dovrebbe mai mancare in queste birre. C'è anche qualche passaggio un po' slegato, nella quale acqua e sapori appaiono su due livelli paralleli e quella sensazione acquosa, anche in una birra così leggera  non ci dovrebbe essere. Come primo tentativo di bitter direi che il risultato è soddisfacente, è una birra gradevole da bere che non stanca e può tenere compagnia per tutta la serata.
Come al solito per le birre prodotte in casa, ecco la valutazione su scala BJCP:  37/50 (Aroma 8/12, Aspetto 3/3, Gusto 15/20, Mouthfeel 4/5, impressione generale 7/10).

Attraversiamo ora l'oceano atlantico per assaggiare l'American IPA chiamata Bitter Soul (5.9%). Nel pentolone ci finiscono malti Maris Otter, Pilsner, Munich I, Carapils e CaraRed, luppoli Citra e Mosaic sia in bollitura che in aroma: il lievito è l'immancabile US-05. 
Anche lei è quasi limpida (chiarificata con crash cooling e gelatina alimentare) e si presenta di color oro antico: impeccabile la schiuma biancastra, cremosa, compatta, molto persistente. Non c'è molta intensità nell'aroma ma la pulizia e gli elementi giusti non mancano: sarebbe importante valorizzarli tirandoli fuori maggiormente. Mango, ananas, melone, accenni di frutti di bosco tipici del Mosaic, pompelmo. La sensazione palatale è gradevole ma il gusto fa purtroppo un passo indietro: se la scarsa intensità aromatica non era un dramma, al gusto le cose si complicano. E' una IPA con un grosso freno a mano tirato sostenuta da una base maltata di pane e biscotto: da qui in poi il palcoscenico dovrebbe essere in mano ai luppoli ma ciò non accade. Si procede con passo dimesso e poco definito: qualche ricordo di frutta tropicale ma sopratutto un amaro molto poco incisivo e corto, nel quale domina un carattere vegetale a sostituire quella resina o quel pompelmo che vorrei trovare in una Ipa a stelle e strisce.  C'è anche una leggera sensazione di tostato. Una maggior attenuazione le gioverebbe sicuramente, l'alcool è ben gestito: c'è equilibrio ma manca mordente e anche questa birra appare un po' slegata in alcuni passaggi. Parecchi aspetti da rivedere e migliorare in una IPA senza off-flavors evidenti: bevibile ma certamente non memorabile.
Questa la valutazione su scala BJCP:  28/50 (Aroma 7/12, Aspetto 3/3, Gusto 9/20, Mouthfeel 4/5, impressione generale 5/10).
Ringrazio Andrea per avermi fatto assaggiare le sue birre e spero che le mie indicazioni possano in qualche modo essere utili per migliorare.
Nel dettaglio:
Best Bitter, formato 66 cl., alc.4.3%, IBU 30.
Bitter Soul IPA, formato 66 cl., alc. 5.9%, IBU 50, imbott. 04/2018

lunedì 14 maggio 2018

Moor Stout

Ritorna sul blog il birrificio inglese Moor, fondato nel 1996 da Freddy Walker, chiuso nel 2005 e poi rilevato nel 2007 dall’attuale proprietario Justin Hawke, un californiano la cui formazione brassicola è passata attraverso quattro anni in Germania nell’esercito americano, viaggi in Inghilterra assieme al padre a bere Real Ales e l’homebrewing a San Francisco. Hawke ha lentamente sostituito le birre della precedente gestione con ricette più moderne che utilizzano spesso luppoli extra-europei.  Sino al 2014 il birrificio ha operato negli edifici di un ex caseificio sperduto nella campagna del Somerset: in quell’anno è avvenuto finalmente il trasloco a Bristol, nel sobborgo industriale di St. Phillips, dove ha trovato posto il nuovo impianto da 20 barili, la nuova linea per la produzione di lattine e anche la “Brewery Tap”, aperta dal mercoledì alla domenica. 
Moor è ormai presenza fissa anche nei beershop e nei locali italiani, con importazioni regolari. E proprio pensando all’Italia nacque nel 2014 la Stout: una birra  “senza pretesa, facile da bere, un classico. La birra artigianale a volte è un po’ sciocca; spesso vogliamo bere qualcosa che sia semplicemente godibile, non qualcosa di curioso che dobbiamo provare per poterla spuntare da una lista.  I nostri amici italiani ci hanno chiesto se avessimo preso in considerazione una richiesta così semplice. Niente capelli da unicorno, polvere solare o unghie di qualche personaggio famoso. Se volete pontificare fatelo, ma intanto bevete e godetevi  quello che avete nel bicchiere. Salute!”
Questo il modo in cui il birrificio inglese presenta la propria stout, oggi disponibile tutto l’anno anche per il mercato domestico: una birra per l’appunto semplicemente chiamata stout.

La birra.
Il suo vestito è di color ebano, prossimo al nero: la schiuma è generosa, cremosa e compatta e mostra un’ottima persistenza. L’aroma non è evidentemente il punto di forza di questa lattina: l’intensità è davvero bassa e si fatica per avvertire i profumi di orzo tostato e caffè, esteri che richiamano i frutti di bosco “scuri”.  Si tratta comunque dell’unico punto debole di una birra che mantiene quanto promesso: nessun fronzolo, buona da bere. E si parte proprio bene con una sensazione palatale piuttosto gradevole: è leggera ma non troppo, leggermente morbida. Scorre senza che tu te ne accorga ed è attraversata da una notevole intensità a fronte di un contenuto alcolico (5%) da (quasi) session beer. Il dolce del caramello bilancia con precisione l’amaro delle tostature, del caffè e della liquirizia, di tanto in tanto fa anche capolino qualche ricordo di cioccolato fondente.  Si chiude con una buona secchezza, una leggera acidità data dai malti scuri e un gradevole amaro dove il torrefatto incontra qualche nota luppolata terrosa.   
La stout di Moor è molto pulita e ben fatta, rispettosa della tradizione, elogio della semplicità: quelle birre che le moda e l’hype ovviamente ignorano ma che sarebbe deleterio se non esistessero. Una stout che vi rinfrescherà se la berrete leggermente refrigerata; lasciatele invece raggiungere la temperatura ambiente se volete avvertire un lieve tepore etilico, quella piccola carezza di conforto che personalmente vorrei sempre sentire quando ordino una stout.
Formato 33 cl., alc. 5%, lotto 809ST011, scad. 01/06/2018, prezzo indicativo 4.50-5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 11 maggio 2018

Vicaris Tripel Gueuze

Del birrificio belga Dilewyns vi avevo già parlato in più di un occasione: siamo a Dendermonde, dove Vincent Dilewyns  riporta in vita la tradizione  brassicola della propria famiglia, un tempo birrai, interrotto con l’avvento della seconda guerra mondiale.  Nel 2005, dopo anni molte birre fatte in casa che raccolgono consensi da parenti e amici, si rivolge all’onnipresente De Proef per realizzare la Vicar Tripel su grande scala: il debutto è positivo, tanto che allo Zythos Festival dello stesso anno venne premiata. I risultati ottenuti e la limitata disponibilità degli impianti di De Proef convincono Vincent a lasciare la sua occupazione di dentista per dedicarsi a tempo pieno a quella di birraio: nel 2010 partono i lavori di costruzione del birrificio a Dendermonde che viene inaugurato a Maggio del 2011. Oltre a Vincent, supervisore delle ricette, a coordinare la produzione c’è la figlia Anne-Catherine che nel frattempo è diventata anche birraia: la parte commerciale viene invece gestita dall’altra figlia Claire. 
Ma torniamo ai primi anni di vita del marchio Vicaris. In uno dei tanti festival in Belgio, il piccolo stand di Dilewyns si trova giusto di fronte a quello di Girardin, noto produttore di lambic:  a quanto pare,  colui che si trovava al banco di Girardin chiese a Vincent d’assaggiare un goccio della sua tripel e gli porse il bicchiere, dimenticando però di vuotarlo completamente. Ne venne fuori un blend “involontario” ma molto piacevole di gueuze e tripel che anche Dilewyns assaggiò restandone colpito. Quell’episodio dece nascere ai due birrifici l'idea di realizzare anche su scala commerciale un blend delle due birre, arrivando dopo alcuni esperimenti (sembra sia stato necessario pastorizzare quattro volte la gueuze) a presentare la Vicardin (questo il nome scelto in origine) allo Zythos del 2007..  o forse era il 2008?
Nel 2012 la Vicardin è stato rinominata da Dilewyns Vicaris Tripel-Gueuze e da allora viene solitamente prodotta una volta all’anno: l’edizione 2018 è stata annunciata giusto la settimana scorsa.

La birra.
Acquistata nel 2015, “scaduta” a marzo 2018:  queste le uniche informazioni in mio possesso su questa  bottiglia di Vicaris Tripel-Gueuze della quale ignoro la data di nascita. Informazione abbastanza importante quando si parla di fermentazioni spontanee e lieviti selvaggi.
Nel bicchiere è di color arancio carico, con venature ramate e forma una generosa testa di schiuma compatta dall’ottima persistenza. E’ l’anima gueuze a dare il benvenuto aromatico, perlomeno finché la schiuma rimane: gli odori di cantina, muffa, sudore e limone si fanno poi lentamente da parte lasciando emergere la tripel. Arrivano profumi di biscotto e zucchero candito, frutta gialla, canditi, una flebile speziatura (pepe) ormai sul viale del tramonto. Il naso è pulito e gradevole, ma più che un incontro tra due birre c’è di fatto un passaggio di consegne: quando esce di scena la prima, entra la seconda. Al palato è invece ancora piuttosto viva e sostenuta da una vivace carbonazione. La bevuta vede un ribaltamento nell’ordine dei fattori: si parte dal dolce della tripel, dal suo zucchero candito, dal biscotto e dai canditi, dalla frutta sciroppata a pasta gialla per poi sentire avanzare l’asprezza e l’acidità della gueuze.  Arrivano note di uva bianca, limone, marcate sensazioni minerali, a tratti saline, una lieve acidità lattica a stemperare il dolce e a rendere una tripel da 7% secca, sorprendentemente rinfrescante e dissetante:  si chiude con un leggero amaro terroso e di scorza di limone, ma nel retrogusto c’è già un timido ritorno di frutta candita, e un timido tepore etilico a dare qualche avvertimento a chi si trova con il bicchiere in mano. 
Un mesh-up gradevole e senz'altro divertente questa Vicaris Tripel Gueuze: un percorso interessante che parte con la morbida accoglienza di una tripel per poi divenire più ruspante e ruvido. C’è una bella complessità da scoprire anche se le sue due componenti in più occasioni tendono a viaggiare su due binari paralleli, anziché fondersi in un unico abbraccio. Dettagli che comunque non mettono in discussione una bella bevuta: mi sembra reggere la cantina abbastanza bene ed è quindi una potenziale candidata per potenziali bevute "in verticale".
Formato: 33 cl., alc. 7%, scad. 31/03/2018, prezzo indicativo 3.50-4.50 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.