venerdì 13 marzo 2015

De Molen Heen & Weer

Non mi capita molto spesso di bere De Molen, il birrificio fondato nel 2004 da Menno Oliver a a Bodegraven, Paesi Bassi, nel centro di un ipotetico triangolo che ha come vertici Amsterdam, Utrecht e Rotterdam; quando l’ho incontrato alla spina, le bevute sono state tutte più o meno soddisfacenti.
Non posso dire lo stesso per le bottiglie; ripercorrendo a ritroso l’elenco di De Molen sul blog, devo risalire sino al 2011 per registrare le positive Op & Top, Lente Hop ed Amerikaans ma dopo di loro ci sono stati sempre dei problemi più o meno evidenti. Solo discreta la Super Charged Saison realizzata con Hoppin Frog (lotto 2012), godibile ma con gushing e bollicine in abbondanza la Triple Stout SSS (lotto 17/02/2010), disastrosa invece la Rasputin imbottigliata il 13/09/2012.
Faccio un nuovo tentativo con una bottiglia, questa volta del 2014. Si tratta di una Tripel chiamata Heen & Weer che significa semplicemente “avanti e indietro”; il birrificio olandese non è mai stato particolarmente brillante nella scelta dei nomi delle proprie birre, il che può essere anche comprensibile quando se ne sfornano diverse centinaia.
Ma nel caso di questa birra la scelta – o per lo meno la sua motivazione – è abbastanza risibile e forse non era il caso di riverlarla. Cito testualmente: “il nostro birrificio è diviso in due. Ad un’estremità del centro del paese ci sono il birrificio ed il ristorante, mentre dalla parte opposta si trovano due edifici che utilizziamo come magazzino e deposito. Qui è dove le nostre birre fermentano e maturano e vengono conservate sino al momento della spedizione in giro per il mondo. Dopo aver prodotto la birra, i fermentatori pieni vengono portati dal birrificio al magazzino con un muletto. E i fermentatori vuoti vengono riportati al birrificio. Quindi andiamo continuamente “avanti e indietro” con le birre”.
Heen & Weer, quindi, una Abbey Tripel speziata con coriandolo e luppolata con Premiant e Saaz che si presenta di colore ambrato opaco piuttosto carico, con qualche venatura ramata; la schiuma ocra è compatta e cremosa ed ha una buona persistenza. Al naso, piuttosto dolce, banana matura, ciliegia, zucchero caramellato, miele e biscotto; in sottofondo c’è la speziatura di coriandolo e alcuni sentori che ricordano quasi una torta all’arancia. C’è anche però una leggera presenza di verdure cotte.  Al palato arriva un po’ troppo carente di bollicine per lo stile; il corpo è medio e la consistenza oleosa. Il gusto è sciropposo e molto dolce, con canditi, miele, uvetta che dominano la base maltata di biscotto e leggero caramello; la bevuta non è particolarmente impegnativa e l’alccol (9.2%) è molto ben controllato ma fallisce nell’asciugare almeno in parte la deriva dolciona che caratterizza questa Tripel. Inutile anche il timido amaro erbaceo finale, non particolarmente raffinato:  ne viene fuori una birra stucchevole, e troppo poco attenuata, opulente ma un po’ cafona, poco elegante, per nulla vivace (carbonata) e non particolarmente pulita. Devo purtroppo registrare un’altra mezza delusione in bottiglia, signor De Molen.
Formato: 33 cl., alc.  9.2%, IBU 42, imbott. 19/02/2014, scad. 19/02/2019.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 12 marzo 2015

Prairie Artisan Ales Prairie Ale

I fratelli Chase e Colin Healey li avevamo già incontrati in questa occasione; entrambi hanno alla spalle un lungo passato da homebrewers e Chase, il più esperto dei due, anche un lavoro da birraio prima  alla COOP Ale Works e poi alla Redbud , Oklahoma. Nel 2011 è proprio una birra che produce per la Redbud ad attirare l’attenzione del famoso distributore (ed importatore) Shelton Brothers: si tratta della Cuvee Three, una saison rifermentata con lieviti da champagne e dry-hopping di Simcoe. Le altre birre della Redbud non sono esattamente capolavori, ma quelli della Shelton intuiscono il potenziale che c’è in Chase e si appuntano il suo nome sul taccuino per tenerlo d'occhio.
Invece Chase Healey “sparisce” letteralmente dalle scene e neppure quelli di Shelton riescono a rintracciarlo; lascia la Redbud per mettere in piedi il suo progetto-beerfirm; per la produzione s’appoggia alla Krebs Brewing Co.  (Choc Beer) di Kreba, in Oklahoma. E’ lui stesso a rifarsi vivo alla Shelton Brothers, undici mesi più tardi, presentando la sua creatura Prairie Artisan Ales ed ottenendo il permesso di inviare alcuni campioni della sua prima birra, semplicemente chiamata Prairie Ale; la prima cosa che colpisce anche i distributori è la splendida etichetta, un adattamento di un dipinto ad olio realizzato da Colin, il fratello di Chase. 
Il resto è storia recente; la produzione di Prairie continua in gran parte alla Krebs mentre a dicembre 2013 è stato inaugurato anche il birrificio vero e proprio di Prairie con annessa taproom a Tulsa, in Arizona: qui ci si concentra soprattutto sugli invecchiamenti in botte.
Detto della splendida etichetta, è il momento di parlare della birra. Una saison prodotta con malto pilsner, frumento maltato, frumento in fiocchi, zucchero di canna ed abbondante luppolatura di Saaz; più “complessa” la fermentazione, che avviene con un mix di lieviti saison, lieviti da vino e brettanomiceti.
Classico colore arancio, velato, con schiuma abbondante ma un po’ grossolana, bianca e non molto persistente. L'aroma apre con una delicata nota pepata, subito incalzata dal lattico dei brettanomiceti: c'è una bell'alternanza tra l'eleganza dei fiori di campo, della polpa d'arancio, dell'ananas e della mela verde e la rusticità dei sentori di cantina e stantio, di sudore e di sughero portati dai lieviti selvaggi. Ottime premesse che vengono confermate in pieno al palato: birra dal corpo leggero e vivacemente carbonata che scorre come se fosse acqua. Nessuna indicazione in etichetta per determinare l'età di questa bottiglia, ma anche al palato i brettanomiceti sono ben presenti, contrariamente ad alcune altre birre che li sbandierano solamente in etichetta. E la soddisfazione è grande: crosta di pane, note dolci di ananas, pesca e polpa d'arancio che se la giocano con quelle lattiche ed aspre di uva bianca. Secchezza impeccabile, leggero carattere vinoso, impossibile indovinarne la gradazione alcolica (sarebbe 7%) perché è una birra che berresti a secchiate: la chiusura è amara, principalmente lattica, con qualche nota erbacea. Birra pulitissima, elegantemente rustica, che disseta e rinfresca come se non ci fosse un domani: la forza della semplicità, ovvero pochi elementi (ingredienti), ben assemblati  et voilà, la festa è servita.
Formato: 75 cl., alc. 7%, IBU 25 (?), lotto e scadenza non riportati, pagata 14.12 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 11 marzo 2015

Thornbridge Jaipur X

Il 2015 è l’anno del decimo compleanno del birrificio inglese Thornbridge, situato all'interno del Peak District National Park nel Derbyshire inglese; la loro storia ve l’avevo brevemente raccontata qui.
Si prospetta quindi un periodo ricco di festeggiamenti, che sono iniziati il mese scorso con la realizzazione della prima birra celebrativa: la Jaipur X. Per l’occasione è stata realizzata una versione “imperiale” della birra che ha maggiormente contribuito al successo del birrificio, rappresentando al tempo stesso anche una “pietra miliare” per la rivoluzione brassicola che ha lentamente contagiato tutta l’Inghilterra, e Londra in particolare: a quel tempo non esistevano ancora BrewDog e Kernel, giusto per intenderci.
Prodotta per la prima volta il 7 giugno del 2005, la Jaipur prese il suo nome dall’omonima cittadina indiana dove Jim ed Emma Harrison, proprietari di Thornbridge, si erano sposati. La ricetta fu elaborata da Stefano Cossi (appena arrivato a Thornbridge dalla Sheffiled Brewery) e da quel Martin Dickie che poco tempo dopo ritornò in Scozia per fondare BrewDog: ispirata dalle IPA americane, anziché a quelle della vicina Burton-Upon-Trent, venne inizialmente prodotta esclusivamente con malto Maris Otter al quale fu poi aggiunto un tocco di Vienna: la luppolatura iniziale prevedeva Chinook ed  Ahtanum, al quale si è successivamente aggiunto il Centennial e, di recente, il Warrior.
Per il decimo compleanno di Thornbridge ne viene realizzata una versione “imperiale” che celebra il numero 10 nel nome, sul tappo, nell’etichetta sul collo della bottiglia e, soprattutto nella gradazione alcolica; debutta lo scorso febbraio in alcuni pub inglesi, irlandesi e danesi, mentre le bottiglie disponibili sul sito internet del birrificio vanno sold out in meno di due ore.  Proprio oggi, 11 marzo, dovrebbe essere disponibile la seconda cotta di Jaipur X.
All’aspetto è di colore oro carico velato, con un discreto cappello di schiuma bianca, fine e cremosa, dalla buon persistenza. L’aroma non è d’intensità esplosiva ma è molto pulito ed elegante, senza sconfinare nel “cafone”: una ricca macedonia di frutta tropicale (ananas, melone retato, mango) e agrumi (mandarino,  pompelmo); in secondo piano le note maltate di crosta di pane e un accenno di miele. Il dolce annunciato al naso si ritrova, in maniera predominante, anche in bocca: qui la frutta è quasi candita, piuttosto che fresca. Ci sono melone, ananas, passion fruit e litchi, su una base di pane e biscotto; l’alcool si sente e riscalda la bevuta senza andare mai oltre il necessario mentre l’amaro (resinoso, vegetale e leggermente pepato), non diventa mai protagonista ma riesce solamente a bilanciare il dolce, lasciandomi abbastanza insoddisfatto. La chiusura è comunque abbastanza secca, anche se non ai livelli delle migliori DIPA californiane, mentre il retrogusto è quasi dolce, di frutta sotto spirito, con un discreto warming etilico.
Nonostante i 10 gradi dichiarati, la bevuta non è comunque impegnativa, presentando il conto solo alle fine;  morbida e abbastanza scorrevole, ha corpo medio, consistenza oleosa e poche bollicine. La freschezza di questa bottiglia è attualmente l’elemento fondamentale che ne bilancia il suo carattere piuttosto dolce; affrettatevi  quindi a berla, prima che la situazione peggiori. 
Una versione “pompata” della Jaipur pulita e ben fatta  che, se devo dire la verità, non mi ha convinto del tutto; le preferisco di gran lunga quella “normale”, e quindi per quanto mi riguarda la festa del decimo compleanno del birrificio inglese è riuscita solo per metà.
Formato 50 cl., alc. 10%, scad. 02/02/2016, pagata 6.00 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 10 marzo 2015

Weihenstephaner Original Helles

Hell significa "leggero" in tedesco, ed Helles è il sostantivo che indica "qualcosa di leggero"; nell'esempio in questione, la birra di Monaco di Baviera, ci si riferisce sopratutto al colore: dorato. Per lungo tempo le Helles sono state le birre più popolari in Baviera ma oggi - leggo - sono state superate dalla Hefeweizen. 
Il German Beer Institute segnala come le Helles sarebbero uno dei pochi stili brassicoli con una precisa data di nascita: "il 21 marzo 1894 il birraio della Spaten di Monaco, spedì il primo fusto al porto di Amburgo. Alla Spaten non erano ancora consapevoli di aver appena realizzato quello che poi si rivelò essere il più agguerrito concorrente delle Pilsner che arrivavano dalla vicina Boemia. Le prove qualitative realizzate ad Amburgo furono superate ed il 20 giugno 1895 gli abitanti di Monaco furono in grado di assaggiare il loro primo fusto di Helles".
Della Bayerische Staatsbrauerei Weihenstephan vi ho già parlato in questa occasione e quindi passiamo senza indugi all'assaggio.
Perfettamente dorata e limpida, forma un'impeccabile cappello di schiuma bianca, compatta, fine e cremosa, dall'ottima persistenza. L'aroma offre sentori di miele millefiori, pane, fetta biscottata, croissant al burro: la pulizia c'è, anche se il miele tende a coprire un po' troppo gli altri elementi. 
Al palato arriva con una carbonatazione abbastanza contenuta, corpo leggero e una consistenza spiccatamente acquosa per garantire il massimo di facilità e velocità di bevuta. Anche in bocca è il miele a dominare, con una corrispondenza pressoché perfetta con l'aroma: pane e fetta biscottata. La bevuta è piuttosto dolce e "mielosa" eppure il palato non viene mai saturato né si ritrova appiccicoso, grazie ad un delicata e velocissima chiusura amara erbacea; rimane da registrare una leggerissima nota metallica, unico neo in una birra altrimenti pulita e gradevole ma ben lontano dall'essere "fragrante pane liquido". Il confronto con quest'altra Helles prodotta fino a poco fa in un Garage di Monaco di Baviera è davvero impietoso.
Formato: 50 cl., alc. 5.1%, IBU 21, scad. 24/11/2015, pagata 0.83 Euro (Germania)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 9 marzo 2015

Malarazza Nura

Secondo appuntamento con Birra Malarazza, la beerfirm siciliana che vi presentato qualche settimana fa, due al momento le birre disponibili in bottiglia, più una terza che potete trovare alla spine del Queen Makeda di Roma. Dopo la Nanai, ed in attesa di alcune novità che dovrebbero arrivare nel corso del 2105, ecco la Nura,  una blonde/golden ale dall’etichetta molto curata ed illustrata da Federico Tramonte; anche per questa birra c’è un ingrediente a creare un legame diretto con il territorio, ovvero la scorza di limone di Siracusa IGP:  i suoi mille coltivatori e 5.300 ettari di terreno costituiscono circa il 34% del raccolto italiano totale. Il limone di Siracusa IGP appartiene alla cultivar  “Femminello siracusano” ed è così chiamato per via della notevole fertilità della pianta, che fiorisce tre volte l’anno, producendo tre frutti con diverse caratteristiche: il “primofiore” (matura da ottobre a marzo), il “bianchetto” (aprile-giugno) ed  il “verdello” (luglio-settembre). L’agrume, che proviene dall’Azienda Agricola Biologica Jancarossa di Siracusa, viene lavorato completamente a freddo e pelato a mano prima di essere infuso a fine bollitura. 
Ecco “Nura”, una birra “nuda” (in siciliano) ovvero elaborata per valorizzare il più possibile il limone di Siracusa: si spiega la scelta di una delicata luppolatura (cascade, amarillo e willamette)  e soprattutto di un lievito “neutro” e non caratterizzante.  
Nel bicchiere è di color oro, tendente all’antico, leggermente velato; il cappello di schiuma che si forma è fine e compatto, cremosa, ed ha un’ottima persistenza. Il naso è pulito e ancora molto fresco, tutto sommato semplice ma intenso: protagonista il limone, sia fresco (immaginate di tagliarne uno a metà) che candito, affiancato dai profumi di altri agrumi; cedro, mandarino e, man mano che la birra si scalda, arancia.
In bocca c’è una base di pane e leggero biscotto, un accenno di miele, veloce preludio ad un gusto ovviamente caratterizzato dagli agrumi gialli:  l’amaro e l’aspro della scorza sono bilanciati da lievi note quasi sciroppose di limone e di canditi. La bevuta procede molto ben equilibrata, con una discreta secchezza finale e un amaro spiccatamente “zesty” (limone e pompelmo giallo); in bocca è un pelino meno pulita che al naso, ma Nura mantiene comunque un ottimo potere rinfrescante e dissetante, che potrebbe diventare ancora più elevato se ci fosse un’attenuazione ancora maggiore.
Con un facilità di bevuta paragonabile a quella di una session beer, Nura è una golden ale ben fatta, intensa, e ruffiana quanto basta per desiderarne molto più di un solo bicchiere, soprattutto nei giorni più caldi dell’anno.
Ringrazio Birra Malarazza per avermi inviato la bottiglia da assaggiare.
Formato: 33 cl., alc. 5.1%, IBU 38, lotto 43/14, scad. 10/2015

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 8 marzo 2015

HaandBryggeriet Fatlagret Porter (Akevitt Porter)

Ritorna il birrificio norvegese  HaandBryggeriet, una quarantina di chilometri a sud di Oslo, fondato nel 2005 a Drammen da quattro appassionati homebrewer (e bevitori): Jens Maudal, Arne Eide, Rune Eriksen e Egil Hilde. Dei quattro, è Jen Maudal quello che realizza la maggior parte delle ricetta.
Sul blog sono già transitate  Dobbel DosePale Ale e  Fyr og Flamme IPA, e soprattutto le impegnative Dark Force, Norse PorterOdin's Tipple, che contribuiscono a perpetuare l'immagine (un po' stereotipata ma non troppo) delle "scure imperiali" scandinave  catramose, masticabili e da trattare con la dovuta cautela.  
Oggi è la volta della Fatlagret Porter, letteralmente "porter invecchiata", che viene affinata in botti  di rovere ex-Akevitt.
Akevitt, Akvavit, Aquavit o Snaps che dir si voglia, è un distillato (tipicamente da frumento o patate) particolarmente diffuso nei paesi scandinavi: maggior produttore ne è la Svezia, seguita da Danimarca e Norvegia. Le prime notizie sulla produzione risalgono al quindicesimo secolo: nel 1498 a Stoccolma venne concessa la prima licenza di vendita, impiegata soprattutto a fini medicinali. 
L'Aquavit è abbondantemente aromatizzata con erbe e spezie (tipicamente cumino, aneto, cardamomo, anice e finocchio) ma non viene solitamente invecchiata; fa eccezione quella norvegese, che invece matura in botti di rovere. Questa tradizione pare derivi da un curioso incidente avvenuto nel diciannovesimo secolo, quando un distillatore norvegese aveva spedito dei barili in Australia; le vendite non furono buone, e cinque barili invenduti furono rispediti in Norvegia dopo un po' di tempo. Al loro arrivo, il produttore notò come il distillato risultasse più morbido e ricco:  il miglioramento fu attribuito, oltre che alla permanenza in botte, agli scuotimenti subiti nella stiva della nave e alle variazioni climatiche incontrate nel viaggio oceanico. Ancora oggi, i barili della Linie Aquavit vengono caricati su una nave e spediti in giro per il mondo; sul sito del produttore, inserendo la data impressa sulla bottiglia è possibile risalire all'esatto itinerario percorso.
E' una consuetudine scandinava anche abbinare la bevuta di Aquavit a quella della birra, alternandone la sorsata: i puristi (di Aquavit) saranno ovviamente in disaccordo.
Un tempo chiamata Akevitt Porter e poi rinominata Fatlagret, è assolutamente nera con una compatta e cremosissima testa di schiuma nocciola, molto persistente. Al naso c'è pulizia ed una bella intensità data dal caffè in grani, dall'orzo tostato, dalla liquirizia; in sottofondo sentori di cioccolato, di vaniglia, erbe aromatiche (ginepro), anice. Perfetta la sensazione palatale, che non tradisce gli standard scandinavi quando si tratta di imperial porter/stout:  morbidissima, corpo tra medio e pieno, poche bollicine; questa riesce ad essere avvolgente e cremosa senza raggiungere il livello "masticabile". Il gusto è complesso e tutto da scoprire: oltre a caffè, tostature, liquirizia e cioccolato ci sono note più dolci di fruit cake, caramello e melassa. La ricchezza d'inizio bevuta è poi miracolosamente bilanciata nel finale, prima dall'acidità del caffè e poi, oltre che dalla luppolatura, dall'effetto del passaggio in botte di Akevitt: la chiusura è infatti delicatamente speziata (aneto, cumino, ginepro) e quasi "rinfrescante"  per il palato, che può ora godersi il retrogusto caldo e morbido di caffè e cioccolato amaro. L'alcool (9%) è controllato molto bene, accarezza tiepidamente tutta la bevuta per poi dare un leggero "colpo" solamente a fine corsa.
Imperial Porter sorprendente, pulitissima e relativamente facile da bere, lontanissima da quegli estremismi catramosi scandinavi piuttosto difficili da digerire: in questa birra  davvero raffinata c'è intensità ed equilibrio tra tutti le componenti, inclusi quelli più insoliti (cumino, ginepro) la cui presenza è davvero leggerissima e non deve assolutamente "intimorire" anche chi non ama queste spezie.
Bevuta davvero sontuosa: se vi capita a tiro, non esitate.
Formato: 50 cl., alc. 9%, lotto 602, imbott. 10/05/2013, scad. 10/05/2016, pagata 7.80 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 7 marzo 2015

Birra Perugia American Red Ale

Nuovo appuntamento con Birra Perugia, il birrificio del capoluogo umbro che vi ho presentato in questa occasione; termino per il momento i miei assaggi con quella che in verità è stato la prima Birra Perugia da me bevuta, nel 2014, in un ristorante di Norcia. A quel tempo non presi appunti ma pensai soprattutto a gustarmi cibo e birra, e l'American Red Ale non finì poi sul blog. 
E' una delle birre due con le quali Birra Perugia ha iniziato la propria avventura nel 2013, assieme alla Golden Ale; il birrificio perugino è tra l'altro fresco fresco di medaglia d'oro a Birra dell'Anno 2014, conquistata (meritatamente, direi) dalla Calibro 7 nella categoria 8, American Pale Ale.
La ricetta dell'American Red Ale  prevede invece malti Pils e Monaco, frumento, ed un luppolatura di Mosaic, Amarillo e Citra.
Davvero splendida nel bicchiere, di colore ambrato leggermente velato con bellissimi riflessi che vanno dal rosso rubino al ramato; la schiuma, ocra, è finissima e cremosa, compatta, molto persistente. L'aroma, ancora fresco, è molto elegante e pulito ed offre i profumi di pompelmo e mango, passion fruit e melone, frutti rossi (soprattutto fragola) con in sottofondo il caramello ed il biscotto. Molto gradevole anche il mouthfeel, che trova un compromesso ideale tra la scorrevolezza e la necessità, per una birra dal contenuto alcolico discreto (6%) di far comunque sentire la propria presenza: il corpo è medio, e la carbonatazione è piuttosto contenuta.
L'ingresso dolce di caramello e biscotto è rassicurante anche per un palato poco abituato ai sapori intensi della cosiddetta "birra artigianale"; il dolce continua con delle note tropicali che richiamano l'aroma ma questa American Red Ale non è esattamente quella birra "mansueta" che i primi istanti di bevuta potrebbero far pensare. L'amaro, vegetale e leggermente resinoso, è veloce ad arrivare, con una bella intensità (nonostante le IBU dichiarate siano solo 20) ed un ottimo livello di eleganza senza nessun eccesso asfalta-palato. La sua bevibilità è ottima, quasi da session beer, così come la pulizia e l'equilibrio, impeccabile nell'allontanare qualsiasi deriva "dolciona"; birra molto ben fatta, che ci mette davvero poco a scomparire dal bicchiere e che rimane, secondo me, una delle migliori produzioni di Birra Perugia, alla pari dell'ottima Calibro 7. Ringrazio il birrificio per avermi inviato la bottiglia da assaggiare.
Formato: 33 cl., alc. 6%, IBU 20, lotto 3914, scad. 10/2015.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 6 marzo 2015

Gold Ochsen August's Bock

A Neu-Ulm, in Baviera, viene fondata nel 1597 da Gabriel Mayer la Brauerei Gold Ochsen (“il bue d’oro”), poi acquistata nel 1867 da Johann Michael Leibinger;  più o meno nello stesso anno (1854) quattro immigrati tedeschi fondano nel Minnesota New Ulm. Fatta la città, bisogna dare da bere agli assetati ed ecco che nel 1860 August Schell, sulle rive del fiume Cottonwood, pone il primo mattone per la costruzione della August Schell Brewing Company: diventerà il maggiore (ed il più antico)  produttore di tutto il Minnesota.
Oggi i birrifici sono ancora guidati dai discendenti di quinta generazione delle famiglie Schell e Leibinger; venuti in contatto (suppongo) per via di una sorta di gemellaggio tra le due città, hanno deciso di realizzare un birra collaborativa all’inizio del 2013, scegliendo il nome in comune tra i loro antenati: August.
La ricetta elaborata assieme è quella di una  Doppelbock “chiara”, realizzata nei rispettivi paesi con la stessa tipologia di malti, acquistati localmente  (Pilsner, Munich, Abbey e Carapils) e di luppoli  tedeschi (Tettnang, Saphire e Smaragd). Diverso invece il dry-hopping; la versione della Gold Ochsen utilizza il Mandarina Bavaria, mentre quella della August Schell il Polaris.
L'August's Bock si presenta nel bicchiere di color ambrato, appena velato, con una generosa e “croccante” testa di schiuma avorio, cremosa e dalla buona persistenza. L’aroma è pulito e ancora fragrante, ed ha una buona intensità: crosta e mollica di pane nero, miele d’arancio, uvetta, ciliegia sciroppata; il dry-hopping di Mandarina le dona una leggera componente agrumata.
Al palato viene perfettamente rispettata la tradizione tedesca che richiede la grande facilità di bevuta: corpo medio e poche bollicine, in una birra morbida che riesce ad essere scorrevole e “presente” allo stesso tempo.  Il gusto corrisponde sostanzialmente all’aroma, con biscotto, pane (bianco, anziché nero) e miele, lieve caramello, uvetta; molto ben nascosto l’alcool, con il dolce che viene poi bilanciato da una leggera nota amaricante finale di mandorla amara ed erbacea, che pecca però di eleganza e presenta una leggera astringenza.
Una discreta Doppelbock, onesta e gradevole, pulita e fragrante, che si lascia bere con soddisfazione inclusa, non da ultima, quella del prezzo tedesco che rappresenta sempre uno shock (in positivo) rispetto a quelli italiani.
Formato: 50 cl., alc. 7.1%, IBU 43, lotto 07258, scad. 02/10/2015, pagata 0.96 Euro (beershop, Germania)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 5 marzo 2015

The Commons Urban Farmhouse Ale

Il meteo certamente non la favorisce, e Portland non esercita lo stesso fascino di San Diego agli occhi del birrofilo che vuole programmare una vacanza negli Stati Uniti (anche se nei quattro giorni passati a San Diego in pieno agosto io non ho visto un solo raggio di sole, aimè ). Eppure, guardando i numeri, la cittadina dell’Oregon è a tutti gli effetti una vera e propria mecca per ogni appassionato bevitore di birra: i 58 birrifici (che diventano 89 se si considera l’intera aerea metropolitana) la rendono attualmente la città al mondo con il maggior numero di birrifici.  Dal 2010 a tutt’oggi, a Portland si spendono più soldi in birra che in qualunque altra città americana: su 100 dollari spesi nel settore “Grocery” (beni di largo consumo) 39 sono stati utilizzati per acquistare “craft beer”. E se i freddi numeri non fossero sufficienti, basterebbero solo i nomi di questi birrifici per farvi pianificare subito un viaggio:  Hair of the Dog, Cascade Brewing Co., Deschutes, Upright e, tra quelli che si trovano spesso in Italia, Rogue ed Alameda.
Leggendo la storia della Commons Brewery, ben descritta sul sito ufficiale, si ha un po’ la sensazione di deja-vu. Un homebrewer (Mike Wright, californiano) che nel 2009 va a bussare alla porta di qualche banca per ottenere un prestito necessario ad installare un “nano” birrificio nel proprio garage e invece trova le solite porte chiuse. E’ solo grazie ai fondi raccolti tramite una decina d’investitori privati che riesce ad acquistare l’attrezzatura necessaria e ad ottenere l’insperata autorizzazione dalle autorità della OLCC (Oregon Liquor Control Commission) ad operare commercialmente dal proprio garage.
A giugno 2010 nasce ufficialmente il birrificio Beetje - una parola fiamminga che significa appunto “piccolo”-  con l’intenzione di fare soprattutto le birre che piacciono a Mike: bassa gradazione alcolica, grande facilità di bevuta, funzione  “aggregante” (“Gather Round Beer”, è lo slogan scelto) e da condividere con amici e familiari, ispirate principalmente dalla tradizione belga. L’anno successivo è già il momento di ingrandirsi, passare ad un impianto da 7 barili, acquistare un’imbottigliatrice e, tramite fundraising, traslocare in uno spazio di 140 metri quadrati che a quel tempo sembrava enorme, ma che diventa rapidamente stretto: si parte a dicembre 2011, con il nuovo nome The Commons Brewery, i cui locali vengono inaugurati assieme ad una piccola tasting room. A bordo arrivano anche il birraio Sean Burke (fresco di diploma al Siebel Institute in Germania) e il commerciale Josh Grags proveniente dal beershop “The BeerMongers” di Portland.
Nel 2012 gli spazi del birrificio raddoppiano, mentre è proprio di questi giorni la notizia di un imminente trasloco in una nuova location da 1000 metri quadri dove verrà installato un nuovo impianto da 15 barili.  Se data un’occhiata alla lista delle birre realizzate dalla Commons, non troverete né IPA né Double IPA; la loro produzione guarda soprattutto al Belgio (il paese d’origine della moglie di Mike) e avviene utilizzando ceppi di lievito importati dall’Europa. Il nucleo centrale è costituito da dissetanti Saison/Farmhouse Ales, alcune prodotte con lieviti selvaggi o affinate in botti; i (pochi) pezzi “forti” non sono le solite Imperial Stout  ma delle Belgian Strong Ale.
Del birrificio dell’Oregon è arrivata anche in Europa qualche bottiglia: ad esempio la Urban Farmhouse Ale, una saison ispirata dalla tradizione belga che, essendo prodotta in città, prende l’appellativo di “urbana”: medaglia di bronzo alla World Beer Cup del 2012, d’argento al GABF del 2013 e, secondo la stampa locale, miglior birra del 2012 per il Portland Tribune, e del 2013 secondo il Willamette Week. 
Si presenta dorata, leggermente velata, e una bella schiuma bianchissima, fine e cremosa, dalla discreta persistenza. L’aroma è pulito, e benché non brilli per intensità regala comunque un discreto bouquet di fiori bianchi, miele e crosta di pane, banana e pera, con la delicata speziatura del lievito a suggerire il  pepe ed il coriandolo. 
In etichetta nessun dato per provare ad indovinare l’età di questa bottiglia, che al palato non mostra una particolare fragranza o vitalità, eccezione fatta per la vivace carbonatazione e la lieve speziatura; il corpo è leggero, con una marcata acquosità a renderla molto scorrevole, dissetante e facile da bere.  Leggera la base di pane e crackers, un accenno di miele, note di arancio e di banana; una birra immagino piuttosto delicata all’origine che però con il passare del tempo ha perso la maggior parte del suo carattere e dell’equilibrio. In quanto Saison non è dotata di una secchezza impeccabile, ed il palato rimane un po’ troppo in compagnia del dolce e non ne esce completamente dissetato, nonostante la gradevole nota acidula data probabilmente dall’utilizzo di frumento.
Una Saison solo discreta, arrivata in Europa un po’ corta di fiato. Ma forse la domanda giusta potrebbe essere: con quanto c’è già di buono vicino a noi, in Belgio, era davvero il caso di farla partire ?
Formato: 75 cl., alc. 5.3%, lotto e scadenza non riportati, pagata 10,34 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 4 marzo 2015

L'Olmaia Starship

E’ ormai diventato un luogo comune quello “del birraio nella terra del vino” ma in Italia, escluse poche regioni, ci sarebbe quasi da stupirsi del contrario. Non si sottrae al “cliché” il Birrificio L’Olmaia, aperto da Moreno Ercolani e Massimiliano Roncolini alla fine del 2004 in un casale della Val d’Orcia  (Montalcino e Montepulciano, solo per fare due nomi) nei dintorni di Chianciano.
Leggo che Moreno “assorbe” la passione per la birra dal padre, un orafo che “andava in Germania una volta all’anno per eventi birrari o anche semplicemente per visitare luoghi legati a questo mondo e tornava con i boccali che regalava ai suoi familiari”.   Sempre per seguire le orme paterne, Moreno apre la propria bottega di oreficeria a Pienza, nella quale lavorerà sino al 2001.
Nel frattempo, proprio a Pienza, si era manifestato un altro fattore determinante: la presenza di Agostino Arioli del Birrificio Italiano, che nella bella località toscana ha una casa. I due si conoscono e non sono rare le incursioni di  Moreno a Lurago Marinone a bere quantità impressionanti di Tipo Pils e Bibock.
La voglia e la passione sono tali che nel 2002 vuole già  aprire il proprio birrificio: per iniziare niente pentole da homebrewer ma, su consiglio di Arioli, un impiantino da 23 litri sul quale sperimentare; la tecnica viene affinata nel 2003, con un corso di birrificazione guidato da  Leonardo Di Vincenzo (Birra del Borgo), mentre procedono i  lavori di ristrutturazione dal casale “L’Olmaia”, destinato ad ospitare gli impianti del nuovo birrificio. La prima cotta avviene  a gennaio del 2005: in questi dieci anni il birrificio toscano, che ora dispone di un impianto da 2500 litri per cotta e che nel 2009 ha traslocato nella frazione di Sant'Albino di Montepulciano, ha preferito sviluppare e migliorare poche birre, piuttosto che sfornare continuamente novità. Le classiche tre birre di partenza (la chiara “La 5”, la rossa “La9” e la scura “BK”) sono state pian piano affiancate dalla PVK (una sorta di blanche prodotta con materie prime della Val d’Orcia), dalla natalizia Christmas Duck (belgian strong ale) e dalle recenti Starship (english bitter) e Tangerine. E’ proprio di questi giorni la notizia dell’imminente apertura, in centro a Montepulciano, de “La Bottega dell’Olmaia”.
La Starship debutta nei primi mesi del 2013: una nome con un chiaro riferimento musicale, al mitico Boeing 720 utilizzato dai Led Zeppelin per andare in tour. Una birra birra molto coraggiosa che nei malti e nei luppoli scelti guarda alla tradizione inglese piuttosto che seguire la moda americana: di esempi in Italia non ce ne sono molti. Coerentemente con la sua ispirazione, viene presentata con un tour “birrario”, anziché musicale, in sedici locali di Roma accompagnata dalla musica di  Jimmy Page, Robert Plant, John Paul Jones e John Bonham. L’anno scorso ne è poi stata realizzata anche una versione con luppoli americani, chiamata Starship Revolution e poi rinominata, per restare in orbita Led Zeppelin, “Tangerine”: viene oggi prodotta tutto l'anno.
E’ di colore ambrato opaco, con sfumature ramate e la schiuma e molto persistente, compatta e cremosa, color ocra.  Al naso c’è il classico “nutty” inglese, il biscotto e la crosta di pane; in secondo piano caramello, sentori erbacei e di marmellata d’arancia.  Coerenza quasi perfetta in bocca, dove arriva con un corpo medio, poche bollicine e soprattutto una morbidezza un po' "nostalgica" che ti ricorda un po' le bitter spillate a pompa nei pub d'oltremanica:   biscotto, pane, caramello, miele d’arancio sono i primi elementi che s’incontrano al palato, un veloce passaggio che conduce subito ad un amaro piuttosto intenso, terroso ed erbaceo, prodotto dalla generosissima luppolatura inglese, che accompagnano fine alla fine del percorso ed anche per diversi minuti dopo.
Una  (Best/Strong) Bitter molto pulita, con gradazione alcolica (4.5%) entro  i parametri “session beer”  e con ottima intensità: sono piuttosto l’amaro – davvero notevole – e la sensazione “tattile” al palato (un pochino troppo pesante) a limitare un po’ la velocità di bevuta seriale. 
Il mio plauso al birrificio per il coraggio della proposta che va in controtendenza rispetto alle mode americaneggianti e offre la possibilità, anche ai meno esperti, di confrontarsi con uno stile classico che purtroppo si trova in Italia (incluse le importazioni) con difficoltà.
Formato: 33 cl., alc. 4.5%, lotto 2014145, scad. 07/04/2018 (o 2106 ?), pagata 2.90 Euro

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.