lunedì 23 marzo 2015

Silly IPA Green Killer

La Brasserie de Silly si trova nell’omonima località attraversata dal fiume Sylle a circa 40 chilometri a sud-ovest di Bruxelles, nella regione dell’Hainaut. Le sue origini risalgono al 1850 quando Marcelin Hypolite Meynsbrughen acquistò una fattoria chiamata Cense de la Tour e subito si preoccupò di dissetare la popolazione circostante iniziando a produrre tre birre: una Saison, destinata ai contadini, una Grisette per i minatori ed una “Belge” per tutti gli altri. 
Alla morte di Marcelin il birrificio viene guidato dal figlio Adelin Junior che, assieme alle sorelle, lo rinomina in Meynsbrughen & Soeurs: la vendita riscuotono successo e il birrificio riesce a passare quasi indenne il periodo della prima guerra mondiale, conservando tutti gli impianti; la Scotch Silly, a tutt’oggi una delle birre di maggior successo di Silly, nacque proprio in quel periodo grazie alla presenza di un soldato scozzese  (che poi rimase a lavorare in birrificio) a Silly durante il primo conflitto bellico. Dopo la seconda guerra mondiale l’azienda si concentra esclusivamente sulla produzione di birra, cessando tutte le altre attività collegate all'agricoltura; Josette, figlia di  Adelin Junior, sposa nel 1939 José Van der Haegen che inizia a lavorare nel birrificio. 
E’ soltanto nel 1973 che il birrificio prende il nome di Brasserie de Silly, con l’entrata in scena dei fratelli Jean-Paul e Didier Van der Haegen: la crescita continua anche attraverso le acquisizioni della Tennstedt-DeCroes e della Brasserie du Pot d'Etani. Attualmente al comando ci sono Bertrand (figlio di Jean-Paul) ed il cugino Lionel Van der Haegen: il birrificio, che esporta circa il 40% della produzione, non disdegna di tanto in tanto di introdurre qualche novità. Nel 2004 viene lanciata la Pink Killer, una birra di frumento con aggiunta di succo di pompelmo, e nel 2006 arriva la gamma dell’Abbaye de Forest, facilmente reperibile anche qui in Italia in diversi supermercati. 
Lo scorso anno debutta  invece la Green Killer IPA, per venire un po’ incontro alla domanda “d’amaro” che proviene dai mercati esteri ma che sta iniziando a trovare seguaci anche in Belgio. Non particolarmente fantasiosa l’etichetta, che per soggetto, grafica e scelta dei caratteri me ne ha ricordato almeno 4-5 già esistenti; non sono purtroppo riuscito a trovare informazioni sugli ingredienti utilizzati, in particolare i luppoli, visto che parliamo di una IPA: continentali o americani ? 
Perfettamente limpida e dorata nel bicchiere, forma un bel cappello di schiuma bianchissima, compatta e cremosa, dalla buona persistenza. Il birrificio indica due mesi di shelf-life, e si tratta quindi di una ancora abbastanza fresca, imbottigliata a dicembre 2014:  l’aroma se ne avvantaggia, con un bouquet pulito e intenso che tuttavia lascia un po’ spiazzati per la massiccia presenza di erbe officinali (rosmarino, timo) che rilegano in secondo piano i sentori floreali (geranio), la crosta di pane, l’erba tagliata ed una lieve pepatura. Il carattere decisamente verde/vegetale di questa IPA è evidentissimo anche in bocca: leggerissimo il supporto dei malti (pane, miele) ad un amaro molto intenso, erbaceo, nuovamente ricco di erbe officinali che straripa ed affligge subito il palato senza nessun bilanciamento. La bevuta risulta abbastanza sgraziata, poco equilibrata ma soprattutto poco gradevole: la monotonia di questa  intensa “spremuta di verde” si sopporta davvero con difficoltà. L’inizio del retrogusto è quasi da luppolo nobile (erbaceo lievemente pepato) ma poi è di nuovo una marea vegetale ad appesantire ulteriormente la situazione.
Una "Green Killer" di nome e di fatto, davvero capace di annientare le papille gustative: birra che non mi è assolutamente piaciuta, e che fa rimpiangere a gran voce alcune splendide Belgian Ale molto luppolate che, anziché correre dietro alla moda, l'hanno creata.
Formato: 33 cl., alc. 6.5%, scad. 09/12/2016, pagata 2.95 Euro (supermercato, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 22 marzo 2015

Baladin Super Bitter

A chi non conoscesse il percorso di Teo Musso e del birrificio Baladin, l'acquisto di una bottiglia chiamata "Super Bitter"  potrebbe creare l'aspettativa di trovarsi nel bicchiere una birra abbondantemente luppolata e quindi molto amara. Una Double IPA, forse. 
Chi invece Baladin lo conosce, sarà subito in grado leggendo l'etichettà di capire cosa c'è nella bottiglia: una versione "amara" della Super, la prima birra Baladin ad essere imbottigliata, nel lontano 1997, nel brewpub di Piozzo.
La Super Bitter se non erro debutta nel 2012, ed è dichiaratamente una leggera "concessione" alla moda delle birre amare: Baladin non è certo un birrificio che ama le luppolature esagerate, proponendo birre sempre piuttosto equilibrate ma con una componente dolce ben in evidenza. Per l'occasione viene utilizzata "una generosa quantità di  l'Amarillo", in dry-hopping, mentre la descrizione ufficiale del birrificio s'affretta subito a rassicurare che "in bocca rimane fedele allo stile Baladin e non perde di vista l’equilibrio".
Per la cronaca, la Super Bitter ha ottenuto il secondo posto nell'ultima edizione di Birra dell'Anno nella categoria 11, Strong Ale d’ispirazione angloamericana. 
All'aspetto è di color ambrato, con sfumature ramate ed una bella testa di schiuma ocra, "croccante" e cremosa, molto persistente. Il naso è dolce, zuccherino, con sentori di caramello e biscotto, frutti rossi, ciliegia sciroppata, mandorle e nocciole caramellate: molto bene la pulizia, solo discreta l'intensità, ma l'aroma non è indubbiamente una festa del luppolo.
Ottima la sensazione palatale: alcool (8%) nascosto in maniera impressionante, corpo medio e poche bollicine per una birra morbida, molto gradevole e dalla buona scorrevolezza. Il gusto ripropone il biscotto, il caramello e la frutta secca caramellata, l'uvetta: nessun grosso stravolgimento della Super "originale", quindi, con un profilo decisamente dolce ma con una fortissima attenuazione finale a mantenere tutto in un perfetto equilibrio.  Il palato a fine bevuta è sorprendentemente pulito, c'è una lievissima astringenza appena percepibile, mentre la chiusura è abboccata, con un retrogusto di frutta secca caramellata. Birra molto pulita e discretamente intensa, molto ben fatta: di amaro non ha praticamente nulla, risultando alla fine una versione più secca (anziché "bitter") e meno dolce della Super.  Fatte queste considerazioni, rimane comunque una strong ale dal DNA belga che si beve sempre con buona soddisfazione e con pericolosa facilità.
Formato: 33 cl., alc. 8%, IBU 35, lotto 71/140, scad. 05/2016, pagata 2.59 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 21 marzo 2015

Wild Beer Solera

Quarto appuntamento con la Wild Beer Co., che si trova ad Evercreech, nel Somerset inglese.  I due birrai Brett Ellis ed Andrew Cooper non fanno certo mistero del loro disinteresse verso gli stili tradizionali e le real ales in cask per le quali, secondo loro, c’è già ampia offerta disponibile; il loro scopo è di entrare nel mondo della ristorazione, con birre appositamente studiate per abbinamenti gastronomici. In concreto, ciò ha significato produrre birre abbastanza inusuali, secondo la filosofia del "famolo strano": a parte alcune birre basiche (APA e IPA) realizzate con luppoli americani, la Wild ha prodotto, giusto per ricordarne alcune, una Milk Stout con caramello salato e cioccolato, una Saison con menta e cetriolo,  e un grande numero di birre invecchiate in botte e/o acide.
Anche la loro idea di "session beer" è stata sviluppata in modo poco convenzionale. Viene innanzitutto realizzata una saison con malto Pale English, una piccola percentuale di Cara tedesco, avena e luppoli Hallertau Magnum, che viene poi messa a maturare in botte con brettanomiceti. Il nome dato alla birra, Solera, indica il metodo utilizzato per l'invecchiamento:  ciò prevede che si usino diverse botti poste in verticale una sopra l'altra e l'ultima piena per 2/3. Nel momento in cui si aggiunge birra alla botte posizionata in cima, un terzo del suo contenuto viene trasferito nella botte sottostante, e così si prosegue fino ad arrivare a quella posta al suolo (detta appunto solera). 
Nel caso della Solera di Wild, viene fatto un blend con una saison fresca e il 10-20% di quella che riposa in botte; lo scopo è di arricchire la freschezza e la facilità di bevuta di una saison giovane, dal basso contenuto alcolico, con le caratteristiche più complesse di una birra che è passata in botte. L'esperimento è riuscito? Vediamo.
Si presenta di color arancio carico, opaco, con venature ramate: la schiuma avorio che si forma è fine e cremosa e ha un'ottima persistenza. Al naso c'è un discreto bouquet dove coesistono sentori lattici e di sudore, tipici dei brettanomiceti, con quelli di mela e pera,  legno, fiori bianchi. L'intensità dei profumi è buona, e la delusione è quindi grande quando la birra arriva al palato e rivela invece un gusto appena percepibile. Corpo leggero, bollicine quasi assenti, un marcata acquosità a rendere al bevuta facilissima e velocissima: fin troppo. Qualche timida nota aspra, lattica e di uva acerba, è tutto quello che il gusto sembra offrire all'inizio; bisogna far riscaldare la birra quasi a temperatura ambiente per tirare fuori qualche nota legnosa e di scorza di limone. La sensazione, tutt'altro che positiva, è quella di bere una birra acida che è stata allungata con un bel po' di acqua; il risultato è indubbiamente dissetante e rinfrescante, ma lo stesso effetto lo si può ottenere anche con un semplice bicchiere acqua.
Un blend tra "fresco" e "vecchio" deludente e riuscito piuttosto male, una birra che scorre con la stessa velocità con la quale viene poi dimenticata. Peccato.
Formato: 33 cl., alc. 4.4%, lotto e scadenza non riportati, pagata 4.30 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

venerdì 20 marzo 2015

Emelisse Espresso Stout

Nuovo appuntamento con il birrificio olandese Emelisse, del quale negli ultimi due anni sul blog sono già transitate DIPA, TIPA, Black IPA e la White Label Imperial Russian Stout. Posizionato a Kamperland, nello Zeeland, il brewpub con annesso ristorante è stato guidato dal 1998 dall’ex-homebrewer (ed ex-chef) Kees Bubberman. 
E’ dello scorso novembre, la notizia  della sua dipartita da Emelisse per aprire il proprio birrificio a Middelburg, ad una ventina di chilometri di distanza:  Brouwerij Kees, questo il nome scelto, con le prime birre che hanno iniziato a circolare proprio in questi giorni. Trecentomila euro l’investimento necessario, in parte racimolati tramite crowfunding e in parte tramite da investitori tra i quali, leggo, ci sarebbero anche due importatori italiani. 
Tra le motivazioni della dipartita di Bubberman da Emelisse ci sarebbero stati soprattutto dei contrasti sui programmi  futuri:  Kees desiderava crescere e guardare soprattutto ai mercati internazionali, mentre i proprietari di Emelisse volevano focalizzarsi principalmente sul mercato domestico. 
Ma torniamo a parlare di Emelisse, il vero oggetto del post odierno.  Ecco una bottiglia di Espresso Stout che, come il nome può facilmente far intuire, è una (imperial) stout prodotta con un blend di chicchi di caffè italiano (90% Arabica e 10% Robusta) selezionato da Kees Bubberman; i luppoli utilizzati sono Nugget e Cascade. Purtroppo il lotto di produzione e la data di scadenza riportate in etichetta non sono leggibili, quindi non so se si tratti di una bottiglia prodotta ancora dalla mano di Bubberman o se sia già stato il nuovo birraio. 
Nel bicchiere è nera, cappello di schiuma beige chiaro fine e cremosa, ottima persistenza. L’aroma, poco elegante,  è abbastanza sottotono anche per quel che riguarda l’intensità: caffè, orzo tostato, pane nero, qualche leggero sentore di frutti di bosco. Per  fortuna c’è un discreto miglioramento in bocca: non è una imperial stout cremosa e “masticabile”, il che ne avvantaggia ovviamente la scorrevolezza, ed il corpo è tra il medio ed il pieno, con consistenza oleosa e poche bollicine. Il gusto è dominato dal caffè, con pochi elementi (liquirizia e tostature) ad accompagnarlo; la bevuta diventa giocoforza piuttosto monotona, e personalmente sento un po’ la mancanza di un po’ di dolce a bilanciare. Le tostature sono intense e, benché abbastanza eleganti ed esenti da bruciature, arrivano a saturare il palato obbligandolo a qualche sosta di troppo; nessuna sorpresa nel retrogusto, dove continua l’infusione del caffè e delle tostature e si sente la mancanza, in una imperial stout dall’ABV del  9.5%, di un po’ di calore etilico.  
L’ Espresso Stout di Emelissse dà quello che promette nel nome: tanto caffè in una birra senza difetti che però non mi ha lasciato un gran ricordo di sé. C’è un po’ di soddisfazione nei primi sorsi, ma poi sono gli sbadigli ad accompagnare il resto della bottiglia da trentatré.
 Formato: 33 cl., alc. 9.5%, IBU 75, lotto e scadenza non decifrabili, pagata 4.20 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 19 marzo 2015

Schlossbrauerei Au Hopfull Dark Ale

Risalgono al 1590 le prime testimonianze di un birrificio all’interno del castello di Au, nella regione tedesca dell’Hallertau, amata da tutti i birrofili in quanto è qui dove si concentra la maggior parte della produzione di luppolo tedesco. In quel periodo nel castello, di proprietà del barone Von Thurn, operava un birraio chiamato “Schweiger”. Dal 1846 la proprietà e nelle mani della famiglia Beck von Peccoz, oggi alla sesta generazione di discendenti con Michael Beck von Peccoz: il barone risiede ancora nel castello ed il birrificio è attualmente guidato dal birraio Stefan Ebensperger.
La produzione guarda ovviamente con grande rispetto alla tradizione tedesca, con Helles, Hefeweizen e Bock nelle loro varie declinazioni; l’intento dichiarato sul sito del birrificio è proprio quello di preservare la tradizione, con il motto  “nuovo non è necessariamente sinonimo di migliore” (dass "neu" keine unbedingte Gleichung mit "besser" eingeht). Ciò nonostante, nel 2013 il birrificio apre timidamente al moderno, che nella Germania attuale coincide quasi sempre con una replica degli stili americani , ovvero APA ed IPA. 
Nasce così la gamma Hopfull, proposta nel formato 33 cl:  arriva prima una Pale Ale, prodotta con luppoli dell’Hallertau, seguita di recente da una Dark Ale  (una sorta di Black IPA, forse?) anch’essa con luppolatura 100% tedesca.  Il bouquet viene formato da Polaris, Hallertauer Hersbrucker, Mandarina Bavaria e Saaz. 
Si presenta di color marrone scuro, con degli splendidi riflessi rosso borgogna: la schiuma beige chiaro è croccante, fine e cremosa, molto persistente. Al naso c’è una composizione che personalmente non trovo particolarmente ben assemblata e dove convivono note di pompelmo, accenni di frutta tropicale, pane nero, una leggerissima affumicatura. Anche il gusto è alquanto indeciso su quale direzione prendere, non brilla assolutamente di pulito e non è facilmente descrivibile. Su di un sottofondo leggermente terroso e di pane nero c’è qualche nota di polpa d’agrumi ed un qualcosa che potrebbe assomigliare al tropicale. “Potrebbe”, appunto.  Il risultato è complessivamente bevibile ma il mix non funziona e non è particolarmente gradevole, oltre che incomprensibile: quella che potrebbe sembrare un timido esempio di Black IPA (Ratebeer la classifica come Stoch Ale, e vabbeh..) chiude con un retrogusto leggermente amaro, tra il terroso ed il vegetale. 
Non mi resta che chiudere citando proprio quel motto inneggiante alla tradizione che viene riportato sul sito della Schlossbrauerei Au:  “nuovo non è necessariamente sinonimo di migliore”, e in questo caso mai parole furono più appropriate.
Formato: 33 cl., alc. 6.8%, IBU 51, scad.25/06/2015, pagata 2.10 Euro (beershop, Germania)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 18 marzo 2015

HOMEBREWED! Postino Brewery Saison Deux

L'appuntamento del mese di marzo con le produzioni casalinghe è ancora firmato Gianpostino / Postino Brewery, ovvero l'homebrewer Giancarlo Maccini che vi avevo presentato in questa occasione. Dopo una American Pale Ale,  una Double/Imperial IPA, e una Belgian IPA mi ritrovo tra le mani un'altra Saison, dopo la Trois assaggiata lo scorso novembre. Questa è invece la Saison Deux, che deduco sia stata realizzata prima della Trois, come anche la data d'imbottigliamento mi conferma.
L'apertura di questa bottiglia è stata probabilmente la più difficile della mia lunga "carriera" di stappatore: un  tappo "a fungo" di plastica trattenuto da gabbietta metallica per premunirsi da eventuali comportamenti bizzarri del lievito saison. Bene, levata la gabbietta, il tappo non ne voleva proprio sapere di uscire e, in preda allo sconforto,  mi è toccato ricorrere alle pinze, cavandolo fuori a mo' di dentista.
La ricetta All Grain di questa Saison Deux prevede  malto Pilsner ed Aromatic, segale, sciroppo di zucchero candito ed una luppolatura di Perle ed Aurora.
Sino ad ora mi sono trovato abbastanza bene con gli assaggi delle produzioni casalinghe; tutte birre di buono o discreto livello, migliorabili e da sgrezzare ma nessun disastro. In questo caso non userei la parola "disastro", ma la bevuta di questa saison ha evidenziato più di un problema e ho fatto abbastanza fatica a finire la bottiglia. Non me ne voglia quindi Giancarlo per le critiche, che anzi spero siano utili per migliorare le prossime cotte; purtroppo (o per fortuna) non faccio la birra, mi limito a berla, e quindi anche rilevando i "problemi" non sono poi in grado di proporre delle soluzioni concrete.
Ad ogni modo, birra nel bicchiere di colore arancio carico, quasi rame, con una "croccante" schiuma biancastra, fine e cremosa, dalla buona persistenza. Al naso riesco solo a rilevare una leggera speziatura, poi è un "trionfo" di mela verde e di pera che non lasciano spazio a null'altro; a birra calda emerge anche una netta nota di smalto/acetone. Il mouthfeel è invece positivo: corpo medio, carbonatazione vivace, consistenza watery e buona scorrevolezza. Molto mene bene il gusto: abbastanza sporco e decisamente "lievitoso",  riesco a percepire la timida presenza dolce di frutti gialli, una generica e lieve speziatura, di nuovo la pera (la cui presenza aveva un po' "infestato" anche la Saison Trois), qualche nota maltata (pane?) e l'amaro tra il terroso e l'erbaceo poco elegante. C'è una marcata astringenza che rende la bevuta molto poco dissetante e rinfrescante, mentre l'alcool (7.1%) è molto ben nascosto. 
La netta presenza di acetaldeide/solvente al naso e la marcata lievitosità/astringenza danno come risultato questa mia (umile) "valutazione" secondo il BJCP Beer Scoresheet:  22/50 (aroma 4/12, aspetto 3/3, gusto 7/20, mouthfeel 4/5, impressione generale 4/10).
Ringrazio Giancarlo per la birra e spero che le mie osservazioni gli siano utili per fare sempre meglio.

martedì 17 marzo 2015

Against the Grain Bay and Pepper Your Bretts

Anche il  Kentucky, dove si concentra la maggior parte della produzione del bourbon, non è stato immune alla “craft beer revolution” americana. Prendiamo ad esempio il birrificio Against the Grain, fondato a Louisville nell’ottobre 2011; quattro soci, che si sono conosciuti mentre lavoravano alla  Bluegrass Brewing. 
Iniziamo dai due che sono più coinvolti nella produzione della birra:  Sam Cruz e  Jerry Gnagy, entrambi homebrewers da quando erano ancora minorenni e interessati, per loro stessa ammissione, più a produrre “qualcosa di alcolico” che di buono. Jerry Gnagy è quello che ha fatto il percorso più lineare: terminato il college in Kansas, entra dapprima come lavafusti e viene poi promosso birraio alla Bluegrass Brewing di Louisville. Un po’ diverso l’approdo in sala cottura di Sam Cruz: dopo gli studi in scienze politiche, inizia a lavorare in una sorta di servizio sociale, affrontando adolescenti con problemi di dipendenza da sostanze illegali; il lavoro non lo soddisfa molto, e nel 2005, ricalca le orme dell’amico Jerry. Assunto come lavafusti, viene promosso dopo diciotto mesi ad assistente birrario di Jerry e, dopo un corso al Siebel Institute di Chicago, a birraio.
I due iniziano però a soffrire la routine di un birrificio che produce le stesse birre 365 giorni all’anno, senza nessuna voglia di sperimentare: un giorno, mentre osservano i magazzinieri movimentare decine di sacchi di malto, maturano quell’ “odio verso i cereali” che diventerà la base di partenza del loro progetto: Against The Grain   (“contro i cereali”; curiosamente con lo stesso nome è stata anche chiamata una birra inglese gluten free).
Alla Bluegrass lavoravano anche il loro amico Adam Watson (assistente birraio e prossima alla laurea in legge) e Andrew Ott, impiegato come cameriere nel ristorante;  tra una chiacchera e l’altra, i quattro abbozzano il progetto di aprire il proprio brewpub a Louisville, una città che in quel periodo non offriva alternative alla Bluegrass. Nel 2008 si licenziano tutti per lavorare alla costruzione della Against The Grain Brewery and Smokehouse, che viene inaugurata nell’ottobre del  2011 nella suggestiva location all’interno del Slugger Field, uno stadio di Baseball (Minor League): “qui c’è un bel giro di gente e di soldi – ammettono – ma è stato difficile abituarli al gusto della birra “artigianale” e a quelle che noi produciamo”.   
In sala cottura ci va quasi esclusivamente a Jerry Gnagy, mentre Sam Cruz si occupa principalmente della gestione del ristorante annesso; Adam Watson segue soprattutto la parte amministrativa e finanziaria mentre Andrew Ott opera come general manager, coordinando le diverse funzione ed occupandosi delle risorse umane.
I quattro partono con le idee chiare, a partire dalle belle e divertenti etichette, la maggior parte delle quali realizzate da Robby Davis, autore anche della grafica dei personaggi che popolano il suggestivo sito del birrificio; anche i nomi delle birre non sono banali, e si fanno subito notare per i coloriti doppi sensi: Citra Wet Ass Down, Show Us your Tetts, An Ale Pleasure, David Lee Froth e Shit Jeans, giusto per fare qualche esempio. L’efficacia del marketing e la qualità delle birre hanno subito un buon successo, grazie anche alla distribuzione effettuata dalla 12 Percent; per soddisfare una maggior porzione della domanda le birre vengono appaltate anche alla Pub Dog Brewing nel Maryland), mentre nel luglio del 2014 vengono ufficializzati i piani di espansione: nuovo birrificio in uno spazio di 2300 metri quadrati, con annesso magazzino e tasting room a Lousville, per aumentare del 400% la capacità produttiva; proprio in questi giorni dovrebbero inoltre essere prodotte anche le prime lattine. Gli ampi spazi a disposizione consentiranno inoltre di aumentare esponenzialmente i programmi di invecchiamento e affinamento in botte  (con ovvio focus – visto che siamo nel Kentucky – sul legno ex-bourbon.) e delle birre della “Funked Up Series”, ovvero la linea “sour/acida”. 
Qualcosa di Against The Grain si trova con un po’ d’impegno anche in Italia; tra le mani mi è capitata una bottiglia di Bay and Pepper your Bretts. Si tratta di una saison realizzata in collaborazione con Josh Lehman, chef del ristorante Holy Grale di Lousiville capace di accogliervi con la bellezza di 26 spine ed una lunga carta di birre; la spiegazione della birra è nel suo stesso nome: alloro (bay), pepe nero Tellicherry in grani e rifermentazione in bottiglia con brettanomiceti. 
Nel bicchiere arriva di color oro antico leggermente velato, che si trasforma in un arancio opalescente se scegliete di versare anche i lieviti; la schiuma cremosa e bianca non è né particolarmente generosa e neppure molto persistente. Al naso è il pepe a dare il benvenuto, incalzato dalle note lattiche dei brettanomiceti e seguito dal dolce della pesca sciroppata, dell’ananas e della polpa d’arancio; completano il bouquet le erbe officinali, soprattutto alloro, e qualche lieve sentori floreale di geranio. Il gusto segue abbastanza fedelmente l’aroma: c’è una bella vivacità (carbonatazione) in bocca, con corpo medio e il giusto livello watery per garantire un’ottima scorrevolezza. Pane e biscotto, un po’ di pepe e  il dolce della frutta (pesca, arancio) ben bilanciato dall’acidità lattica, molto leggera e affrontabile in tutta tranquillità anche per chi non ha molta familiarità con i lieviti selvaggi; più fuori dagli schemi è invece l’amaro, con un netto dominio di erbe officinali, soprattutto dell’alloro. Mi è sembrata quasi un'elegante versione borghese e meno emozionante di  una qualche Fantome di Dany Prignon, ad esempio questa.  
Bay and Pepper Your Bretts è comunque una saison molto pulita, dall’alto potete dissetante e rinfrescante, molto godibile soprattutto una volta che il palato si è abituato all’abbondanza di erbe officinali.
Formato: 75 cl., alc. 6.8%, IBU 23, lotto e scadenza sconosciuti, pagata 14.57 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 16 marzo 2015

To Øl Goliat Imperial Stout

Golia di Gat, il gigante più famoso di tutti i tempi e protagonista del celebre episodio narrato nell’Antico Testamento:  intorno all’anno 1000 a.C.,  l’esercito dei Filistei che combatteva contro Israele annoverava tra le sue file un invincibile guerriero, alto “sei cubiti e un palmo” (tre metri e mezzo circa) ed  armato di una  lancia con una punta del peso di cinque chili. Ogni giorno Golia lanciava la sua sfida agli israeliani: l’esito finale della guerra doveva essere deciso da una sfida “singola” tra di lui ed un campione dell’esercito nemico. Nessuno osò però accettare la proposta del gigante, sino all’arrivo del pastorello Davide.  Ancora troppo giovane per combattere nell’esercito del Re Saul, ma già in grado di difendere il proprio gregge da orsi, lupi ed altri predatori, egli chiese ugualmente di poter affrontare Golia; il Re, colpito da tanto coraggio, gli fornì elmo di bronzo, corazza e spada ma se le vede rifiutare. Davide preferì raccogliere cinque sassi in un torrente ed affrontare Golia con la propria fionda;  una volta trovatosi di fronte al gigante, fu rapidissimo nello scagliare un sasso contro la fronte di Golia che cadde al suolo tramortito. Davide gli sfilò la spada e lo uccise, decapitandolo: la sua testa fu portata in trionfo a Gerusalemme.
Goliat è anche il nome scelto dai danesi di To Øl  per una “gigantesca”, come la definiscono loro, Imperial Stout prodotta con malti scuri imprecisati, orzo tostato, zucchero bruno di canna (cassonade), fiocchi d’avena e caffè “gourmet” (sic). Etichetta abbastanza minimalista, un po’ in controtendenza a quelle solitamente utilizzate dalla beer-firm danese. L’enfasi è tutta sulla parola Goliat che giganteggia, per l’appunto, al centro della composizione grafica. 
Aspetto indubbiamente maestoso: assolutamente nera, con una sontuosa testa di schiuma marrone abbastanza compatta e cremosa, dall’ottima persistenza. L’aroma è immediatamente “boozy” (etilico), ma superato questo primo scoglio si possono scoprire il caffè in grani, la liquirizia, lo zucchero candito, la frutta sotto spirito; più in secondo piano c’è qualche sentore di liquirizia e di tabacco. L’intensità è buona, mentre la finezza non è esattamente ai massimi livelli. Niente da eccepire invece per quel che riguarda la sensazione al palato: corpo pieno, poche bollicine, birra molto morbida e cremosa, quasi masticabile. Ne deriva una bevibilità chiaramente limitata: caffè, liquirizia, tostature intense, qualche nota di cioccolato amaro e di caramello leggermente bruciato; presente anche una lievissima nota salmastra, peraltro avvertibile, con più difficoltà, anche al naso. L’alcool (10.1%) non fa sconti, ed il sorseggiare si dilata nel tempo; il gusto non è particolarmente complesso ma in bocca c’è un buon livello di pulizia ed anche di eleganza. L’acidità del caffè alleggerisce per qualche attimo il palato, mentre il gusto relativamente semplice rende un po' meno sopportabile del previsto la presenza dell'alcool, che forse necessitava di essere affiancata da un po' più di elementi di contorno. Intenso e molto lungo il retrogusto: caffè, alcool, tostature ed un accenno di tabacco. 
Imperial Stout piuttosto impegnativa, indubbiamente buona e soddisfacente, ma - almeno nel mio caso - avara di emozioni: l'unica che fa ogni tanto capolino è la noia, anche se in proporzione assolutamente tollerabile.  Certo, ci si potrebbe anche quasi divertire a fare il gioco "trova le differenze" con quest'altra birra di To Øl bevuta qualche settimana fa; o semplicemente domandarsi se era davvero necessario avere due birre così simili nella propria gamma di prodotti. 
Formato: 37.5 cl., alc. 10.1%, scad. 10/01/2017, pagata 8.90 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 15 marzo 2015

De la Senne Saison du Meyboom

Il 9 agosto di ogni anno, alla vigilia di San Lorenzo, si celebra la più antica tradizione di Bruxelles: il Meyboom. Il suo rituale, che risale al 1308, prevede che alle 2 del pomeriggio da Rue de Marais parta la processione storica verso la Grand-Place con un giovane albero che è stato tagliato all'alba; il corteo ritorna poi all'incrocio tra  Rue des Sables e Rue de Marais dove, prima dello scoccare delle ore 17, dev'essere piantato "l'albero della gioia".
L'origine di questa tradizione è, come spesso accade, incerta: secondo una prima versione, celebra una vittoria di Bruxelles contro la nemica Lovanio in uno scontro del 1213. Secondo un'altra ricorderebbe il matrimonio avvenuto nello stesso anno tra un nobile di Lovanio ed una ragazza povera di Bruxelles; l'uomo aveva finanziato i festeggiamenti del giorno di San Lorenzo e la relativa piantagione di un albero. Un'ultima versione fa invece riferimento ad una "festa" post-matrimonio del 9 agosto in una locanda di Bruxelles: alcuni balordi arrivati da Lovanio stavano molestando i festeggiamenti e il risultato fu una grande rissa nella quale ebbero la meglio i "locali". Giovanni II di Brabante diede il privilegio a quelli di Bruxelles di piantare un albero tutti gli anni; tale privilegio sarebbe decaduto solo se la gente di Lovanio fosse stata in grado di impossessarsi dell'albero e di piantarlo a Lovanio entro le 5 del pomeriggio.
E ciò accadde davvero, nel 1974: fingendosi giornalisti, alcuni abitanti di Lovanio riuscirono a scoprire in anticipo quale albero sarebbe stato tagliato la mattina del 9 agosto. La notte precedente alla celebrazione andarono a tagliare l'albero e lo portarono via, lasciando sul ceppo di tronco rimasto un biglietto sarcastico. L'albero fu poi piantato prima delle cinque del pomeriggio nel Grote Markt di Lovanio. E quelli di Bruxelles? Non si arrabbiarono per nulla: tagliarono semplicemente un altro albero, e lo piantarono come avevano sempre fatto: ma da quell'anno, entrambe le città si vantano di avere il privilegio di piantare il "vero" Meyboom. 
A questa tradizione, tra l'altro riconosciuta dall'Unesco come "patrimonio orale e immateriale dell'umanità", anche la Brasserie de la Senne di Bruxelles dedica il proprio tributo con una saison; nella solita splendida etichetta disegnata da Jean Goovaerts ci sono appunto quattro uomini che con fatica cercano di issare un albero o, in questo caso, un fascio di luce sul quale trionfa il nome della birra.
Giallo paglierino, opalescente, forma una testa di bianchissima schiuma un po' grossolana ma dalla buona persistenza. L'aroma è pulito e con una leggera rusticità annuncia i fiori di campo e la paglia, una delicata speziatura ma soprattutto i profumi del mandarino, dell'arancio e del limone. In bocca è leggera e molto scattante, con una spiccata acquosità ed una vivacissima carbonatazione. Molto sottile la base maltata (crackers) di supporto ad un gusto ricco di scorza d'agrumi (limone, lime) ed affiancato dalla lieve dolcezza della polpa d'arancio. Anche in bocca c'è una nota rustica, piacevolmente ruvida, che ben interagisce con le bollicine e con la delicata speziatura donata dal lievito. Attenuatissima, chiude amara di scorza d'agrumi con qualche nota di erba appena tagliata. E' una saison "sessionabile" (4%), semplice, pulita e ben fatta che rischia però di confondersi un po' tra le tante birre "super zesty" che vanno abbastanza di moda. 
Si  beve davvero con la facilità dell'acqua e scompare dal bicchiere in pochissimi secondi; paradossalmente è proprio questo il suo punto debole, se così lo si può chiamare. Arriva e sparisce in pochi minuti senza quasi far avvertire la propria presenza; un pochino più di carattere/personalità l'aiuterebbe senz'altro a restare per qualche minuto in più nel bicchiere, lasciando un ricordo quasi indelebile di sé.  Rimane comunque una compagna ideale per dissetarsi e rinfrescarsi, grazie ad una bella acidità, nei giorni più caldi dell'anno.
Formato: 33 cl., alc. 4%, lotto 09/07/2014, scad. 09/07/2015, pagata 3.06 Euro.

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

sabato 14 marzo 2015

Victory HopDevil

La Victory Brewing Company viene fondata nel 1996 a Downingtown, Pennsylvania, da Ron Barchet e Bill Covaleski. I due erano compagni di scuola negli anni '70 e rimasero amici anche quando furono costretti a separarsi per frequentare college diversi sulle due coste opposte degli Stati Uniti. 
Bill Covaleski eredita dal padre la passione e gli strumenti per l'homebrewing, regalando poi un kit anche a Ron. Terminati gli studi, Ron inzia a lavorare come analista finanziario per poi passare, dopo poco tempo, a fare un anno di praticantato come birrario alla Baltimore Brewing Company; il passo successivo è quello di volare in Germania per diplomarsi alla università di Weihenstephan. Tornato negli Stati Uniti, diventa birraio della Old Dominion Brewing Company in Virginia; nel frattempo il suo ruolo di birraio alla Baltimore Brewing Company era stato preso da Bill. 
Acquisita la necessario esperienza, i due amici decidono che è giunto il momento di tornare assieme e mettetesi in proprio: iniziano la ricerca per il luogo giusto dove stabilire il loro birrificio. Scelgono inizialmente il Lago Tahoe, nella Sierra Nevada, ma non riescono ad acquistare in tempo i locali che avevano individuato. La decisione finale premia la natia Pennsylvania, dove la legislazione permetteva di aprire senza troppi costi accessori o vincoli un ristorante con mescita negli stessi locali del birrificio. A febbraio del 1996 viene quindi inaugurata la Victory Brewing Co. ed annesso ristorante da 144 coperti; la produzione, inizialmente di 1725 barili, è oggi arrivata a 126.000 barili l'anno; nella primavera del 2014 è stata anche inaugurata la nuova sede di Parkersburg, ad una ventina di chilometri di distanza, che si affianca a quella storica raddoppiando la capacità produttiva del birrificio.
L'idea iniziale di Ron Barchet e Bill Covaleski, entrambi diplomati in Germania, era di basare la produzione di Victory soprattutto sulla tradizione tedesca; ma mentre procedevano i lavori di costruzione ai due capita di assaggiare una bottiglia di Sierra Nevada Celebration, la IPA invernale del birrificio californiano. Delle tre birre con le quali debutta Victory nel 1996, due sono "tedesche" (la Victory Festbier e la Victory Lager) e una è un'American IPA chiamata HopDevil. Le aspettative sono che sia la märzen Victory Festbier a divenire la "flagship beer", ma in pochi anni è invece la HopDevil ad occupare il 60% della produzione.
Il "diavoletto" a forma di fiore di luppolo è una creatura di Bill, disegnato ancora prima della ricetta della birra, che in suo "onore" è stata poi chiamata HopDevil: malti tedeschi, luppolatura di Cascade, Centennial ed un terzo che il birrificio non intende rivelare. 
Chi segue il blog con regolarità conosce la mia diffidenza verso le IPA & Co. che arrivano dagli Stati Uniti; birre che andrebbero bevute freschissime e che spesso l'attraversata oceanica ed i vari passaggi della distribuzione riducono ad un lontano ricordo di quelle che erano. Ancora peggio quando le trovate nei supermercati: la grande distribuzione non è certo abituata a trattarle nel modo appropriato, come magari fa (o mi aspetto che faccia) un appassionato proprietario di beershop, e magari lascia i cartoni sotto ad una tettoia al caldo dell'estate. Per questa occasione ho deciso di correre il rischio: l'etichetta riportava la data di scadenza che lasciava intuire una birra imbottigliata a fine novembre, quindi con tre mesi circa di vita. Non pochi, ma nemmeno troppi; scongiurato il pericolo del caldo estivo e approfittando del prezzo competitivo proposto dal supermercato, mi sono convinto all'acquisto. 
Nel bicchiere arriva di color ambrato, limpida, con riflessi ramati; la schiuma avorio è compatta e cremosa, a trama fine, molto persistente. L'aroma è pulito ed ancora di una freschezza accettabile, e regala soprattutto i profumi del pompelmo e degli aghi di pino con delle sfumature terrose e di marmellata d'arancio; in sottofondo sentori biscotto e caramello. La Pennsylvania si trova sulla costa ad est degli Stati Uniti e questa birra riflette in pieno le caratteristiche delle IPA della East Coast; non cercate il "fruttone tropicale" californiano, non lo troverete. La bevuta è vigorosa ma elegante, con una solida base di biscotto e lieve caramello, una leggera presenza di agrumi e un bell'amaro intenso, resinoso e terroso, leggermente pepato. C'è pulizia ed intensità, l'alcool (6.7%) è molto ben nascosto; nonostante il nome minaccioso, è una birra morbida al palato che scorre benissimo, con una carbonatazione contenuta ed un corpo medio. Nessun eccesso di dolce che obblighi poi il birraio a calcare la mano sull'amaro per bilanciare, questa HopDevil rimane molto bilanciata per la maggior parte del tempo prima di abbandonarsi ad un bel finale amaro, intenso, mai raschiante, ultimo atto di una bevuta che lascia soddisfatti.
Formato: 35,5 cl., alc. 6.7%, lotto 10:16 P, scad. 24/11/2015, pagata 3.29 Euro (supermercato, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.