martedì 1 dicembre 2020

DALLA CANTINA: Sierra Nevada Bigfoot Barley Wine 2015

Sono passati giusto quarant’anni da quel 21 novembre del 1980 in cui Ken Grossman, assieme al compagno di home-brewing Paul Camusi, produsse il suo primo lotto di Sierra Nevada Pale Ale, una birra destinata ad entrare nella storia e probabilmente la birra che ha maggiormente influenzato tutti quei birrai che hanno dato il via, dieci anni dopo, all’American Craft Beer Revolution. In quell’anno vi erano solamente 43 birrifici indipendenti in tutti gli Stati Uniti. 
Quel primo lotto non fu però soddisfacente e i due novelli birrai furono costretti a buttare via altre dieci cotte prima di ottenere quello che volevano. Grossman e Camusi avevano preso in prestito dalle rispettive famiglie 100.000 dollari e con quei soldi avevano assemblato un impianto da 14 ettolitri usando componenti di seconda mano. Sino ad allora Grossman aveva riparato biciclette, un’altra delle sua passioni, e faceva birra in casa: nel 1976 aveva aperto a Chico il piccolo Home Brew Shop dando lezioni ai novizi e tra i suoi clienti vi era anche Camusi. Nel primo anno di vita il birrificio Sierra Nevada produsse un migliaio di  ettolitri guadagnandosi lentamente un buon seguito locale, soprattutto tra gli studenti della Chico University: per un paio di anni Grossman e Camusi fecero tutto da soli, cercando di inventare quello che per i microbirrifici ancora non esisteva: canali di distribuzione, potenziali clienti non abituati a bere birre così amare e intense, accesso diretto alle materie prime, soprattutto ai luppoli della Yakima Valley. 
I primi dipendenti furono assunti nel 1983: Steve Dresler, birraio andato poi in pensione nel 2017 dopo 34 anni di attività e Steve Harrison, marketing e vendite: a lui il compito di far conoscere Sierra Nevada ma ci volle un colpo di fortuna per spiccare il volo. La catena di supermercati Safeway aveva un migliaio di punti vendita in tutti gli Stati Uniti: un loro dipendente andava spesso a trovare la figlia che studiava a Chico, fermandosi per una birra. Amava la Pale Ale, divenne amico di Grossman e portò le birre sugli scaffali del supermercato: alla Sierra Nevada arrivarono richieste da altri distributori e improvvisamente il problema, per Grossman e Camusi, non era come vendere la birra ma come soddisfare tutte le richieste. I soldi per espandersi non c’erano e le banche non davano nessun finanziamento ad un microbirrificio: era un business plan nel quale nessuno credeva. I due birrai lavoravano 12 ore al giorno, sette giorni su sette: Grossman prese un aereo e volò in Germania dove riuscì ad acquistare per 15.000 dollari l’impianto da 117 ettolitri di un birrificio fallito e lo spedì in California. Peccato che per metterlo davvero in funzione fossero necessari altri investimenti che sfioravano il milione di dollari: l’impianto resterà per molti anni inutilizzato in un magazzino, mentre Grossman con la saldatrice si costruiva da solo i nuovi fermentatori necessari per aumentare la prodzione. Nel 1987 Sierra Nevada produceva 14.000 ettolitri all’anno e distribuiva in sette stati: in quell’anno finalmente Grossman e Camusi riuscirono ad inaugurare l’impianto tedesco che avevano acquistato quattro anni prima. 
Il resto è una storia che parla di una crescita che per molti anni viaggia al ritmo del +50%, di ettolitri che diventano 117.000 (1993), 300.000 (1997) e 500.000 (1999).  Nel 1997 veniva inaugurato il nuovo impianto da 234 ettolitri e nel 1998 Grossman acquistava da Camusi il 50% delle quote societarie, diventando unico proprietario. Nel 2014 Sierra Nevada superava il milione di ettolitri venduti ed inaugurava un secondo sito produttivo in Nord Carolina. Nel 2015 la rivista Bloomberg aggiungeva Ken Grossman all’elenco dei “miliardari della birra”, ma  l’El Dorado della Craft Beer Revolution stava finendo, almeno per i “padri fondatori” del movimento: il craft non cresceva più esponenzialmente anno dopo anno e i birrifici artigianali che avevano investito milioni di dollari per espandersi vedevano le proprie quote di mercato rosicchiate da tanti piccoli produttori locali. Nel 2016 Sierra Nevada registrava un -6%, nel 2017 un -7% e riusciva ad invertire la tendenza solo nel 2019 (+5%), anno in cui il sessantacinquenne Grossman affidava il ruolo di amministratore delegato a Jeff White andandosi a sedere sulla poltrona presidenziale. Attualmente Sierra Nevada è il terzo produttore craft, dietro a Yuengling e Boston Beer Company, e il decimo produttore americano considerando anche i marchi industriali. 

La birra.

La prima birra prodotta da Sierra Nevada nel 1980 fu una Stout, seguita a ruota dalla Pale Ale. Nell’inverno del 1983 debuttò il possente Barley Wine (9.6%) chiamato Bigfoot che ottenne nel 1987 la medaglia d’oro al Great American Beer Festival. Grossmann e Camusi non pensavano ad una birra da invecchiamento; il loro approccio era lo stesso della Pale Ale, ovvero un’interpretazione americana, generosamente luppolata, della tradizione anglosassone. Bigfoot, prodotta con malti Two-row Pale e caramello, riceve un’abbondante luppolatura di Cascade, Centennial e Chinook e raggiunge quota 90 IBU: fresco, è un barley wine potente ed aggressivo, ricco di note resinose e di pompelmo, secondo i dettami della scuola West Coast.  La sua facile reperibilità e il suo ottimo rapporto qualità prezzo la resero rapidamente una birra da cantina per gli appassionati desiderosi di sperimentare gli effetti dell’invecchiamento. Ricorda il birraio Steve Dresler “a me piace particolarmente a cinque anni dalla messa in bottiglia. Non vale la pena andare oltre. Ma da tre a cinque anni è deliziosa!”.
Seguo le indicazioni di Dresler ed anche quelle contenute nel libro Vintage Beer di Patrick Dawson, lettura che consiglio a chiunque voglia provare di abbandonare qualche birra in cantina. 
Bigfoot 2015 si presenta nel bicchiere di color ambrato torbido: la schiuma ocra è cremosa, compatta ed ha buona ritenzione. Il naso è ricco di fichi disidratati, datteri, mela al forno, frutti di bosco, richiami al vino passito e a vini fortificati, soprattutto Sherry: l’aroma è intenso, pulito, “caldo” e avvolgente. Il mouthfeel è ancora ben solido e potente, non ci sono evidenti segni di cedimento dovuti all’età: in bocca è morbida nel suo percorso di caramello e biscotto, frutta sotto spirito. L’ossidazione regala belle sensazioni di vino fortificato mentre nel finale è ancora presente una generosa luppolatura resinosa, molto gradevole. Ed è questa la nota più positiva che devo sottolineare: i luppoli americani, contrariamente a quelli inglesi, invecchiano molto male e il loro resinoso spesso evolve in sensazioni poco gradevoli al palato.  Chi ha avuto occasione di assaggiare Barley Wine americani d’annata conosce bene quella sensazione. Bigfoot è invece una piacevole eccezione alla regola: a cinque anni dall’imbottigliamento presenta ancora un resinoso gradevole abbinandolo alle note ossidative di sherry e vino passito.
In questa bottiglia non c’è la classe la complessità dei migliori barley wine inglesi d’annata, ma è sicuramente una bella bevuta, ancora potente, sostenuta da un corpo solido e da un bel alcol warming. Tra i migliori vintage american barley wine che mi sia mai capitato di bere.
Formato 35.5 cl., alc. 9.6%, IBU 50, lotto 18/12/2015, pagata 5.00 euro (beershop)

Nessun commento:

Posta un commento