Il destino è stato crudele ma forse non casuale: le Black IPA erano nate come un divertissement, a partire da quell’ossimoro (Black-Pale) contenuto nel loro stesso nome, e in quanto nonsense hanno avuto vita relativamente breve. La loro popolarità negli Stati Uniti, mercato che le ha inventate, è durata un lustro (2009-2014) obbligando in quegli anni praticamente ogni birrificio ad averne una nel proprio portfolio: oggi nessuno o quasi le vuole più. Potremmo considerare il 29 gennaio 2015 la data della morte delle Black IPA: quel giorno il birrificio americano Stone Brewing annunciò che a causa della scarse vendite la propria Sublimely Self Righteous Ale, Black IPA molto ben riuscita che per anni aveva dominato le classifiche del beer-rating, sarebbe andata in pensione. In teoria non sarebbe una grande perdita: dopo tutto per definizione le Black IPA dovevano essere in tutto e per tutto delle IPA, eccetto che per il colore e quindi inutili. Ma spesso i birrifici non riuscivano a realizzare completamente quella illusione ottica ed il risultato erano delle IPA ibride e piacevolmente complesse che presentavano accenni di caffè, torrefatto, cioccolato. Beergeeks ed appassionati amavano discuterne davanti al bicchiere: era davvero una Black IPA? O una porter molto luppolata? Una Cascadian Dark Ale?
Il birrificio scozzese Tempest, che abbiamo già incontrato in numerose occasioni, è attivo dal 2010 ed ha prodotto la sua prima Black IPA, In The Dark We Live, nel 2013: in Europa siamo sempre un po’ indietro rispetto agli USA e la richiesta per le Black IPA è andata scemando con qualche anno di ritardo. Alla Tempest non si sono però persi d’animo ed hanno cercato di rivitalizzare uno stile ormai decaduto: nel 2017 è infatti arrivata In The Dark We Live Fruit Edition, con aggiunta di ribes nero, more e lamponi neri e, da buoni testardi (scozzesi), nel maggio del 2019 hanno replicato.
La birra.
In The Dark We Live è/era una Black IPA già di suo piuttosto robusta (7.2%). Per la sorella maggiore In The Dark We Die in Scozia hanno alzato ulteriormente l’asticella portando l’ABV in doppia cifra (10%). La ricetta è stata solo leggermente modificata nei malti (Pale, Munich, Carafa, Caramalt) ed è stato effettuato un Double Dry Hopping stranamente non sbandierato in etichetta; i luppoli sono gli stessi della sorella minore, ovvero Mosaic, Columbus e Simcoe.
Non è completamente nera ma poco ci manca; la schiuma è cremosa e compatta ed ha ottima ritenzione. L’aroma, pulito, ancora intenso e pungente, è resinoso e terroso, balsamico: a portare un po’ di luce nel buio ci sono accenni di frutti di bosco e di marmellata d’agrumi. Il mouthfeel è il vero punta di forza di questa potente Imperial Black IPA: molto morbido, quasi vellutato, un’inaspettata carezza che cerca d’ammansire una birra dura che picchia subito forte con il suo amaro resinoso e terroso. Caramello e frutti di bosco sono le deboli ma imprescindibili fondamenta che sorreggono una poderosa impalcatura amara dalla quale, nel finale, spunta anche qualche accenno di caffè e di cioccolato. L’alcool parte quasi in sordina per poi rivelare tutto il suo contenuto a fine corsa riscaldando il palato e potenziando le pungenti note pepate dei luppoli.
In un periodo in cui spopolano le birre dolci (New England IPA, Pastry Stout) è un piacere tornare indietro nel tempo a quando i birrifici si sfidavano a colpi di IBU: non raggiunge vette elevate ma questa In The Dark We Die di Tempest è una roccia la cui scalata regala grandi soddisfazioni. Pulita, precisa, potente: una birra per uomini duri, si diceva un tempo. La Old School non va più di moda ma è ancora capace di stupire: un po’ come quando tirate fuori dal ripostiglio uno dei giocattoli della vostra infanzia.
Formato 33 cl., alc. 10%, IBU 65, lotto 728, scad. 05/2020, prezzo indicativo 5.50-6.00 (beershop)NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.
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