venerdì 31 luglio 2020

CRAK Mundaka Sunshine

Tra i birrifici italiani Crak è probabilmente quello che ha meglio adottato un profilo internazionale e moderno, alla stregua di quanto stanno facendo i nomi più gettonati della scena craft europea ed americana. In Italia non si sono ancora raggiunti (e mai accadrà) i livelli di fanatismo degli Stati Uniti, con persone accampate al di fuori del birrificio per riuscire ad accaparrarsi una bottiglia di birra ma, a parte questo, a Crak non manca ormai nulla: lattine, grafiche moderne, sforna novità senza sosta (anche se ciò consiste in monotone variazioni del tema NEIPA), ha una bella taproom moderna e informale, organizza ogni anno il proprio festival e – novità 2020 – distribuisce in autonomia le birre, sia a privati che a locali e beershop.
Anche le poche birre che Crak produce tutto l’anno vengono periodicamente rinfrescate ed immesse sul mercato in edizione “speciale”, perché la gente vuole sempre bere qualcosa di diverso: è accaduto più volte  alla Guerrilla, la IPA della casa, e qualche settimana fa anche la session Mundaka ha partorito due gemelli chiamati Sunshine e Sunset.
Mundaka viene prodotta dal 2012, anno in cui i ragazzi di Padova avevano debuttato con la beerfirm chiamata Birra Olmo poi trasformatasi in Crak Brewery:  Mundaka nacque come Summer Ale, una birra estiva (3.5%) semplice e facile da bere, una sorta di gateway beer da proporre a chi magari ha sempre bevuto le blande birre industriali. Nel corso del tempo Mundaka si è trasformata prima in un’American Pale Ale e poi in una Session IPA, categoria che riscuote certamente più successo tra i clienti delle due precedenti, ed ha aumentato la sua gradazione alcolica 4.6%..  Anche il mix di luppoli è stato ovviamente modificato: quello attuale dovrebbe includere Simcoe e Citra. Lo scorso giugno ne sono arrivate due edizioni speciali chiamate Sunrise e Sunset, entrambe caratterizzate dal (necessario, se si vuole essere moderni) Double Dry Hopping.: per Sunrise Crak afferma di aver “esplorato nuovi confini della luppolatura. Abbiamo usato un nuovo metodo sperimentale che permette un’aggiunta esagerata di luppolo per un’ondata potente e deflagrante di profumi e aromi  senza alcuna increspatura astringente”.  La Sunset è invece “solamente” una versione DDH single-hop della Mundaka, con il luppolo Citra come protagonista.

La birra.
Visivamente ricorda un succo di frutta alla pera, la schiuma è modesta ed ha scarsa ritenzione: l’aroma è intenso, pulito e caratterizzato da una buona finezza per lo stile. Ananas, mango, pesca, pompelmo, profumi floreali e di altri frutti tropicali: c’è tutto quello che serve. Il “problema” (virgolette obbligatorie) di queste birre sottoposte ad un massiccio dry hopping è che sovente le aspettative create dall’aroma vengono poi un po’ deluse quando le si beve. In questo caso Mundaka Sunshine regala invece una bevuta piuttosto intensa, per essere una session beer, nella quale sono in evidenza soprattutto agrumi e carattere zesty, ma si notano anche interferenze dolci di frutta tropicale e di crackers. Ma la sorpresa più bella riguarda soprattutto il mouthfeel: morbido, assolutamente privo di asperità e spigoli. La sua natura NEIPA ne limita ovviamente un po’ la velocità di bevuta, ma è una birra che non stanca mai e che, nota di merito, non gratta in gola. L’amaro è moderato è educato, la chiusura è secca: una session di carattere nella quale la componente juicy non è estremizzata: una birra molto fruttata che sa ancora di birra, per intenderci. Un bel boost alla Mundaka, birra che non bevo da un po’ tempo ma che ricordo un po’ troppo timida: non so in  cosa consista questo nuovo metodo sperimentale di luppolare la birra che Crak dice di aver utilizzato, ma il risultato è assolutamente convincente.
Formato 40 cl., alc. 4.6%, scad. 23/11/2020, prezzo indicativo 5,00-6,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

lunedì 27 luglio 2020

MC77 / Cierzo Ala Pivot

L’anello di congiunzione tra le Marche e l’Aragona?  In questo caso Simone Flamini, cestista nato a Macerata che aveva debuttato nel 1998 con la Victoria Libertas di Pesaro diventando poi il capitano di quella Scavolini che nel 2011-2012 arrivò alla semifinale scudetto; la sua ultima apparizione sui campi di gioco con la maglia della Libertas Siena risale al 2017. Terminata l’attività sui campi di pallacanestro, Flamini si concentra sulla sua seconda passione, quella del bancone: nel 2013 assieme ad alcuni soci aveva infatti inaugurato il locale TipoPub a Pesaro con una selezione di birre artigianali ed industriali, replicando nel 2017 l’esperienza a Barcellona con la nascita del locale Pepita.   Da Barcellona Flamini si sposta poi a Saragozza, in Aragona, dove inizia a collaborare con il birrificio Cierzo , che avevamo incontrato in questa occasione, entrando a far parte dello staff.  Lo scorso febbraio 2020 Cierzo fu ospite di una serata presso il TipoPub di Pesaro e Flamini organizzò anche un incontro con il birrificio marchigiano MC-77 per una birra collaborativa.

La birra.
Ala-Pivot è il nome scelto per una IPA moderna e robusta, ai confini del  double (7.5%), caratterizzata dall’ormai immancabile DDH – Double Dry Hopping: non sono tuttavia state rivelate le varietà di luppolo utilizzate. “Erano i giorni prima del Covid-19 ricorda Flamini  -   e miei compagni d’avventura spagnoli hanno pensato che la birra dovesse avere qualcosa che mi ricordasse, ma anche un nome che si potesse capire immediatamente sia in italiano sia in castigliano. Poi gli amici di MC–77 hanno voluto che si creasse un giocatore “luppolato” che indossa la maglia della Victoria Libertas Pesaro che ha i colori biancorossi, che sono gli stessi di Macerata”. 
Il suo vestito dorato/arancio è molto velato ma non raggiunge le torbidità più estreme dello stile New England IPA. L’aroma è ricco, pulito e piuttosto elegante: mango, papaia, maracuja, pesca percoca, un po’ di agrumi in secondo piano. Al palato non è una NEIPA particolarmente cremosa o morbida: per quel che riguarda la sensazione tattile è una birra piuttosto “solida”, se mi passate l’aggettivo improprio, e la velocità di bevuta inevitabilmente ne paga le conseguenza. Il gusto si muove sullo stesso percorso dell’aroma ma lo fa con passi meno definiti e precisi, risultando un succo tropicale assolutamente gradevole che tuttavia non eclissa la componente maltata (pane e cereale). L’amaro vegetale finale, cortissimo, ha esclusivamente la funzione di portare equilibrio e lascia subito il posto ad una scia tropicale nella quale l’alcool fa finalmente sentire la sua presenza. Ala Pivot è una NEIPA piuttosto assennata e intelligente, priva di spigoli ed estremismi, coerentemente con altre produzioni Mc-7: il birrificio marchigiano si conferma – cosa abbastanza scontata, per quel che mi riguarda  - tra i birrifici italiani che meglio interpretano questo stile.
Formato 33 cl., alc. 7.5%, imbottigliata 11/05/2020, scad. 11/11/2020, prezzo indicativo 5,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

martedì 21 luglio 2020

Muttnik Bolik

Di Muttnik vi avevo parlato a gennaio 2017 a pochi mesi dal suo debutto avvenuto nell’ottobre del 2016. Da allora la beerfirm fondata da Lorenzo Beghelli ha fatto parecchia strada trasformandosi innanzitutto in un birrificio vero e proprio, anche se con modalità insolite. Nella primavera del 2019 Muttnik ha infatti acquistato il Birrificio Opera di Pavia, presso i cui impianti aveva già realizzato alcune delle sue birre; poco tempo prima Beghelli era inoltre stato ingaggiato come birraio da Opera che, ricordo, nel 2017 fa aveva a sua volta rilevato il Birrificio Pavese.  Sugli stessi impianti di Pavia vengono quindi oggi prodotti tutti e tre i marchi: Muttnik, Opera e Pavese.
Facciamo ora un passo indietro all’estate del 2017 quando a Sesto San Giovanni (MI) Muttnik inaugurava il pub chiamato MIR, locale un po’ vintage a tema (ovviamente) sovietico con una dozzina di spine ospitanti non solo le birre della casa ma anche di altri produttori e un’offerta gastronomica basata soprattutto su panini e crostoni.
Oltre alle due saison dell’esordio Belka e Strelka, entrambe sottoposte ad un rigoroso restyling grafico delle etichette, la gamma Muttnik è oggi composta dalla Imperial IPA Zhulka, dalla Berliner Weisse Rhyzhik, dalla (tipo) Kolsch Laika, dalla White IPA Albina, dalla Vienna Lager Damka e dall’American Pale Ale Bolik. E e se ve lo state chiedendo, la risposta è sì: tutte le birre sono dedicate ai cani del programma spaziale sovietico.  

La birra.
Bolik doveva essere la prima APA di Muttnik ma qualche problema con il fornitore di luppolo ne fece slittare il “vernissage” e al suo posto fu prodotta l’APA Zib, oggi mutata in Best (bitter) Zib. Per quel che riguarda il programma spaziale sovietico Bolik fu un cane che scappò solo pochi giorni prima del suo volo, previsto per il settembre del 1951 e fu sostituito dal cane ZIB (acronimo russo di "Sostituto dello scomparso Bolik"); per quel che invece riguarda la birra, la Bolik ottenne il primo posto nella propria categoria a Birra dell’Anno 2018, edizione ricca di soddisfazioni per il birrificio di Pavia. Oltre a quell’oro arrivarono infatti i bronzi per Strelka e Laika.
Il suo vestito dorato s’accende di riflessi arancio, la candida schiuma è cremosa, compatta e mostra buona ritenzione. L’aroma è fresco, elegante, pulito e abbastanza intenso: mandarino, pompelmo, bergamotto, note floreali, qualche sbuffo dank e di frutta tropicale. Un gran bel biglietto da visita le cui aspettative vengono pienamente corrisposte al palato, a partire da un mouthfeel morbido e scorrevole. Pane, qualche accenno biscottato e di frutta tropicale (ananas) introducono una bevuta caratterizzata da un bell’amaro educato e pulito che oscilla tra note resinose e soprattutto  scorza d’agrumi. L’alcool (5.4%) è nascosto perfettamente in un’American Pale Ale che si beve con la facilità di una session beer e nella quale equilibrio, pulizia e precisione sono in grande evidenza. E’ una di quelle birre che potresti bere ad oltranza per tutta la serata:  secca, profumata, rinfrescante:  le manca praticamente solo la data di imbottigliamento in etichetta (una delizia di design grafico) per essere perfetta.
Formato 33 cl., al. 5.4%, lotto 031-20, scad. 04/2021, prezzo indicativo 4,50 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

lunedì 20 luglio 2020

Alder Beer Co.: Imbiss, Dorf & Deltacolt



Torniamo a parlare di Alder Beer Co., il birrificio inaugurato da Marco Valeriani a Seregno nell’ottobre del 2019: qualche mese fa avevamo passato in rassegna tre birre luppolate di stampo anglosassone mentre oggi assaggiamo altre tre birre nella quale sono invece i malti a guidare le danze. Le prime due si rifanno ala tradizione tedesca, coerentemente con quello che aveva annunciato Valeriani spiegando il nome Alder: “una parola inglese  che sembra un po’ tedesca e rispecchia le due filosofie produttive del birrificio: Lager e IPA, mondo tedesco e mondo anglofono”. 

La schwarzbier Imbiss (5.3%) ha debutatto lo scorso 9 aprile credo esclusivamente in lattina, visto che l’emergenza Covid-19 aveva chiuso tutti i locali ai quali sarebbero stati destinati eventuali fusti; è prodotta con malti tedeschi pils, Monaco e torrefatti, lievito lager e luppoli Mittelfruh, Tradition e Select.  Di color mogano forma una bella testa di schiuma cremosa e compatta: al naso emergono profumi di pumpernickel, pane nero, accenni di caffè e torrefatto, suggestioni di cioccolato e qualche estero fruttato. Al palato c’è grande scorrevolezza come vuole la tradizione tedesca anche se personalmente credo che un pochino di corpo in più non le farebbe male.  Accenni di caramello e cola, pane nero e cereali danno il via ad una bevuta che s’intensifica solo nel finale con l’arrivo dell’amaro del torrefatto e del cioccolato. Pulita e fragrante, Imbiss è una schwarzbier facile da bere alla quale tuttavia mi sembri manchi ancora un pochino d’intensità e carattere.

Dorf  (7%) è invece una bock “chiara” che ha anch’essa debuttato in pieno lockdown con una ricetta che prevede malti pils e speciali tedeschi, luppoli Saphir e Select, ceppo di lievito lager. Il suo color oro antico è leggermente velato, la schiuma è impeccabilmente cremosa e compatta, anche se la foto potrebbe ingannare. Pane, miele millefiori, accenni di biscotto e frutta secca compongono un aroma semplice, pulito e della buona intensità per lo stile: prefazione ad una bevuta delicatamente carbonata che si muove sullo stesso percorso senza deviazioni.  Dolce ma ben attenuata, riscalda il palato con un delicato alcool warming che ben sposa le note conclusive di panificato/cereale e frutta secca a guscio: bock elegante e morbida ma non priva di un leggero carattere rustico e ruspante a renderla vivace ed interessante. Per me è una birra molto ben riuscita.

Deltacolt (5.9%) è invece una delle quattro birre (Lewis Keller Pils, Rockfield IPA e Gretna APA) con le quali Alder aveva debuttato: una milk stout nella quale lattosio e fiocchi d’avena hanno il compito di garantire cremosità e morbidezza. Si presenta di color ebano scuro e con profumi di caffè, orzo tostato, pane nero, accenni di cioccolato e di latte/panna:  è l’odore della colazione, non molto intenso ma piuttosto pulito. Il mouthfeel è effettivamente cremoso ma ci sono un po' troppo bollicine, anche se fini, a disturbarlo.  Caffè e torrefatto sono i protagonisti di una stout ben bilanciata nella quale è  la dolcezza della panna (effetto lattosio) a contrastare le tostature. Un delicato tepore etilico avvolge poi il cioccolato in una bel finale che lascia felici e soddisfatti: intensità e facilità di bevuta vanno in questo caso a braccetto e nonostante qualche piccola imprecisione da limare questa lattina di Deltacolt è una milk stout di livello già alto.

Nel dettaglio:
Imbiss, 40 cl., alc. 5.3%, imbott. 07/04/2020, scad.  07/10/2020, prezzo indicativo 5.00 €
Dorf, 40 cl., alc. 7.0%, imbott. 20/04/2020, scad. 20/10/2020, prezzo indicativo 6.00 €
Deltacolt, 40 cl., als. 5.9%,  imbott. 01/04/2020, scad. 01/10/2020, prezzo indicativo 6.00 €

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

martedì 14 luglio 2020

Tanker Oh My Citra!

Põhjala è il rappresentante più noto della birra artigianale estone, è stato il primo (2011) ed ha ispirato altri birrai a contrastare il dominio dei tre marchi nazionali A. Le Coq, Saku Õlletehas (Carlsberg) e e Viru Õlu (Harboe). Oggi ce ne sono quasi una cinquantina, tra microproduttori e beerfirm: fra questi Sori, Lehe e Pühaste sono regolarmente esportati in tutta Europa. Alla lista si aggiunge Tanker, birrificio operativo dalla primavera del 2015 ad una ventina di chilometri dalla capitale Tallinn. In realtà l’avventura di Tanker era iniziata un paio di anni prima come beerfirm: l’aveva fondata l’homebrewer e musicista Ants Laidam. Qualche mese dopo, ad un meeting di homebrewers estoni, Laidam incontra Jaanis Tammela e Ryan Suske, anche loro impegnati a trafficare in garage con pentole e fermentatori. I tre amici mettono assieme i propri risparmi acquistano il vecchio impiantino di Põhjala (1 HL) e chiudono il 2015 producendo 400 ettolitri di birra. Tammela abbandona così la sua decennale carriera nella telefonia (Ericsson) per dedicarsi a tempo pieno a Tanker e lo stesso fa Suske: Laidam, autore delle etichette, scompare invece dall’organigramma societario. In sala cottura arriva il giovane Martin Vahtra, aiutato nei primi passi dal birraio di Põhjala Chris Pilkington.   
Nell’estate del 2015 l’acquisto di alcuni nuovi fermentatori permette di triplcare la capacità produttiva e di toccare quota 1200 ettolitri alla fine del 2016. Sono però quasi 100.000 le bottiglie che vengono tappate manualmente: un paio di campagne di crowdfunding sulla piattaforma Funderbeam consentono l’acquisto di un’imbottigliatrice automatica ed altri fermentatori, ma ancora non basta. Nel 2017 Tanker ottiene altri finanziamenti per un totale di 700.000 euro  che permettono di acquistare un nuovo impianto aumentando la capacità produttiva annuale a 6000 ettolitri; nello stesso anno è il primo birrificio estone ad essere invitato all’importante vetrina della  Mikkeller Beer Celebration Copenhagen. A marzo 2018 viene inaugurato a Tallin il locale Uba ja Humal, una sorta di taproom o meglio un beershop con tavolini e venti spine che ospitano anche birrifici amici e nel maggio del 2019 hanno debuttato le prime lattine. Oggi Tanker esporta in quasi tutta Europa ma l’80% della produzione continua ad essere assorbita da Estonia e Finlandia, dove le loro birre sono presenti anche in un centinaio di supermercati. A guidare le danze la flagship IPA chiamata Reloaded.

La birra.
Il portfolio completo di Tanker segna ormai quota 160 etichette, delle quali soltanto una decina viene prodotta tutto l’anno. IPA e dintorni (Session, DIPA, NEIPA) la fanno ovviamente da padrone; una delle ultime nate, lo scorso aprile, è la Oh My Citra!, una single hop che promette fuochi artificiali grazie ad un triplo dry-hopping: a inizio, durante e alla fine del processo di fermentazione. L’etichetta prende ovviamente spunto dal celebre Urlo di Edvard Munch, ma qui è cono di luppolo a gridare la propria angoscia ed alienazione. 
Il suo colore dorato è velato, mentre la candida e generosa schiuma è compatta ed ha buona ritenzione. Il naso è gradevole ma del triplo dry-hopping non sono rimaste molte tracce, se parliamo d’intensità: protagonisti sono ovviamente gli agrumi nella forma di pompelmo, cedro, lime e mandarino.  Neppure al palato si verifica un’esplosione di luppolo e ci sono un po’ troppe bollicine a disturbare la festa: la bevuta è tuttavia piacevole e caratterizzata da una base di malti molto leggera (pane e miele) subito incalzata da un accenno di frutta tropicale e, ovviamente, tanti agrumi. Il finale è abbastanza secco, l’amaro zesty e vegetale è piuttosto tranquillo, alla faccia degli 85 IBU dichiarati in etichetta. A poco più di due mesi dalla messa in lattina nel bicchiere c’è una IPA un po’ timida nonostante i belligeranti propositi dichiarati in termini di dry-hopping ed IBU; nasconde tuttavia molto bene il suo contenuto alcolico (6%) risultando così quindi molto scorrevole e piuttosto rinfrescante.
Formato 44 cl., alc. 6%, IBU 85, lotto B447, scad.  13/12/2020, prezzo indicativo 7,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

lunedì 13 luglio 2020

Bonavena Brewing: Knuckle Pils, Hook Vermont IPA & Ring IPA



All’apparenza potrebbe sembrare tutto nuovo, ma alle spalle del marchio/progetto Bonavena Brewing c’è uno dei produttori storici della scena italica nonché il primo in assoluto di quella campana: parliamo del birrificio Saint John’s, fondato nel 1999 a Faicchio (BN) da Mario Di Lunardo. Dopo quasi vent’anni d’attività con la linea  “La Birra Artigianale”. Di Lunardo ha voluto creare un marchio parallelo dal carattere moderno e con una bella identità visiva che si ricollega al mondo del pugilato ed in particolare alla figura dell’argentino Oscar Bonavena, peso massimo che negli anni ’70 era arrivato a sfidare il grande Mohammed Alì resistendo sino alla quindicesima ripresa, quando fu fermato dall’arbitro dopo essere andato al tappeto per la terza volta. Nel 1976, qualche mese dopo il ritiro, fu ucciso dal buttafuori di un bordello in Nevada: al suo funerale a Buenos Aires parteciparono 150.000 persone. 
Per sviluppare il progetto Bonavena viene reclutato Vincenzo Follino, homebrewer dall’esperienza decennale, attuale presidente dell’associazione Southern Homebrewers e personaggio noto a chi frequenta forum e gruppi Facebook dedicati alla birra. Follino ammette d’aver imparato prima a conoscere la birra e poi ad amarla: s’è interessato della fase produttiva durante i suoi studi di tecnologia alimentare  ed ha poi iniziato a berla per piacere a viaggiare per conoscerla sempre meglio ed a farla in casa. Oggi, in parallelo alla sua attività di medico nutrizionista a Monza, si reca nei fine settimana a Benevento per concentrare le cotte e gli infustamenti delle birre Bonavena; il debutto è avvenuto nella primavera del 2018 con l’American Pale Ale Match e la NEIPA Hook, seguite a stretto giro dalla Smooth Jab (Grisette), dalla So Clinch (Lichtenhainer) e dalla KO (American IPA). 
Non è stata – almeno per chi segue la scena -  affatto una sorpresa vederlo eletto miglior birraio emergente 2019 alla manifestazione di Birraio dell’Anno che si è tenuta lo scorso gennaio 2020 a Firenze: titolo, ricordo, riservato ai produttori  con meno di due anni di esperienza. Lo spin-off Bonavena è cresciuto molto in fretta ed oggi occupa già circa il 70% della produzione dell’impianto da 28 ettolitri di St. John, le cui birre (fusti e bottiglie rifermentate)  rimangono destinate sopratutto alla ristorazione. Bonavena va invece alla conquista dei pub e dei beershop: l’emergenza Covid-19 ha anticipato le tempistiche d’introduzione delle lattine (isobarico) che hanno affiancato i fusti. Poche le bottiglie: questo formato è stato utilizzato solamente per l’imperial stout e sarà, in futuro, la casa delle birre acide che stanno già prendendo forma nella bottaia.

Le birre.
Partiamo dalla Knuckle (le nocche della boxe a mani nude) una pils che vede l’utilizzo di un lievito della Franconia isolato e propagato dal fondo di una bottiglia  -  dicono -   della Mönchsambacher Lager. Dorata e velata, dalla candida testa di schiuma compatta e cremosa, regala profumi di erbacei, di pane e fiori, soprattutto camomilla, qualche suggestione fruttata. Pane, cereali fragranti e un tocco di miele caratterizzano una bevuta snella e leggermente rustica, correttamente carbonata, che si conclude abbastanza secca con un bel finale amaro erbaceo e delicatamente speziato. L’alcool (5%) è impercettibile in questa  birra semplice e pulita che evapora letteralmente dal bicchiere: uno dei migliori complimenti che si possono fare ad una pils. Ottima.

Hook (“il gancio”) è invece quella New England IPA che non può mancare nella gamma di qualsiasi birrificio che vuol stare al passo coi tempi: utilizza due diversi ceppi di lievito, American Ale e Vermont. Il protocollo prevede che sia opalescente e lei lo rispetta; il suo color arancio è comunque luminoso e la schiuma è compatta e abbastanza persistente. Al naso c’è un’intrigante e fresca macedonia composta da mandarino, mango, ananas, pompelmo e arancia, pesca percoca, litchi, persino qualche suggestione di fragola. Il corpo è leggermente chewy, masticabile, ma non ci sono particolari morbidezze: una “mancanza” compensata da una bevuta priva di quegli ruvidi spigoli che spesso le NEIPA si portano appresso. Il gusto non è complesso e definito come l’aroma ma è comunque una NEIPA succosa e fruttata che oscilla tra la frutta tropicale e gli agrumi: pulita e abbastanza educata, nasconde anche lei l’alcool (6.9%) con grande maestria e chiude il suo percorso con un amaro resinoso/vegetale di buona intensità e breve durata. Una NEIPA molto ben eseguita che diventerebbe eccezionale se replicasse anche al palato le meraviglie aromatiche.

Con la Ring (6.6%) ci spostiamo invece sulla costa ad ovest degli Stati Uniti, quella che fino a qualche anno fa, prima di essere spodestata dal New England, era considerata il nirvana della birra. Dorata ma forse un po’ troppo pallida per il sole della West Coast, utilizza luppoli El Dorado, Mosaic, Columbus e Citra per dare forma ad un bouquet ricco di pompelmo, cedro e limone, ananas, resina e qualche lontana reminiscenza dank. Al palato riesce a scorre bene anche se per quel che riguarda la sensazione tattile la trovo un pelino più pesante del dovuto. La bevuta si snoda attraverso pane e crackers, suggestioni tropicali e un profilo zesty che prelude ad un finale amaro resinoso, “amaro ma non troppo”. Una West Coast IPA rivisitata in chiave moderna che punta sulla facilità di bevuta e ci riesce sacrificando un po’ quel “kick”, quella “botta” d’amaro che avevano i classici della California; i nostalgici come me ne avvertiranno un po’ la mancanza, le giovani leve probabilmente apprezzeranno.
Due anni fa il debutto, birre già ben definite e di ottimo livello: Bonavena brucia le tappe e s'appresta  già a passare da emergente a "big" della scena birraria italica. 
Nel dettaglio:
Knuckle, formato 33 cl., alc. 5.0%, lotto 20/15, scad. 11/2020, prezzo indicativo 4,00 euro (beershop)
Hook, formato 33 cl., alc. 6.9%, lotto 20/12, scad. 09/2020, prezzo indicativo 5,00 euro (beershop)
Ring, formato 33 cl., alc. 6.6%, lotto 20/11, scad. 09/2020, prezzo indicativo 4,50 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

lunedì 29 giugno 2020

Oskar Blues / Cigar City Barrel Aged Bamburana


Il 2019 si è chiuso in maniera piuttosto positiva per la CANarchy Craft Brewery Collective, una sorta di “ombrello sinergico” che dal 2015  racchiude al suo interno Oskar Blues, Perrin, Cigar City, Squatters,  Wasatch, Deep Ellum e Three Weavers. Il progetto è stato parzialmente finanziato dall’equity firm  Fireman Capital Partners  e sforma circa 480.000 barili di birra, un bel +14% rispetto al 2018. La crescita è stata spinta soprattutto dal successo dell’Hard Seltzer Wild Basin Boozy Water di Oskar Blues e dall’introduzione di alcune confezioni miste di birre di Cigar City e Oskar Blues, nonché del CANarchy IPA pack, una selezione di dodici IPA in lattina prodotte da Oskar Blues, Cigar City, Three Weavers e Deep Ellum. Nell’ambito del mercato craft, la Jai Alai IPA di Cigar City è il secondo 6 pack in lattina più venduto negli Stati Uniti con un aumento di vendite del 41%., mentre il 6 pack di Dale’s Pale Ale di Oskar Blues si trova in quarta posizione. 
Alquanto curiosamente i birrifici che fanno parte del progetto CANarchy non avevano mai collaborato tra di loro, limitandosi ad altre tipologie di sinergie commerciali. E’ soltanto nel gennaio del 2019 che Oskar Blues e Cigar City hanno potuto annunciare la prima collaborazione in lattina tra  due membri del CANarachy:   Bamburana, una massiccia imperial stout prodotta con aggiunta di fichi e datteri ed invecchiata in botti che avevano in precedenza contenuto whiskey e brandy; prima del confezionamento c’è stata una successiva maturazione in tank dove sono state aggiunte spirali di Amburana, un legno tipico del Sud America col quale vengono assemblati barili comunemente utilizzati per la produzione di cachaça, acquavite brasiliana ottenuta dalla distillazione del succo di canna da zucchero. L’idea di Tim Matthews, Head of Brewing Operations di Oskar Blues e Wayne Wambles, birraio di Cigar City, era di “imitare i sapori di un biscotto al pan di zenzero ripieno di fichi; abbiamo passato molto tempo e selezionare le giuste tipologie di fichi e datteri per dare anche alla birra quella leggera appiccicosità che potesse contrastare le note ruvide del legno Amburana”. 
Entrambi i birrifici sono noti per le loro imperial stout barricate di successo, come le varianti di Ten Fidy prodotte in Colorado e quelle di Marshal Zhukov e Hunahpu in Florida. 

La birra. 
 Molto prossima al nero, forma una testa di schiuma molto “abbronzata” e un po’ scomposta ma dalla discreta persistenza. L’aroma è in parte spiazzante: oltre alla rassicurante presenza di fichi, datteri, uvetta e distillato c’è un mix di spezie non ben identificato che richiama zenzero, cannella e cardamomo. C’è anche una netta nota affumicata e qualche richiamo al rabarbaro. Il naso è comunque avvolgente e riscalda con i suoi ricordi di whiskey e brandy.  Un eccesso di bollicine compromette quella che dovrebbe essere una birra morbida e piena, da sorseggiare con calma sul divano:  agitare il bicchiere aiuta ma non risolve del tutto il problema. La bevuta è dolce di melassa e caramello, liquirizia, cioccolato e frutta sotto spirito: alcool (12.2%), delicate tostature e note legnose riportano la livella in equilibrio prima di un finale caldo, piuttosto etilico, nel quale i distillati sposano qualche goccia di cioccolato e un filo di fumo.  E’ una birra interessante che lascia inizialmente un po’ spiazzati ma che riesce pian piano a conquistare chi ha il bicchiere in mano: un’imperial stout leggermente speziata in maniera abbastanza poco tradizionale, immagino per effetto del legno Amburana. Peccato per l’eccesso di bollicine: il risultato è positivo ma poteva essere migliore.
Formato 35,5 cl., alc. 12,2%, imbott. 10/01/2019, prezzo indicativo 7,00-8,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

giovedì 25 giugno 2020

Jungle Juice Baba Jaga IPA


E’ senz’altro una giungla “urbana” quella scelta dall’ex-homebrewer Umberto Calabria per dar forma ai suoi sogni di birra. Siamo nel Mandrione di Roma, nel quartiere Q. VIII Tuscolano:  fino alla seconda guerra mondiale qui vi era soltanto un prato dove pascolava una grossa mandria (mandrione, appunto). Gli sfollati del bombardamento di San Lorenzo del 1943 occuparono l’area e costruirono delle baracche sotto gli archi dell’acquedotto; negli anni cinquanta il Mandrione era conosciuto soprattutto per zingari e prostitute e rimase in stato di forte degrado sino alla seconda metà degli anni ’70 quando fu gradualmente riconvertito in zona artigianale e residenziale. Al Mandrione Pasolini ambientò molte scene dei suoi film, ne scrisse e ne fece motivo di interventi politici. 
Ma torniamo alla birra. E’ un viaggio in Interrail in Belgio ad accendere la passione in Umberto “JJ” Calabria, cui fa seguito un corso di degustazione presso la AdB Lazio: dal bicchiere a pentole e fornelli il passo è poi breve. Gli esperimenti casalinghi non durano neppure troppo: già nel 2014 Umberto decide di mettere da parte la laurea in giurisprudenza e la carriera d’avvocato per mettersi a fare la birra. Nasce la beerfim Jungle Juice Brewing, itinerante per un paio d’anni sugli impianti del Piccolo Birrificio Clandestino a Livorno, di Birra Turan a Viterbo, del Birrificio La Fucina nel Molise, da Hilltop Brewery e da Eternalcity Brewing a Roma. Il debutto avviene con la saison Jellyfish e con l’American IPA Baba Jaga, cui fanno seguito altre produzioni molto luppolate come la Black IPA Jungle Fever e la Session IPA Marisol e la Double IPA Spud.  Ma c’è anche il Belgio con la triple Dentistretti  e la witbier al lampone Fruit Jay, capostipite di una serie di birre alla frutta che oggi include una Session IPA all’ananas ed una White IPA con pesca e pera, solo per citarne alcune. 
Lo status di beerfirm non dura molto: all’inizio del 2016 iniziano i lavori di ristrutturazione di un ex-pastificio al Mandrione nel quale viene installato un impianto da 10 ettolitri capace di sfornarne circa 900 all’anno. Ad affiancare Umberto ci sono i ragazzi dell’Hopificio, locale del quartiere dell’Appio Latino: Marco Mascherini, Claudio Lattanzi, Marco Valentini ed Emanuele Grimaldi.  A Marco, diplomato in design, vengono affidate grafiche e comunicazione delle birre.  Un investimento importante finanziato con risparmi personali e con duecentomila euro dal microcredito dei fondi europei. Il vernissage del birrificio e della sua taproom chiamata Jungle Juice Beer Bar avviene nel maggio del 2017: il locale è aperto dal giovedì alla domenica e affianca alle birre una cucina informale, musica, Dj set e ovviamente partite di calcio in diretta tv.
Jungle Juice ha sempre distribuito le proprie birre solo in fusto, realizzando un numero molto limitato di bottiglie per la vendita presso la taproom. L’emergenza Covid-19 ha spinto il birrificio a rivedere le proprie strategie e da qualche tempo sono arrivate le lattine, acquistabili anche presso lo shop on-line.

La birra.
 L’American IPA di Jungle Juice è dedicata a Baba Jaga, mostruosa vecchietta dotata di poteri magici della mitologia slava e russa. La ricetta se non erro dovrebbe prevedere malti Pale, Cara 20 e CaraPils, luppoli Centennial, Simcoe e Mosaic. Il suo colore dorato è piuttosto carico, prossimo al rame, mentre la schiuma è cremosa e compatta. L’aroma è fresco, intenso e pulito: pompelmo, arancia, resina, mandarino, accenni di frutta tropicale e di biscotto. Un bel bouquet che trovo solo parziale corrispondenza al palato: la bevuta è infatti meno sfaccettata e basata sulla contrapposizione dolce (caramello e biscotto) e amaro (resina-vegetale). L’alcool (7%) è molto ben nascosto,  qualche nota di pompelmo è il preludio ad un finale abbastanza secco dall’amaro di buona intensità e durata. Una IPA semplice e bilanciata, pulita e facile da bere, classica e lontana dalle mode: tuttavia credo che replicare le caratteristiche aromatiche anche nel giusto non potrebbe che giovarle. Ma è comunque una buona bevuta, piuttosto gradevole.
Formato 33 cl., alc. 7%, lotto 13/2020, scad. 07/10/2020, prezzo indicativo 4.,50-5,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

mercoledì 24 giugno 2020

Avery IPA & Avery The Maharaja Imperial India Pale Ale


Del birrificio Avery di Denver, Colorado, vi avevo già parlato in un paio di occasioni:  la sua storia è simile a quella di tanti altri protagonisti della craft beer revolution americana. Un ex-homebrewer apre un piccolo birrificio proponendo ai clienti birre troppo diverse da quelle che sono abituati a bere, spesso “troppo amare”.  Pian piano queste birre insolite conquistano sempre più palati ed il piccolo birrificio non riesce a soddisfare la domanda dei clienti: inizia allora ad espandersi in maniera caotica, spesso prendendo in affitto piccoli locali adiacenti a quello dove già opera fino a decidersi a fare un investimento milionario, costruirsi una nuova casa su misura e distribuire le proprie birre in buona parte degli Stati Uniti. 
E’ esattamente quello che ha fatto Adam Avery, ex-homebrewer che nel 1993 ha aperto il suo birrificio a  Denver, in una zona commerciale tra meccanici d’auto e altri piccoli negozi e nel 2015 ha completato un ambizioso piano di espansione da ventisette milioni di dollari e un potenziale di 120.000 ettolitri all’anno. Le vendite non sono però mai decollate e Avery ha avuto le stesse difficoltà che hanno incontrato molti protagonisti storici della craft beer revolution americana.  Un mercato che cresce più lentamente e, al suo interno, la concorrenza di tanti nuovi piccoli birrifici locali che rubano vendite ai grandi, grazie anche ad una maggior flessibilità che permette di soddisfare la costante richiesta di qualcosa di nuovo da bere dei clienti. Avery ha dovuto cercare dei partner disponibili ad immettere la liquidità necessaria per andare avanti e ridurre l’esposizione debitoria con le banche. Non si sono fatti sfuggire l’occasione quelli spagnoli della Mahou San Miguel che nel 2014 avevano già rilevato il 30% del birrificio Founders: lo stesso è accaduto con Avery a marzo del 2018. Alla  fine del 2019 Adam Avery ha ceduto alla  Mahou un ulteriore 40% ed oggi possiede quindi solamente il 30% del birrificio che aveva fondato. 
Per chi (come me) segue da almeno un decennio la birra artigianale il nome Avery  (come Founders, del resto) era uno di quelli sulla lista dei desideri. Le birre di Avery sono sempre arrivate in Europa con il contagocce e qualche anno fa si riusciva a trovare qualche bottiglia delle loro massicce edizioni invecchiate in botte. Dal mio punto di vista è quindi abbastanza sconvolgente trovare oggi le lattine di Avery non solo nei beershop italiani ma anche sugli scaffali dei supermercati: merito (o colpa) dell’acquisizione di Mahou. Consoliamoci con la possibilità di assaggiare oggi, con una decina d’anni di ritardo (e quattro mesi di viaggio) un pezzo di storia  della craft beer revolution a stelle e strisce, anche se Avery non è più un birrificio artigianale.  Avvertenza: le lattine di Avery che sono arrivate di recente in Italia nate alla metà dello scorso febbraio: a voi decidere se è il caso di procedere o no all’acquisto.

La birre.
Nel 1993, anno del debutto, erano tre le birre prodotte da Avery: la Redpoint Amber Ale, la Ellie’s Brown Ale e la Out of Bounds Stout. Tre anni dopo Adam provava a testare il palato dei propri clienti introducendo una birra molto diversa, ovvero piuttosto amara, che lui amava bere tra le mura domestiche: in quell’anno il birrificio acquistò anche la sua prima imbottigliatrice automatica e quella di Avery fu la prima IPA del Colorado ad essere confezionata e distribuita. Le reazioni dei clienti furono inizialmente tutt’altro che positive ma Adam non smise di produrla e dopo qualche anno la IPA diventò la birra più venduta di Avery, spodestando dal trono la Ellie’s Brown Ale. 
La sua formula si basava sulla ”regola dei 4C”, ovvero luppoli Columbus, Centennial, Cascade e Chinook. I malti sono Monaco, C-120 e 2-Row; la ricetta è stata poi aggiornata introducendo un dry-hopping di Idaho 7 e Simcoe. Peccato sia cambiata anche l’etichetta, un tempo raffigurante una vecchia cartina geografica che indicava la rotta dall’Inghilterra verso le indie: oggi sulla lattina domina solamente un grosso cono di luppolo.
  Il suo colore è solare, piuttosto luminoso, con leggere sfumature che tendono all’arancio; la schiuma biancastra è cremosa e compatta. L’aroma non offre granché; avverto note floreali, crosta di pance, accenni di resina. Probabile che il dry-hopping di questa lattina nata quattro mesi fa sia già evaporato. Fortunatamente la bevuta fa notevoli passi in avanti: pane, caramello e accenni biscottati formano una base dolce che viene subito incalzata dall’amaro resinoso e vegetale, di buona intensità e persistenza. L’alcool (6.5%) è ben nascosto, il mouthfeel è morbido, piuttosto gradevole e consente un’ottima scorrevolezza. L’ispirazione di Adam Avery erano le IPA della non (troppo) lontana West Coast, ma di dank e pompelmo in questa lattina ne è rimasto un po’ troppo poco. C’è un bell’equilibrio ma non è una birra priva di spunti e non particolarmente vivace sulla quale hanno evidentemente pesato molto i quattro mesi di viaggio intercontinentale. Non l’ho mai bevuta fresca e quindi non posso fare paragoni: questa IPA di Avery si beve comunque con discreto piacere, e se la trovate nei supermercato a poco più di due euro può essere un compromesso qualità-prezzo anche accettabile. 

Ci sono voluti quasi dieci anni ad Avery per cimentarsi con una Double IPA: è infatti arrivata solamente nel 2004, in concomitanza con i festeggiamenti dell’undicesimo compleanno bagnati dalla Eleven Anniversary Ale, una Double IPA basata sul barley wine Hog Heaven che il birrificio del Colorado produceva dal 1997. Ricorda Adam: “dopo averlo prodotto per così tanti anni ci chiedevamo come potevamo alzare l’asticella. Il Barley Wine era delizioso e volevamo vedere se riuscivamo a farne una versione più potente ed estremamente luppolata: nacque Eleven (9%), la birra dell’anniversario e ci piacque così tanto che sentimmo il bisogno di dover produrre una Imperial IPA almeno una volta all’anno”.  
Maharaja (10%) è il nome scelto per una birra disponibile all’inizio solamente in estate, da marzo ad agosto, e parte della Dictator series di Avery: il  Maharaja andava a far compagnia allo Zar (Csar Imperial Stout) e alla Kaiser Imperial Lager. Oggi la Maharaja è invece disponibile tutto l’anno, anche lei in una nuova veste grafica che personalmente mi fa un po’ rimpiangere quella di un tempo.  Columbus, Simcoe, Centennial  e Chinook sono i protagonist di una ricetta poi aggiornata con il dry-hopping di Idaho 7, Vic Secret e Simcoe. I malti sono Two-row barley, Caramel 120L e  Victory. Sembra passato un secolo, ma non molti anni fa la Maharaja di Avery era tra le classiche Imperial IPA americane che ogni appassionato avrebbe dovuto e voluto assaggiare. 
Si veste di un bel color dorato carico d’arancio, la schiuma biancastra è compatta ed ha buona ritenzione. Pompelmo, arancia, resina, suggestioni di frutta tropicale e di alcool compongono un bouquet di media intensità ma piuttosto pulito. Sono piacevolmente sorpreso per una birra che ha quattro mesi di vita e arriva dagli Stati Uniti: sensazioni positive anche per quel che riguarda il mouthfeel, pieno, morbido e avvolgente. Difficile chiedere di meglio ad una classica DIPA. La bevuta è prevalentemente amara, resinosa e pungente, con l’alcool ad enfatizzare quest’ultimo aspetto: a bilanciare troviamo il dolce dei malti che sposa tonalità biscottate e caramellate, con una punta di miele e di arancia/pompelmo zuccherato. La Maharaja è potente e morde ancora con i suoi denti affilati, sfociando in una chiusura abbastanza secca e un finale amaro lungo e intenso. Se amate l’amaro e volete una birra dura e pungente, il Maharaja è pronto a soddisfare le vostre voglie: le lattine arrivate di recente in Italia sono ancora in buona forma, affrettatevi ad assaggiare questo pezzo di storia della US Craft Beer Revolution.
Nel dettaglio:
Avery IPA, formato 35,5 cl., alc. 6,5%, lotto 14/02/2020, prezzo indicativo 4,00 euro (beershop)
The Maharaja, formato 35,5 cl., alc 10%, IBU 102, lotto 17/02/2020, prezzo indicativo 5,00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

martedì 16 giugno 2020

Ceres Mosaic IPA


L’industria danese ama il Mosaic?  Si potrebbe quasi dire di sì: dopo la Faxe Mosaic IPA il colosso Royal Unibrew piazza sugli scaffali dei supermercati la Ceres Mosaic IPA, sfruttando il suo marchio più popolare sul nostro territorio. Ricordo brevemente che la Unibrew nacque nel 1989 dalla fusione di Faxe, Jyske Bryggerier e marchi posseduti per cercare di contrastare il gigante Carlsberg.  Ceres è uno di questi marchi ma si trovano pochissime notizie storiche su quel birrificio fondato ad Aarhus nel 1856 da Malthe Conrad Lottrup e poi passato attraverso diverse acquisizioni: sappiamo per certo che gli impianti furono definitivamente chiusi nel 2008  in quanto non più ritenuti idonei agli standard imposti dalla casa madre. Sarebbero stati necessari troppi investimenti per riammodernarli. La produzione della gamma Ceres affidata al birrificio Albani, dal 2000 parte di Unibrew e fondato nel 1859 ad Odense dal birraio (nonché farmacista) Theodor Ludvig Schiøtz. 
Faxe e Ceres sono due marchi di Unibrew ed entrambi producono una Mosaic IPA dalla stessa gradazione alcolica (5.7%): non posso dire che sia la stessa identica bevanda ma evidentemente l’ufficio marketing ha deciso che il mercato italiano aveva bisogno di quel prodotto. Quello che sembra invece essere certo è che la Ceres Mosaic IPA è una rebranding della Albani IPA, marchio con zero appeal (e peraltro non presente) sul mercato italiano. La Albani Mosaic IPA esiste da maggio 2016 quando fu presentata sulla Odense Aafart, una crociera fluviale: evento coerente con il (falso) mito delle IPA nate in Inghilterra per essere esportate via nave alle colonie indiane. 
Alla Norden Gylden IPA saponosa e ricca di rosmarino, la Ceres affianca ora la più tradizionale Mosaic IPA: lattina blu elettrico, la scritta “cinquanta sfumature di IPA” in bella evidenza, “bitter, fresh, fruity”. In teoria c’è tutto quello che ci dovrebbe essere e il suo debutto sul mercato italiano è avvenuto nel febbraio del 2019 assieme alle sorelle Ceres Okologisk e Strong Ale “nel nuovo formato lattina cool”.

La birra.

Nel bicchiere è ramata e perfettamente limpida: schiuma compatta, cremosa, buona persistenza. L’aroma è davvero fruttato: accenni di tropicale, i frutti di bosco tipici del Mosaic, c’è anche una lieve presenza floreale. La fragranza è invece assente: marmellata piuttosto che frutta fresca e a complicare le cose c’è una poco piacevole presenza metallica. La sua scorrevolezza è tutto sommato buona, anche se da una birra industriale mi sarei aspettato una consistenza palatale un po’ più leggera. Potrei fermarmi qui perché l’aroma è l’unico aspetto quasi decente di una IPA che al palato si risolve in un profilo dolce di caramello leggermente biscottato e metallico cui fa seguito un finale amaro, vegetale, piuttosto triste e sgraziato. Bitter? Un po’. Fresh e fruity? Per niente. L’alcool (5.7%) si sente bene e contribuisce ad azzerare il suo potere rinfrescante, a meno che non vogliate berla appena tirata fuori dal frigorifero.  Birra abbastanza inutile e spenta, filtrata e pastorizzata, quindi già “morta” all’origine: anche se costa poco e la si trova ad 1 euro non fa venir voglia di ripetere l’esperienza. Nessuna sorpresa, insomma.

Formato 33 cl., alc. 5.7%, lotto H1927, scad. 09/06/2021, prezzo indicativo 0,99-1,50 euro (supermercato)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio