giovedì 14 agosto 2014

Pausa Estiva 2014

E finalmente siamo arrivati anche quest'anno al momento della pausa estiva; il blog va in ferie e torna ad inizio settembre.
Per chi si sentisse abbandonato, ecco gli inevitabili collegamenti alle pagine "social" che vi terranno compagnia con un po' di #beerporn  americano:


buone vacanze a tutti!

martedì 12 agosto 2014

Jester King El Cedro

Credo che in un improbabile concorso di etichette di birra i texani di Jester King avrebbero grandi possibilità di arrivare in finale: ve li ho presentati in questa occasione, e dopo la bellissima Black Metal Imperial Stout ecco l'ugualmente splendida etichetta di El Cedro. Avevamo lasciato Jester King ad inizio 2013 impegnato a combattere contro la rigida legge  texana TABC (Texas Alcohol and Beverage Commission); la battaglia è stata vinta a giugno di quello stesso anno. Ai birrifici texani è ora permesso avere una "tasting room" e vendere direttamente ai clienti la birra da bere sul posto (in precedenza potevano solamente offrire assaggi gratuiti abbinati alla visita degli impianti), mentre a chi ottiene la licenza di "brewpub" è consentito vendere la birra non solo per il consumo sul posto ma anche da "asporto" direttamente ai clienti e ai distributori, per la vendita dentro e fuori dal Texas. Sino ad allora, un brewpub poteva esclusivamente vendere la propria birra a chi la beveva all'interno del proprio locale. Per chi vuole approfondire, segnalo questo articolo.
Ma torniamo alla bella etichetta di questa El Cedro, una "hoppy cedar-aged ale with brettanomyces"; più che di una etichetta si tratta quasi di un poster: avvolge tutta la bottiglia, da fronte a retro: liscia, lucida, impreziosita da dettagli "dorati", raffigura il mostruoso volto di un albero (di cedro?). Molto dettagliata la lista degli ingredienti: malti Two Row e Carapils, frumento biologico maltato, un bouquet di luppoli che, a seconda della disponibilità, include Millenium, Cascade, Columbus, Citra (anche in dry-hopping) e Simcoe, lievito di tipo farmhouse. Una volta pronta, la birra viene messa a maturare su delle spirali di legno di cedro spagnolo e quindi imbottigliata con l'aggiunta di brettanomiceti. Tanta roba, insomma, per una di quelle birre che ti fanno sempre dubitare su quale sia il momento giusto per berle: fresche, per godere della freschezza dei luppoli, o dopo qualche mese/anno, per far sì che emerga il lavoro dei brettanomiceti? Considerando che la birra viene dagli Stati Uniti, ho escluso per principio la prima opzione (sarebbe stato comunque troppo tardi) ed ho lasciato la bottiglia, prodotta a novembre 2012, per qualche mese in cantina.
Questa Belgian Strong Ale (o Framhouse Strong Ale) arriva nel bicchiere di colore arancio, opaco; la schiuma è bianca, cremosa e "croccante", dalle dimensioni generose e dalla ottima persistenza.  Il naso è complesso ed interessante, pur non essendo un elogio al pulito: il bouquet di profumi, che forse non vanno molto d'accordo tra loro, comprende acido lattico, vaniglia, limone, pesca, marmellata d'arancio, legno e terra umida, qualche sfumatura di lampone ed erbacea. Al palato rivela un corpo medio, una carbonazione abbastanza sostenuta ed una buona presenza che però non pregiudica la scorrevolezza della bevuta. Troviamo note di crackers, e di vaniglia, marmellata d'agrumi, bilanciate dall'amaro erbaceo e terroso; l'alcool (8%) è ben nascosto, e sono altri gli elementi a rendere questa El Cedro meno fruibile del previsto. Le note di legno e di vaniglia mettono un po' in ombra il resto della birra che, a dispetto del suo colore quasi solare, tende invece ad incupirsi con abbondanza di legnoso e di terroso. Il risultato pende di più verso il "sorseggiare" che il bere a grandi sorsi, e una lieve acidità non aiuta molto a stemperare una birra complessa ma soprattutto complicata da bere. Il prezzo tutt'altro che economico è altra benzina sul fuoco, e alla fine il pensiero va a quelle "farmhouse" belghe che costano un quinto e che non ti rendi nemmeno conto di bere tanto finiscono in fretta. Nei siti di beer-rating prende voti altissimi, e quindi: a) mi prendo umilmente la colpa di non aver capito questa birra; b) mi appello alla famosa "bottiglia sfortunata".
Formato: 75 cl., alc. 8%, lotto #1 nov. 2012, scad. 11/2015, pagata 20.00 Euro (beershop, Italia).

lunedì 11 agosto 2014

Prairie Artisan Ales Merica

Di Prairie Artisan Ales vi avevo brevemente accennato qualche settimana fa in occasione di una collaborazione con Mikkeller chiamata American Style; la fondano i fratelli Chase e Colin Healey nel 2012, entrambi con un lungo passato da homebrewers. Nel mondo dei professionisti entrano da una sorta di ingresso secondario: non con impianti propri, ma con la formula del "beer firm". Trovano casa alla Choc Beer di Krebs, Oklahoma, dove producono tutte le loro birre; il sito internet è molto curato, le etichette (disegnate da Colin, che si occupa anche di marketing) sono davvero molto belle, ma alla Prairie sono abbastanza avari nel fornire informazioni storiche sul loro passato. Bisogna googolare un po' per scoprire che Chase, il birraio, ha una passato alla COOP Ale Works ed alla Redbud  (entrambe in Oklahoma). E' proprio alla Redbud che si fa conoscere, sperimentando con i lieviti da vino, da champagne e quelli "selvaggi"; la Redbud oggi non esiste più, ma è con una birra chiamata Cuvee Three che Chase Healey attira l'attenzione dell'importante distributore Shelton Brothers. Una volta nato il marchio Prairie Artisan Ales, i fratelli Healey firmano subito un contratto per la distribuzione in molti stati americani e per l'esportazione all'estero. Il successo garantisce i fondi necessari per la pianificazione del proprio birrificio, e l'inaugurazione avviene a dicembre 2013, alla porta di Tulsa; il focus è quello degli affinamenti e degli invecchiamenti in botte. Come viene anche descritto sulla pagine di Kickstarter, dove il birrificio richiedere diecimila dollari di crowdfunding per collaborare alla costruzione di un birrificio "to brew 100% oak aged beers". Al tempo stesso, una parte delle birre vengono ancora prodotte all'esterno per poter soddisfare le richieste del mercato.
E così è anche per questa Saison/Farmhouse Ale chiamata Merica, (abbreviazione informale che sta ovviamente per America), che viene ancora prodotta a Krebs, come correttamente indicato in etichetta. 
Cercavate una dimostrazione empirica del "less is more" in ambito brassicolo? Eccola qua, e si chiama Merica: un solo malto (Pilsner), un solo luppolo (Nelson Sauvin) e le magie fatte dal lievito "farmhouse" proprietario del birrificio che, in realtà nasce dall'incontro di due ceppi di brettanomiceti e di uno di vino.  Di aspetto arancio molto pallido, opaco, forma un ampio cappello di schiuma bianchissima quasi pannosa, compatta e molto persistente. L'aroma è interessantissimo e fresco, vivace: si aprono le danze con leggeri sentori di acido lattico e di uva bianca, poi note rustiche di sudore, di formaggio, di "granaio". Il bouquet si amplia con la scorza di limone e di lime, i fiori bianchi, il cedro e, quando la birra si scalda, l'asprezza viene un po' smussata da note di pompelmo rosa. Già il colore di questa birra inneggia all'estate, ed è sufficiente un solo sorso per rendersi conto di trovarsi nel bicchiere una birra perfetta per i giorni più caldi dell'anno: lievissime note di pane, una lievissima acidità lattica e poi sono le note aspre dell'uva spina, del cedro, del pompelmo e del limone a rinfrescare e a dissetare il palato. L'asprezza viene parzialmente stemperata dal dolce dell'ananas e della pesca bianca, la birra è leggera, vivacemente carbonata, scorrevole ma non sfuggente. E l'alcool? L'etichetta dichiara 7.5%, ma è difficile accorgersene. Il gusto è molto meno rustico dell'aroma, privilegiando la pulizia e l'eleganza: chiude con un bell'amaro "zesty", ricco di scorza d'agrumi e con qualche sfumatura erbacea, che pulisce il palato in maniera impeccabile ed invita il sorso successivo. Avete caldo e volete "dissetarvi come se non ci fosse un domani?" Pensate a Merica: lievemente vinosa, molto ben assemblata, con un gran bel dialogo tra tutte gli elementi.  Non è una birra economica, ma si trova anche in Italia, e per una volta potete fare un piccolo sacrificio che, credo, non rimpiangerete.
Formato: 50 cl., alc. 7.5%, IBU 30 (?), scad. 12/2020, pagata 12,50 Euro (beershop, Italia).

domenica 10 agosto 2014

Vecchia Orsa Rajah

Mancava da un paio d'anni su queste pagine, il birrificio Vecchia Orsa, da quell'infausto 2012 in cui il terremoto che aveva colpito l'Emilia aveva messo in ginocchio anche la vecchia casa di campagna che ospitava gli impianti. Si decise allora di anticipare i tempi del già programmato trasloco in locali adatti a contenere impianti più capienti; ma anche la struttura individuata a San Giovanni in Persiceto necessitava di alcune modifiche antisismiche. E' solo ad inizio 2013 che vengono realizzate le prime cotte nel nuovo impianto e che viene inaugurato lo spaccio, un piccolo locale antistante il birrificio dove si possono bere ed acquistare le birre, anche mangiando qualche tagliere di formaggi e salumi.  I nuovi impianti hanno portato una modifica dei formati delle bottiglie: sono nate le piccole 33,  e  le bottiglie  da 75 cl. sono state sostituite dal formato 66. Rinnovate in meglio le etichette, cambiati i nomi di alcune ricette. Molto bene la scelta del trentatré, meno bene il livello prezzi che - ahimè - ha subito una leggera impennata. Se nel 2012 allo spaccio una bottiglia di Saison da 75 cl. costava 6.00 Euro, adesso il formato da 66 viene venduto a 6.10 Euro.
Spostiamoci ora al 31 Ottobre 2013 dove al birrificio viene presentata per la prima volta la India Pale Ale di Vecchia Orsa: Rajah, questo il nome scelto, per un'American IPA realizzata con malti Maris Otter, Monaco, Cara-Hell e Crystal, frumento, luppoli Simoce, Chinook, Columbus, Target e Northern Brewer.
Bottiglia "rilasciata" verso la metà dello scorso giugno, che ha quindi un mesetto circa di vita alle spalle. Il colore è ambrato, con riflessi ramati; la schiuma, biancastra, è fine e cremosa, generosa e molto persistente. L'aroma è ovviamente fresco, ed è quello che vorresti sempre trovare quando bevi una IPA: quasi balsamico, con pungenti sentori di aghi di pino e resina, suggestioni di menta, pompelmo e note più dolci di frutta tropicale e di fragola/lampone che emergono quando la birra si scalda. La stessa freschezza si ritrova anche al palato: i malti danno una bella strutta (biscotto e caramello) per sorreggere e bilanciare l'abbondante luppolatura. Si parte dal pompelmo, da qualche lieve nota dolce di frutta tropicale per passare ad un crescendo progressivo d'amaro, ricco di resina, pungente e pepato. Il corpo è medio, le bollicine sono poche, il risultato è una birra oleosa e morbida, gradevole al palato, che si beve bene ad un ritmo - chiaramente - non troppo elevato. Una IPA che si dissocia da quelle modaiole e ruffiane, dalla spremute di agrumi o di frutti tropicali: qui si fa sul serio, si spinge il piede sul pedale dell'amaro, il palato è sempre ben pulito e soddisfatto dal bel retrogusto pulito ed intenso di resina e di terra "umida". 
Formato: 33 cl., alc. 6.5%, IBU 65, lotto 412, scad. 06/2015, pagata 3.80 Euro (spaccio birrificio).

giovedì 7 agosto 2014

Wild Hops - Kill Me in The Morning Pt. II

Secondo episodio della saga "Kill Me in the Morning", birra realizzata al Birrificio Oldo dei Cadelbosco (Reggio Emilia) dal beershop di Reggio Emilia (e filiale a Rubiera) Wild Hops. La prima edizione era stata realizzata pochi mesi fa, a marzo 2014, per festeggiare il secondo compleanno del negozio. La cotta è andata prosciugata abbastanza in fretta e si è  reso necessario metterne in cantiere una seconda. Stessi ideatori (il birraio di Oldo Francesco Racaniello, l’homebrewer Raffaele Ferrarini ed il proprietario di Wild Hops,  Giovanni Iotti), e ricetta leggermente modificata: l'ABV passa da 5.3 a 5.8%, lievito T58, malti Pils, Maris Otter e Carapils, avena ed un parterre di luppoli composto d Apollo, Chinook, Perle ed EK Goldings. Viene presentata il 3 luglio a Birreggio, quando avviene il cambio della guardia con l'ultimo fusto della prima edizione; in etichetta alcune utili istruzioni: "adatta alla donne, meglio se non troppo incinte, e adatta agli uomini, meglio se non troppo alcolizzati". La scena raffigurata in etichetta raffigura di nuovo l'interno del beershop, con una corpulenta bionda che, adagiata su un barile di legno, si lamenta in attesa di essere "ispezionata" da un inquietante ginecologo. Questi, assieme ad un detective, arriva alla conclusione che "questa birra è il modo migliore per iniziare la giornata nello stesso malomodo in cui è finita quella precedente; amara come la vita".
Si presenta di colore arancio opaco; la schiuma è bianca, pannosa, dalla trama fine e dalla lunga persistenza. Bottiglia fresca con un mesetto di "vita" alle spalle, regala fragranti sentori di lime e di limone, banana acerba, spezie (pepe, coriandolo ?), zucchero candito e polpa d'arancia.  Vivacemente carbonata, ha un corpo tra il medio ed il leggero. L'ingresso è dolce, con miele ed arancio candito, albicocca disidratata, crosta di pane e biscotto; la seconda parte della bevuta vira invece decisa in acque amare, con una presenza molto intensa di note erbacee e di scorza di lime e pompelmo. L'intensità mi sembra però sacrificare un po' la facilità di bevuta, tenendo conto del contenuto alcolico non molto elevato (5.8%) di questa Kill Me in the Morning II. In effetti sembra quasi dimostrare molti più "gradi" di quelli che in realtà ha; la presenza in bocca è durevole, ma la scorrevolezza è un po' limitata. Più pulita ed elegante della parte "I", è molto attenuata ed un pelino astringente al palato. Mi sembra quasi una birra "autunnale" più che una rinfrescante, dissetante e luppolata Belgian Ale estiva; dovessi scegliere tra le due versioni, opterei senz'altro per la prima. Credo che in cantiere ci sia già una "terza", forse un epilogo e  forse destinato a riscaldare durante i mesi più freddi dell'anno?
Formato: 33 cl., alc. 5.8%, lotto AD037, scad. 30/05/2015, omaggio del beershop.

mercoledì 6 agosto 2014

Tegernseer Quirinus Dunkler Doppelbock

Cinquanta chilometri a sud di Monaco, il Tegernsee è un limpido lago nel quale si specchiano le vicine alpi Bavaresi; il re di Baveria Maximilan I, all'inzio dell'Ottocento, decise di stabilirvi una residenza estiva trasformando quello che sino alla fine del diciottesimo secolo era stato il più importante monastero benedettino di tutta la Baviera. In un'ala del Kloster Tegernsee ancora oggi  dimorano i discendenti del casato dei Wittelsbach, mentre in un altra si trova il birrificio. Dalla produzione alla Bräustüberl, la birreria-ristorante annessa al castello, il passo è breve; un tempo ospitava le cene della nobiltà europea, oggi è "solamente" il luogo ideale dove assaggiare le birre appena prodotte sulla sponda del lago. I monaci furono autorizzati a produrre birra per la prima volta nel 1675, a quanto pare non solo per il consumo interno al monastero ma anche per la vendita, i cui profitti servivano al mantenimento del Benedictinerkloster. Il birrificio attuale, Herzoglich Bayerisches Brauhaus Tegernsee, è invece "nato" nel 1803. Oltre duecento anni di storia e solo una decina le tipologie attualmente prodotte: si fa l'essenziale, quello che serve, quello che la tradizione richiede, quello che la gente beve senza porsi troppo domande.
Approfitto - di nuovo - di questa estate clemente per stappare una bottiglia di Doppelbock. Subito alcune particolarità: il nome non finisce in "-ator", ma è semplicemente Quirinus, in etichetta non ci sono i soliti caproni, e il contenuto alcolico (7%) è all'estremo inferiore di quello che è considerato il range tipico dello stile.
Il colore è un bellissimo ambrato carico, con intensi riflessi rossastri, limpidi; si forma una testa di schiuma molto compatta e cremosa, dalla trama fine, molto persistente. Impeccabile. Il naso è pulito e regala sentori di pane nero, pumpernickel, pane bianco e cereali, caramello, ciliegia e prugna, con solo una lievissima presenza di diacetile. Al palato è davvero molto gradevole, trovando un compromesso pressoché perfetto tra la scorrevolezza tipicamente tedesca e quella morbidezza "necessaria" per una importante doppelbock; il corpo è medio, le bollicine sono pochissime. Il gusto non regala ovviamente sorprese, riproponendo in sequenza il pane, il biscotto, il caramello, la prugna; c'è molta dolcezza, quasi zuccherina, che viene però magistralmente bilanciata dalle lievi tostature e da una nota di mandorla amara. L'alcool è modesto ma l'intensità non manca, e il risultato è una doppelbock pulita, equilibrata e facile da bere, con un bel profilo maltato ed un lieve tepore etilico nel retrogusto.  
Formato: 50 cl., alc. 7%, lotto 16:44, scad. 07/11/2014, pagata 1,53 Euro (beershop, Germania)

martedì 5 agosto 2014

Birra Bellazzi Jana

E' passato circa un anno dai primi assaggi firmati Birra Bellazzi, la beerfirm bolognese che a quel tempo si era da poco affacciata sul mercato, fondata da diversi soci dei quali Federico Bianco e Alessandro Sanna sono i due che maggiormente si espongono socialmente e mediaticamente.  In questi dodici mesi i ragazzi di Bellazzi (scusate la rima) non sono certo stati con le mani in mano. Tre nuove birre: la My Bo (una "california" Maibock, ossia una Maibock molto luppolata, credo), una saison estiva chiamata Jana ed una versione speciale della Jake, per festeggiare il primo compleanno, dal delirante nome "Pimped Poppi Puppamela". E mi sono anche arrivate voci (in attesa di smentita) che dovrebbero essere già in cantiere i lavori per la costruzione dei propri impianti di produzione. 
Torniamo alla sostanza; come dicevo, Jana è il nome dato all'ultima nata in casa Bellazzi che è stata presentata un mesetto fa (il 3 Luglio, per la precisione) al Green River pub della "universitaria" via Petroni di Bologna. Prodotta anch'essa presso gli impianti di Retorto (Piacenza), Jana vede l'utilizzo di scorza di pompìa, un'agrume del quale ammetto di ignorare l'esistenza e che credo sia stato portato "in dote" dalle origini sarde del birraio Alessandro Sanna. La pompìa, detta anche citrus mostruosa, è un agrume molto grande (può arrivare a pesare 700 grammi), simile al cedro, dalla buccia molto spessa e ruvida, deforme. Cresce solo in Sardegna, nel territorio di Siniscola, e viene raccolta da novembre a gennaio; da quanto ho capito l'unica parte di questo agrume che viene utilizzata  (soprattutto in pasticceria) è la parte bianca sottostante alla scorza. Dopo aver grattato via la scorza e levata la polpa "interna", particolarmente amara, rimane una specie di involucro bianco che viene lessato, immerso nel miele millefiori e lasciato raffreddare. Con i filetti di pompìa candita si prepara inoltre la "s'aranazata", una torta fatta di mandorle, miele e confetti colorati.
Ma torniamo alla birra; Jana, oltre alle scorza di pompìa, malto d'orzo e luppolo, vede l'utilizzo di zucchero, frumento e malto di segale. Nel bicchiere è di color arancio, opalescente;  la schiuma è bianca e quasi pannosa, "croccante", a trama abbastanza fine e dalla discreta persistenza. Aroma molto fresco e pulito, di fiori bianchi, pera e banana, qualche sfumatura acidula e, quando la birra si scalda, più dolce di polpa d'arancia e di albicocca. Netta la presenza di agrumi ed io chiamo in causa il cedro, non avendo mai avuto l'occasione di annusare una pompìa. Al palato risulta vivacemente carbonata, dal corpo leggero e dalla consistenza acquosa; l'imbocco è leggermente malnato con crackers e cereali seguiti da lievi note di banana e di arancia. E' una saison lievemente acidula e molto attenuata, che chiude con una lieve astringenza ed un finale un po' timido, leggermente amaro, di scorza d'arancio e di cedro. Molto ben profumata, e pulita, scivola forse via un po' troppo in fretta nel finale; peccato solo per quella lieve astringenza che, invece che dissetare, tende a ri-assetare ed a far prendere nuovamente il bicchiere in mano. Per quella che è una prima cotta, la partenza è buona anche se quel carattere rustico che vorrei trovare in ogni Saison non è qui particolarmente in evidenza; ma con i dovuti accorgimenti, Jana potrebbe diventare la Bellazzi estiva per eccellenza.
Formato: 50 cl., alc. 5.5%, IBU 37, lotto 14028, scad. 06/2015, pagata 5.00 Euro (beershop, Italia).

lunedì 4 agosto 2014

Dugges Idjit!

Dugges Ale & Porterbryggeri nasce nel 2005 a Mölndal, un   piccolo sobborgo situato otto chilometri a sud di Göteborg. Il fondatore è Mikael Dugge Engström, ispirato - strano a dirsi - dalla craft beer revolution americana. Le birre sono inizialmente disponibili solo in fusto, è solo a partire dal 2007 che arrivano le prime bottiglie. Nel 2010 è già tempo di  pensare ad espandersi per far fronte all'aumento della domanda dei clienti, che veniva momentaneamente soddisfatta brassando alcune birre da Slottskällans Bryggeri, Sigtuna Brygghus e De Proef in Belgio. 
Vengono individuati nuovi locali più grandi a Landvetter, venti chilometri più ad est, in un bell'edificio che brilla del tipico "rosso" scandinavo. La scelta è quella di acquistare un impianto cinese, che - ammette Mikael - abbatte i costi di un terzo rispetto ad un equivalente realizzato in Germania; per evitare sorprese, Mikael si reca in Cina a visitare la fabbrica prima di confermare l'ordine e poco prima della spedizione, che in verità tarda un po' ad essere effettuata, nel 2012.  L'impianto arriva a Landvetter in una sorta di "kit pre-assemblato" assieme a due tecnici cinesi che devono montarlo; ma c'è un piccolo problema da risolvere: i due non sanno una parola d'inglese. Ci si arrangia per un po' telefonando in Cina alla sede del produttore e con l'aiuto di una ragazza cinese che viene assunta come interprete. I lavori vanno però per le lunghe e dopo sei settimane i tecnici cinesi hanno il visto scaduto e devono ripartire. Alla Dugges rimangono con le istruzioni di montaggio scritte (in cinese!), un impianto ancora da avviare con display e monitor di controllo che dispensano segnali in cinese.  I primi cinque tentativi di produrre una birra per il periodo di Pasqua non vanno a buon fine a causa di alcuni problemi al tino d'ammostamento; nell'attesa che arrivino i ricambi giusti dalla Cina, ci si arrangia per cinque mesi con l'aiuto di una ditta Svedese che si occupa anche di fare alcune modifiche necessarie per adattare l'impianto cinese agli standard svedesi.
Terminata l'odissea (anche se Mikael si dice soddisfatto e pronto a fare nuovi acquisti in Cina) alla Dugges è finalmente pronto il nuovo impianto che consente una capacità annuale di 800.000 litri.
Abbastanza vasto il portfolio del birrificio svedese, ma spesso quando si pensa alla Scandinavia si pensa a densissime Imperial Stout/Porter dall'alta gradazione alcolica. Per non smentire i luoghi comuni, approfitto di questa estate clemente per stappare una bottiglia di "catrame" svedese in pieno agosto. 
Idjit!, ovvero "idiota" in una sorta di "urban slang" anglosassone e, probabilmente, un riferimento all'idiota più celebre, quello di Dostoevskij. Imperial Russian Stout della quale ne esistono diverse versioni: una "1/2 Idiota", con l'ABV abbassato al 7%, una natalizia ed una "perfetta idiota" barricata.
Aspetto assolutamente splendido: completamente nera, impenetrabile, e densa testa di schiuma beige, cremosa, compatta, molto persistente. L'aroma è molto forte, carico di caffè macinato, mallo di noce, cioccolato, orzo tostato e liquirizia. Elegante, pulito, lievemente "boozy", ovvero alcolico. Nessuna sorpresa (negativa) in bocca, ma solo conferme: la sensazione palatale è quella che ci si aspetta da una imperial stout scandinava. Densa (ma non troppo), corpo pieno, poche bollicine, morbidissima e vellutata. E poi ancora caffè e tostature, tortino al cioccolato, caramello, liquirizia; l'alcool si fa sentire senza esagerazioni, interagendo molto bene con il caffè, irrobustendo la bevuta. C'è un bell'equilibrio generale, tra dolce, tostature amare ed acidità del caffè. Il risultato è estremamente soddisfacente ed intenso, si lascia sorseggiare senza grande difficoltà, con una chiusura morbida e lunga di caffè amaro ed alcool. L'inverno è ancora lontano, ma con birre come questa nel bicchiere sai già che sarà meno freddo.
Formato: 33 cl., alc. 9.5%, lotto T-113, scad. 05/03/2015, pagata 8.90 Euro ! (Systembolaget, Norvegia).

domenica 3 agosto 2014

Fuller's Frontier

L'Inghilterra, e Londra in particolare, sono in pieno fermento brassicolo; da qualche anno (dico 2010) si assiste ad una vera e propria rivoluzione di quella che viene chiamata "craft beer": nuovi birrifici, nuovi pub e nuovi locali dove bere aprono ad un ritmo elevato. Non ho dati alla mano per quantificare la quota di mercato che lentamente il segmento "craft" sta rosicchiando alle multinazionali ed ai grandi produttori, ma è innegabile che chi un tempo dominava il mercato dei pub e degli scaffali dei supermercati oggi dorme sonni (un po') meno tranquilli. Il "craft" tira, i grandi produttori hanno fiutato la possibilità di inserirsi in una fetta di mercato dove (almeno per loro) ci sarebbero margini ancora più elevati "spacciando" per "artigianale" quello che artigianale non è.
Non è questo il caso di Fuller's, che negli anni'90 era rimasto l'unico e l'ultimo birrificio ancora operante a Londra; alla Fuller's hanno insomma visto la caduta e la rinascita della Londra birraria dall'alto della loro impermeabilità alle mode. Invece che "inseguire" la tendenza dei luppoli americani o esotici, alla Fuller's hanno iniziato a rovistare nel proprio passato realizzando alcune delle loro birre meglio riuscite nella linea "Past Masters".
Solo di recente hanno fatto un passo verso la moda, commercializzando una "new wave craft lager" chiamata Frontier; i primi lotti "pilota", disponibili solo in fusto, escono a giugno 2013; la ricetta elaborata dall'head brewer Rob Topham disegna l'incontro tra malti "del vecchio continente" e luppoli "del nuovo mondo", ovvero l'America: quelli utilizzati dovrebbero essere Cascade, Liberty e Willamette. La risposta del pubblico è positiva, si parla di 300.000 pinte bevute ed ecco che a dicembre 2013 Frontier entra permanentemente nel portfolio di Fuller's e viene distribuita anche in bottiglia.
Filtrata ma non pastorizzata, arriva nel bicchiere dorata, solo lievemente velata, con un discreto cappello di schiuma biancastra, fine, cremosa e dalla buona persistenza. L'aroma è pulito ma non certo un tripudio di freschezza e di fragranza; sentori di miele e floreali (camomilla) si affiancano a quelli di cereali e di agrumi come arancia e mandarino. Al palato rivela un corpo tra il medio ed il leggero ma un livello di bollicine davvero troppo basso che, abbinata alla consistenza acquosa, la rende molto poco vivace. Il gusto segue il percorso tracciato dall'aroma, con note di pane e di crackers, miele ed agrumi, per una bevuta non particolarmente intensa dove il finale amaro erbaceo va a bilanciare la dolcezza dei malti.  Neppure il gusto è però fragrante, gli agrumi virano verso la marmellata, c'è qualche traccia burrosa. L'idea di fondo non sarebbe male, anche se il gusto non è particolarmente intenso, ma ciò che penalizza e che rende meno rinfrescante e scorrevole del dovuto questa "new wave lager" è la mancanza di fragranza e di freschezza. Per il resto è una birra "innocua" che ben si adatta a palati ancora abituati ai prodotti industriali; bisognerebbe averne a disposizione un esemplare fresco per dare un giudizio più corretto, ma l'impressione è che questa Frontier non risulterà particolarmente eccitante per chi invece naviga già da tempo nel mare della "craft beer".
Formato: 33 cl., alc. 4.5%, scad. 13/11/2014, pagata 2.09 Euro (supermercato, Italia).