Del birrificio Avery di Denver, Colorado, vi avevo già parlato in un paio di occasioni: la sua storia è simile a quella di tanti altri protagonisti della craft beer revolution americana. Un ex-homebrewer apre un piccolo birrificio proponendo ai clienti birre troppo diverse da quelle che sono abituati a bere, spesso “troppo amare”. Pian piano queste birre insolite conquistano sempre più palati ed il piccolo birrificio non riesce a soddisfare la domanda dei clienti: inizia allora ad espandersi in maniera caotica, spesso prendendo in affitto piccoli locali adiacenti a quello dove già opera fino a decidersi a fare un investimento milionario, costruirsi una nuova casa su misura e distribuire le proprie birre in buona parte degli Stati Uniti.
E’ esattamente quello che ha fatto Adam Avery, ex-homebrewer che nel 1993 ha aperto il suo birrificio a Denver, in una zona commerciale tra meccanici d’auto e altri piccoli negozi e nel 2015 ha completato un ambizioso piano di espansione da ventisette milioni di dollari e un potenziale di 120.000 ettolitri all’anno. Le vendite non sono però mai decollate e Avery ha avuto le stesse difficoltà che hanno incontrato molti protagonisti storici della craft beer revolution americana. Un mercato che cresce più lentamente e, al suo interno, la concorrenza di tanti nuovi piccoli birrifici locali che rubano vendite ai grandi, grazie anche ad una maggior flessibilità che permette di soddisfare la costante richiesta di qualcosa di nuovo da bere dei clienti. Avery ha dovuto cercare dei partner disponibili ad immettere la liquidità necessaria per andare avanti e ridurre l’esposizione debitoria con le banche. Non si sono fatti sfuggire l’occasione quelli spagnoli della Mahou San Miguel che nel 2014 avevano già rilevato il 30% del birrificio Founders: lo stesso è accaduto con Avery a marzo del 2018. Alla fine del 2019 Adam Avery ha ceduto alla Mahou un ulteriore 40% ed oggi possiede quindi solamente il 30% del birrificio che aveva fondato.
Per chi (come me) segue da almeno un decennio la birra artigianale il nome Avery (come Founders, del resto) era uno di quelli sulla lista dei desideri. Le birre di Avery sono sempre arrivate in Europa con il contagocce e qualche anno fa si riusciva a trovare qualche bottiglia delle loro massicce edizioni invecchiate in botte. Dal mio punto di vista è quindi abbastanza sconvolgente trovare oggi le lattine di Avery non solo nei beershop italiani ma anche sugli scaffali dei supermercati: merito (o colpa) dell’acquisizione di Mahou. Consoliamoci con la possibilità di assaggiare oggi, con una decina d’anni di ritardo (e quattro mesi di viaggio) un pezzo di storia della craft beer revolution a stelle e strisce, anche se Avery non è più un birrificio artigianale. Avvertenza: le lattine di Avery che sono arrivate di recente in Italia nate alla metà dello scorso febbraio: a voi decidere se è il caso di procedere o no all’acquisto.
La birre.
Nel 1993, anno del debutto, erano tre le birre prodotte da Avery: la Redpoint Amber Ale, la Ellie’s Brown Ale e la Out of Bounds Stout. Tre anni dopo Adam provava a testare il palato dei propri clienti introducendo una birra molto diversa, ovvero piuttosto amara, che lui amava bere tra le mura domestiche: in quell’anno il birrificio acquistò anche la sua prima imbottigliatrice automatica e quella di Avery fu la prima IPA del Colorado ad essere confezionata e distribuita. Le reazioni dei clienti furono inizialmente tutt’altro che positive ma Adam non smise di produrla e dopo qualche anno la IPA diventò la birra più venduta di Avery, spodestando dal trono la Ellie’s Brown Ale.
La sua formula si basava sulla ”regola dei 4C”, ovvero luppoli Columbus, Centennial, Cascade e Chinook. I malti sono Monaco, C-120 e 2-Row; la ricetta è stata poi aggiornata introducendo un dry-hopping di Idaho 7 e Simcoe. Peccato sia cambiata anche l’etichetta, un tempo raffigurante una vecchia cartina geografica che indicava la rotta dall’Inghilterra verso le indie: oggi sulla lattina domina solamente un grosso cono di luppolo.

Ci sono voluti quasi dieci anni ad Avery per cimentarsi con una Double IPA: è infatti arrivata solamente nel 2004, in concomitanza con i festeggiamenti dell’undicesimo compleanno bagnati dalla Eleven Anniversary Ale, una Double IPA basata sul barley wine Hog Heaven che il birrificio del Colorado produceva dal 1997. Ricorda Adam: “dopo averlo prodotto per così tanti anni ci chiedevamo come potevamo alzare l’asticella. Il Barley Wine era delizioso e volevamo vedere se riuscivamo a farne una versione più potente ed estremamente luppolata: nacque Eleven (9%), la birra dell’anniversario e ci piacque così tanto che sentimmo il bisogno di dover produrre una Imperial IPA almeno una volta all’anno”.
Maharaja (10%) è il nome scelto per una birra disponibile all’inizio solamente in estate, da marzo ad agosto, e parte della Dictator series di Avery: il Maharaja andava a far compagnia allo Zar (Csar Imperial Stout) e alla Kaiser Imperial Lager. Oggi la Maharaja è invece disponibile tutto l’anno, anche lei in una nuova veste grafica che personalmente mi fa un po’ rimpiangere quella di un tempo. Columbus, Simcoe, Centennial e Chinook sono i protagonist di una ricetta poi aggiornata con il dry-hopping di Idaho 7, Vic Secret e Simcoe. I malti sono Two-row barley, Caramel 120L e Victory. Sembra passato un secolo, ma non molti anni fa la Maharaja di Avery era tra le classiche Imperial IPA americane che ogni appassionato avrebbe dovuto e voluto assaggiare.

Avery IPA, formato 35,5 cl., alc. 6,5%, lotto 14/02/2020, prezzo indicativo 4,00 euro (beershop)
The Maharaja, formato 35,5 cl., alc 10%, IBU 102, lotto 17/02/2020, prezzo indicativo 5,00 euro (beershop)
NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questo esemplare e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio
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