Si può dire di tutto tranne che Belching Beaver (il castoro che rutta) non sia un nome originale. Siamo nel 2012 e la contea di San Diego, California, è il paradiso della Craft Beer Revolution americana: Stone, Alesmith, Green Flash, Alpine, Port Brewing, Ballast Point, tutti desiderano le IPA della West Coast. Come tanti altri, anche Thomas Vogel, Dave Mobley e Troy Smith si buttano nella mischia e aprono un birrificio: per essere originali, in una scena dominata dal luppolo, debuttano con una Milk Stout. ”Siamo stati i primi a farne una a San Diego – ricorda Vogel – è andò subito molto bene. Molti altri birrifici ci hanno poi seguito”.
Thomas Vogel si divertiva a produrre birra e vino in casa sin dai tempi del college; lavorare con la birra era uno dei suoi obiettivi e venne assunto dalla Sublime Ale House, un ristorante di San Marcos con una bella carta di vini e birre artigianali. Tra i suoi clienti c’era anche il birrificio Coronado di San Diego, dove lavorava come birraio Troy Smith. Per lui nessuna esperienza di homebrewing, ma essere figliastro di Rick Chapman, fondatore e presidente di Coronado, aiuta: si fa le ossa direttamente sul campo. Vogel e Smith diventano amici, giocano spesso assieme a poker e frequentano regolarmente le taproom di Port Brewing e Lost Abbey a San Marcos: ridendo e scherzando, abbozzano l’idea di aprire un birrificio a Vista, contea di San Diego. A loro si unisce Dave Mobley, un architetto. I tre danno fondo ai loro risparmi e lanciano Belching Beaver con un impianto da 20 ettolitri. Il nome? In verità la storia alle sue spalle non è poi così interessante: “conoscevamo un tipo, che si occupava di marketing e che doveva diventare nostro socio; aveva già quel nome quel logo pronti. In mancanza d'altro, li abbiamo adottati. Non volevamo offendere nessuno, soltanto essere un po’ diversi. Ripensandoci potevamo fare forse altre scelte, ma ormai è troppo tardi per tornare indietro”.
Dopo un paio d’anni è già tempo di espandersi con una seconda succursale location ad Ocean Beach, San Diego, seguita nel 2016 del brewpub con ristorante Tavern & Grill di Vista Village e dal nuovo sito produttivo ad Oceanside: un milione di dollari d’investimenti. La location originale di Vista viene trasformata nel Pub 980 e viene aperta anche una piccola taproom nella zona di North Park a San Diego. La produzione annuale passa dai 12.000 ettolitri del 2014 ai quasi 50.000 del 2016 ed è tutt’ora s stabile. A guidare le vendite ci sono la Phantom Bride IPA e quella Peanut Butter Milk Stout che andiamo ad assaggiare.
Thomas Vogel si divertiva a produrre birra e vino in casa sin dai tempi del college; lavorare con la birra era uno dei suoi obiettivi e venne assunto dalla Sublime Ale House, un ristorante di San Marcos con una bella carta di vini e birre artigianali. Tra i suoi clienti c’era anche il birrificio Coronado di San Diego, dove lavorava come birraio Troy Smith. Per lui nessuna esperienza di homebrewing, ma essere figliastro di Rick Chapman, fondatore e presidente di Coronado, aiuta: si fa le ossa direttamente sul campo. Vogel e Smith diventano amici, giocano spesso assieme a poker e frequentano regolarmente le taproom di Port Brewing e Lost Abbey a San Marcos: ridendo e scherzando, abbozzano l’idea di aprire un birrificio a Vista, contea di San Diego. A loro si unisce Dave Mobley, un architetto. I tre danno fondo ai loro risparmi e lanciano Belching Beaver con un impianto da 20 ettolitri. Il nome? In verità la storia alle sue spalle non è poi così interessante: “conoscevamo un tipo, che si occupava di marketing e che doveva diventare nostro socio; aveva già quel nome quel logo pronti. In mancanza d'altro, li abbiamo adottati. Non volevamo offendere nessuno, soltanto essere un po’ diversi. Ripensandoci potevamo fare forse altre scelte, ma ormai è troppo tardi per tornare indietro”.
Dopo un paio d’anni è già tempo di espandersi con una seconda succursale location ad Ocean Beach, San Diego, seguita nel 2016 del brewpub con ristorante Tavern & Grill di Vista Village e dal nuovo sito produttivo ad Oceanside: un milione di dollari d’investimenti. La location originale di Vista viene trasformata nel Pub 980 e viene aperta anche una piccola taproom nella zona di North Park a San Diego. La produzione annuale passa dai 12.000 ettolitri del 2014 ai quasi 50.000 del 2016 ed è tutt’ora s stabile. A guidare le vendite ci sono la Phantom Bride IPA e quella Peanut Butter Milk Stout che andiamo ad assaggiare.
La birra.
Chi segue regolarmente il blog saprà che non sono un amante della deriva “pastry” che sta caratterizzando la scena della birra artigianale negli ultimi anni, soprattutto quella americana. Ma la Peanut Butter Milk Stout di Belching Beaver ha debuttato in tempi non sospetti, quando il burro d’arachidi in una stout non era ancora la moda ma un’idea stravagante. Ricorda Smith: “quando aprimmo non c’era nessuno nell’area di San Diego a fare una Milk Stout; oggi offriamo una selezione di birre scure che pochi birrifici in questa zona possono vantare. Aggiungemmo del burro d’arachidi ad un fusto della nostra Milk Stout e boom!, fu un successo”.
La ricetta base della Milk Stout prevede malti Two-Row, Roasted Barley, Pale Chocolate, Caramel 60, avena, lattosio, luppoli Northern Brewer e Fuggles: per rendere la birra accessibile anche a chi ha allergie, sembra che venga usato un burro d’arachidi non proprio naturale. Si presenta di colore ebano scuro, la schiuma è piuttosto grossolana, scomposta e collassa rapidamente. Le tazze di burro d’arachidi della Reese/Hershey si possono comprare oramai abbastanza facilmente anche in Italia: chi le conosce le ritroverà nell’aroma di una birra che offre quanto promesso, ovvero soprattutto arachidi tostate. In sottofondo emergono deboli richiami di cioccolato al latte e di caramello. Non c’è altro. Caramello, cola e caffelatte (con molto poco caffè, in verità) formano una bevuta dolce che parte con buona intensità per poi assottigliarsi un po’ troppo e sfociare in un finale che stempera il dolce, porta equilibrio ma presenta qualche spunto acquoso di troppo. Per fortuna la birra torna a galla con un retrogusto di discreto livello dove riemergono le arachidi tostate, il cioccolato e qualche accenno di caffè.
La Peanut Butter Milk Stout di Belching Beaver non è una pastry spinta all’estremo: il burro d’arachidi è protagonista ma la base milk stout è ancora riconoscibile. Il mouth è scorrevole ma se volete un po’ di cremosità dovete probabilmente optare per la sua versione nitro. Non è una birra che berrei regolarmente, ma un piacevole divertissement ogni tanto non fa male.
Formato 35.5 cl., alc. 5.3%, IBU 30, lotto 05/07/2020, prezzo indicativo 4,50 euro (beershop)
La ricetta base della Milk Stout prevede malti Two-Row, Roasted Barley, Pale Chocolate, Caramel 60, avena, lattosio, luppoli Northern Brewer e Fuggles: per rendere la birra accessibile anche a chi ha allergie, sembra che venga usato un burro d’arachidi non proprio naturale. Si presenta di colore ebano scuro, la schiuma è piuttosto grossolana, scomposta e collassa rapidamente. Le tazze di burro d’arachidi della Reese/Hershey si possono comprare oramai abbastanza facilmente anche in Italia: chi le conosce le ritroverà nell’aroma di una birra che offre quanto promesso, ovvero soprattutto arachidi tostate. In sottofondo emergono deboli richiami di cioccolato al latte e di caramello. Non c’è altro. Caramello, cola e caffelatte (con molto poco caffè, in verità) formano una bevuta dolce che parte con buona intensità per poi assottigliarsi un po’ troppo e sfociare in un finale che stempera il dolce, porta equilibrio ma presenta qualche spunto acquoso di troppo. Per fortuna la birra torna a galla con un retrogusto di discreto livello dove riemergono le arachidi tostate, il cioccolato e qualche accenno di caffè.
La Peanut Butter Milk Stout di Belching Beaver non è una pastry spinta all’estremo: il burro d’arachidi è protagonista ma la base milk stout è ancora riconoscibile. Il mouth è scorrevole ma se volete un po’ di cremosità dovete probabilmente optare per la sua versione nitro. Non è una birra che berrei regolarmente, ma un piacevole divertissement ogni tanto non fa male.
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