La scena brassicola italiana è sempre più affollata e per chi beve è sempre più difficile orientarsi? Sembra una banalità ma qualcosa di vero c'è. I contatore di Microbirrifici.org si avvicina al numero 1000 (produttori e beerfirm, anche non più in attività), le grandi multinazionali iniziano anche in Italia a proporre le cosiddette “birre crafty” che ammiccano al mondo “artigianale”, aggettivo che peraltro non è assolutamente garanzia di qualità di quello che poi arriva nel bicchiere. Ci sono poi le birre che vengono commissionate da distributori di bevande: non è una novità, da anni sugli scaffali dei supermercati ci sono delle birre provenienti dal Belgio (un tempo anche nelle lussuose? bottiglie di ceramica) prodotte apposta per chi importa e sulle quali non si riuscivano a reperire informazioni chiare.
Prendiamo oggi il caso di Birra/Birrificio Cervisia. Esiste (o esisteva) effettivamente un microbirrificio italiano con questo nome e con sede a Caserta. Ma Fabbrica Birra Cervisia era anche uno storico birrificio genovese, fondato presumibilmente nel 1907 e passato poi attraverso diversi cambi di proprietà sino a convergere nel gruppo Dreher di Trieste, che negli anni 70 venne acquisito da Heineken: nel solito processo di razionalizzazione di marchi, nel 1985 il marchio Birra Cervisia cessò di esistere. In una porzione dei locali che un tempo ospitavano la produzione c’è oggi il microbirrificio Maltus Faber.
A fine 2014 l’importatore/distributore Dibevit decide di riesumarlo, rivisitandone in chiave moderna il logo del cavalluccio marino e ammodernando anche la linea di birra. In mancanza di impianti produttivi, ci si rivolge ad Apecchio, nelle Marche, dove si trova il Birrificio Amarcord. Tre sono le nuove birre che vengono lanciate, citando dal comunicato stampa, “per soddisfare un consumatore amante di prodotti di qualità ricercati e caratterizzanti. Cervisia oggi conserva l’impronta dei suoi inizi e la combina con una delle più moderne tecniche di brassaggio, il dry hopping, proponendo tre differenti referenze. Ognuna ha un nome che prende ispirazione dalla vita marinara genovese e si caratterizza per un gusto inconfondibile: Mozzo è una amber ale con aromi di frutta e erba, Ciurma è una lager dagli aromi freschi e intensi di malto, Camallo è una indian pale ale dalle dolci note iniziali di miele contrapposte a un finale fresco e asciutto. Cervisia si presenta oggi al grande pubblico con tre referenze, tre stili, tre caratteri differenti, per soddisfare anche i palati più esigenti e ricercati di chi ama birre dalla forte personalità”.
Ma il comunicato stampa fornisce anche qualche informazione utile sulla ricetta: la Pale Ale Camallo (6.4%), ad esempio, utilizza invece malti Pilsner, Vienna e Caramel Dark, luppoli in bollitura Magnum, Chinook, Centennial ed Ahtanum, con dry-hopping di Galaxy e Cascade. Sensazione di deja-vu? Sì, la ricetta “base” è la stessa usata qui e qui dallo stesso birrificio con, suppongo, qualche leggero aggiustamento. L’Amber Ale Mozzo è invece prodotta con malti Pilsner, Caramel Dark, Aromatic e Chocolate, luppoli Magnum, Willamette, Centennial in bollitura, Galaxy e Cascade i dry-hopping, proprio come questa Amber Ale.
Specifico subito che l'utilizzo degli stessi ingredienti non indica necessariamente che si tratti della stessa birra rietichettata: con gli stessi malti e luppoli si possono produrre birre molto diverse tra di loro.
Passiamo quindi alla sostanza: limpidamente ambrata con riflessi ramati, Cervisia Mozzo forma una bella testa di schiuma ocra, compatta, fine e cremosa, dalla buona persistenza. L'aroma è praticamente assente (alla faccia del "dry hop" annunciato in etichetta) ed è una bottiglia che ha circa 7 mesi di vita sulle spalle: a fatica avverto caramello, toffee, qualche ricordo di biscotto ma anche una leggera nota metallica. Purtroppo in bocca non c'è un gran miglioramento: intensità molto scarsa, caramello e biscotto ai limiti della soglia di percezione, di nuovo una leggera presenza metallica ed un finale timidissimo nel quale s'intravede appena una puntina d'amaro terroso. Si può in un certo senso parlare di "equilibrio" perché in presenza di un'intensità così dimessa sarebbe davvero difficile provocare squilibri. Devo lamentarmi anche sulla sensazione palatale, con una spiccata acquosità che viene drammaticamente accentuata dalle pochissime bollicine: la bevuta è poco vivace, slegata, stanca. Faccio davvero fatica a finire i trentatré centilitri, e provo ad invocare l'uscita di sicurezza della "bottiglia sfortunata".
Formato: 33 cl., alc. 5.4%, scad. 27/11/2015.
NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.
la linea di Amarcord AMA (quella supervisionata dal birraio di Brooklyn Brewery, se non erro) mi era piaciuta, decisamente un passo in avanti.
RispondiEliminaLe altre non le bevo da molti anni, se mi ricapita La mi Dona la riprovo.