Sono passati diversi anni dalle ultime bevute di Arbor Ales: devo tornare al 2011 quando a quel tempo il birrificio non era ancora importato in Italia e le etichette avevano una veste grafica completamente diversa e molto meno sobria. Oggi l’Italia è uno dei pochi paesi in cui Arbor esporta con regolarità.
Il birrificio è stato fondato a marzo 2007 da Jon Comer e dalla moglie Megan Oliver nel retro del pub The Old Tavern di Blackberry Hill. In quel periodo Jon lavorava come consulente nel campo dell’informatica e – per sua stessa ammissione – aveva molto tempo libero a casa da dedicare all’homebrewing; nel 2008 il pub (di proprietà del fratello) chiude e Arbor è costretta a trasferirsi nel Kingswood di Bristol, sfruttando l’occasione per acquistare un impianto di maggiori dimensioni. Con l’arrivo del nuovo partner Namaya Reynolds nel 2009 viene inaugurato il primo pub di proprietà, l'Old Stillage a Redfield, cui fa seguito l’anno successivo il Threee Tuns a Hotwells. Nel 2012 una nuova espansione e un nuovo trasferimento nel Lawrence Hill Industrial Park di Bristol: all’inizio del 2016 è già tempo di spostarsi nella più ampia sede attuale (600 metri quadri) di Easton Road, sempre a Bristol. Grazie al finanziamento ottenuto dalla Lloyds Bank, Arbor dispone ora di un impianto da 20 BBL, una decina di fermentatori ed una nuova linea d’imbottigliamento: ad affiancare Jon ci sono altri otto dipendenti. Sono oltre trecento le birre attualmente annoverate sul database di Ratebeer e per la grande maggioranza si tratta di leggere variazioni sul tema IPA: single hop o differenti mix di luppoli.
E’ “Session Pale Ale” la descrizione scelta da Arbor per comunicare il contenuto della bottiglia a chi la vede sugli scaffali dei beershop; evidentemente si ritiene che la parola “session” abbia maggior rilevanza commerciale rispetto ad esempio a “Golden Ale”, categoria che potrebbe essere ugualmente appropriata per descrivere una “birra dorata con corpo esile, basso contenuto alcolico e luppolatura importante”. Quest’ultima è tutta di stampo americano: Simcoe, Citra e Mosaic i prescelti.
Il suo colore oscilla tra il dorato e l’arancio pallido, mentre la schiuma un po’ grossolana e scomposta non è proprio impeccabile. L’aroma è ancora abbastanza fresco e mostra una buona pulizia che compensa un bouquet piuttosto semplice: arancia e pompelmo, qualche dolce suggestione tropicale. La ricetta precede una piccola percentuale d’avena allo scopo di ottenere un mouthfeel più cremoso e direi che il risultato sia stato raggiunto: nonostante il corpo esile e il basso tenore alcolico (3.9%) la birra scorre con grande velocità senza nessuna deriva acquosa. Fortunatamente l’utilizzo dei luppoli americani denota raziocinio e non sfocia nella cafoneria, replicando quanto già espresso dall’aroma con ugual pulizia ed eleganza: agrumi e un tocco tropicale, sorretti da deboli trame maltate (crackers) e un bel finale amaro (erbaceo, zesty) dell’intensità giusta per non stancare mai il palato e mantenere alto il ritmo di bevuta. Nonostante l’utilizzo di luppoli americani il risultato mantiene un certo “DNA” inglese e Pocket Rocket è una session beer bilanciata e ben assemblata che fa il suo dovere: dissetare e rinfrescare con gusto senza richiedere grossa attenzione se non quella di ordinarne una pinta dopo l’altra.
Formato: 56,8 cl., alc. 3.9%, scad. 03/02/2018, prezzo indicativo 5.50-6.00 Euro (beershop)NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.
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