giovedì 23 luglio 2015

Corona Extra

L’appuntamento del mese di luglio con la birra industriale, del discount o del supermercato che dir si voglia è con la famosissima Corona Extra.  Che ci crediate o no, è la prima volta che la bevo  (e, giusto per darvi qualche riferimento temporale, ho già passato gli “anta”); anche nel mio lungo passato di bevitore di birre industriali ero sempre rimasto perplesso dall’inquietante trasparenza della bottiglia e non l’avevo mai acquistata.  
Mi si è appena spalancato un piccolo grande mondo: in rete è pieno di informazioni contraddittorie sul  perché “si debba bere a collo e non nel bicchiere” e sul perché vada bevuta con uno spicchio di limone, o anche con un po’ di sale. 
Ma andiamo per ordine, perché ci sono cose più interessanti di sale e limone. La Cervecería Modelo viene fondata l’8 marzo 1922 da Braulio Iriarte Goyeneche, un spagnolo in Messico dal 1877, da quando aveva diciassette anni; la produzione parte nell’ottobre del 1925, con l’appoggio di capitali forniti da una schiera di altri facoltosi imprenditori spagnoli emigrati. La fabbrica viene costruita – e l’edificio lì si trova tutt’ora – su un terreno nel quartiere di Santa Julia di quella che allora era la Municipalidad de Tacuba, oggi inglobata in quella enorme metropoli che è Città del Messico. C’è da dire che in quel periodo la birra non era una bevanda particolarmente popolare in Messico: il ghiaccio e la refrigerazione non erano sempre disponibili e la gente preferiva bere l’economico Pulque, un fermentato dell’albero di Maguey. Nonostante questo, già nel 1928 le bottiglie di birra vendute erano arrivate ad otto milioni, suddivise tra la chiara Corona e la scura Modelo Negra. 
Nel 1932 muore Braulio Iriarte e il comando viene assunto da  Pablo Díez Fernández, anche lui nato in Spagna, uno dei pochi finanziatori che non avevano ancora abbandonato il progetto: Díez rimase in carica sino al 1971, mettendo subito in atto una politica di espansione. Con la fine del proibizionismo negli Stati Uniti nel 1933 iniziarono le prime sporadiche esportazioni a nord, che non ebbero però volumi significativi sino alla fine degli anni ’70. 
A questo proposito, è interessante quello che racconta il libro “The Emerging Markets Century” (2007) dell’economista Antoine Van Agtmael. Negli anni ’70 un grosso distributore della Baja California messicana non capiva perché le casse di Corona gli venissero restituite con così tanti “vuoti a rendere” mancanti. Le vendite aumentavano ma i resi erano sempre meno: scoprì che le bottiglie di Corona erano diventate molto popolari tra i surfisti americani che frequentavano le spiagge messicane, e sempre più spesso questi si portavano a casa il souvenir.  La bottiglia trasparente di Corona, senza nessuna campagna pubblicitaria, era inconsapevolmente diventata in California il simbolo della esotica vacanza al mare in Messico, al sole, sulla spiaggia: un caso che ricorda, con le dovute proporzioni, quello della bottiglia di Coca Cola. 
Alla Modelo colgono la palla al balzo e investono sull'esportazione: in poco tempo la Corona diventa molto richiesta  dapprima nella vicina California e poi in molti altri stati americani: nel 1986 un milione di casse attraversavano ogni mese il confine con gli Stati Uniti. Gli altri “competitors” americani non rimasero con le mani in mano, e fu curioso fu quello che accadde nei primi anni ’80:  qualche concorrente (Heineken?) sparse subdolamente la voce che alcuni test di laboratorio fatti dalla Food and Drug Administration avevano riscontrato tracce di urina umana in quelle bottiglie trasparenti. Addirittura si raccontava che diversi operai della Cerveceria Modelo erano stati visti urinare sulle bottiglie poco prima che fossero imbottigliate. La voce che “la Corona sapeva di piscio” si diffuse rapidamente e si portò dietro gli inevitabili strascichi legali che si conclusero ovviamente a favore del gruppo messicano: l’esportazione di Corona subì però un clamoroso crollo ed i messicani cercarono di recuperare immagine invitando a proprie spese decine di giornalisti americani a visitare le proprie fabbriche affinché potessero testimoniarne l’efficienza e l’assoluta pulizia. L’ufficio marketing della Modelo, per recuperare terreno, ebbe poi la brillante intuizione di associare la propria birra ad una ricorrenza messicana da celebrare in territorio statunitense. Tra i vari avvenimenti storici candidati, venne scelto il Cinco de Mayo (5 di Maggio): l’evento cadeva anche all’inizio della bella stagione e invitava la comunità messicana negli Stati Uniti a celebrarlo all’aria aperta, magari davanti al BBQ, con una Corona in mano. La pubblicità ebbe un grande successo e i festeggiamenti del 5 de Mayo si legarono indissolubilmente alla bottiglia di Corona: era solo questa la birra che milioni di americani e immigrati messicani volevano bere in quel giorno. Nel 1997 Corona sorpassa Heineken in cima alla classifica statunitense delle vendite tra le birre importate. 
Il resto della Corona-story è quello già visto tante altre volte, e passa per l’acquisizione di altri birrifici messicani per eliminarli e sopprimere i marchi concorrenti; attualmente quasi sette birre su dieci bevute in Messico vengono prodotte dal Grupo Modelo. Puntualmente arrivò anche il giorno in cui il pesce grande venne mangiato da un pesce ancora più grande, nello specifico gli americani della Anheuser Busch che a partire dal 1993 acquistano una quota societaria sempre maggiore del Grupo Modelo sino ad arrivare al 50%.  Per “soli” 20 miliardi di dollari nel 2013 Anheuser Busch (divenuto AB-InBev) si porta a casa l’altra metà restante. 
I numeri attuali dicono che oggi la Corona  non è tra le dieci birre più vendute al mondo,  ma in territorio statunitense si piazza saldamente al quinto posto rimanendo la birra d’importazione più venduta e doppiando per volumi l’eterna rivale Heineken. Lei rivendica il suo orgoglio messicano e continua ad essere prodotta esclusivamente nel suo paese d’origine, venendo poi esportata in 180 paesi. In Italia il primo importatore di Corona fu nel 1989 Pietro Biscaldi siglando con il Gruppo Modelo un esclusiva che oltre alla nostra penisola comprendeva anche il Principato di Monaco e Malta; nel 2008 la distribuzione passò nelle le mani di Carlsberg e, nel 2014, ovviamente di quelle di AB-InBev.  
Resta da fare luce sul perché la Corona vada bevuta a collo con uno spicchio di lime (e non limone) conficcato nel lungo collo della bottiglia.  Tanti sono stati i giornalisti che hanno rivolto la domanda direttamente al Grupo Modelo, senza però ottenere nessuna risposta. Solitamente ci si rifà ad una non specificata “tradizione locale”: alcuni sostengono che i messicani infilavano l’agrume all’imboccatura del collo della bottiglia aperta per tenere lontano mosche ed insetti. Altri che il lime (inizialmente solo strofinato sul bordo del collo) aveva la funzione di non far avvertire il sapore della ruggine che i primi tappi metallici spesso rilasciavano; o, se preferite, l’agrume attenuava quel gusto “skunky” causato dall’utilizzo di una bottiglia trasparente che non protegge per nulla la birra dalla luce. Una spiegazione più fantasiosa cita un episodio del 1981, avvenuto in un locale della California, in cui un barista inventò questo modo di servire la Corona ai propri clienti nell’ambito di una scommessa con un proprio collega: volevano vedere se riuscivano a creare una “tendenza” e poi a diffonderla.  Il fatto venne inizialmente riportato nel libro Buy-ology (2008) di Martin Linsdrom e fu poi ripreso da numerose riviste e giornali, diventando così la versione più “accreditata”.  Ma come la moda abbia fatto a diffondersi così rapidamente da un piccolo bar della California a tutti gli Stati Uniti, è un altro enigma da svelare.  
In verità pare che quasi nessun messicano la beva in questo modo (qualcuno può confermare?), e che i bar la servano con lo spicchio lime solo ai turisti stranieri. I più maligni (e io no?) sostengono invece che la fetta di lime abbia semplicemente la funzione di dare un po’ di gusto ad una birra praticamente insapore. 
Dopo le tante, forse troppe parole, passiamo alla pratica. Questa la lista degli ingredienti riportati sull’etichetta destinata all’Italia:  acqua, malto d'orzo, riso/granturco, luppolo, antiossidante E300 e  addensante E405. Se le sigle vi spaventano, sappiate che l’E300 (acido L-ascorbico)  viene utilizzato per la sua funzione antiossidante e per evitare l’imbrunimento del bel colore dorato esaltato dal vetro trasparente;  l’E405 (alginato di glicole propilenico) viene invece utilizzato per aumentare la consistenza e la durata delle bollicine. Niente che vi possa far male, ci mancherebbe. La Corona Extra rientra in quella categoria delle "Adjunct Lager": birre leggere, poco amare, frizzanti e dal basso contenuto alcolico che utilizzano succedanei dei cereali come ad esempio granoturco e riso.
Evito il rituale della bevuta a canna e dello spicchio di lime, versando Corona Extra nel bicchiere, ovviamente appena prelevata dal frigorifero, freddissima come lei stessa richiede. E' dorata e perfettamente limpida, in modo da permettere di ammirare le vivaci colonie di bollicine che attraversano diligentemente tutto il bicchiere, dal basso verso l'alto: della schiuma posso testimoniare solamente il colore bianco, visto la velocità con la quale si dissolve senza lasciare traccia. 
L'aroma, se così si può chiamare, è di bassissima intensità: mais, riso, qualche remotissima suggestione di miele. Non serve dare la colpa alla bassa temperatura di servizio, anche a temperatura ambiente non cambia nulla. Al palato è il trionfo dell'acquosità, mediamente carbonata, condizione necessaria per una birra che deve scorrere veloce per permettere al bevitore di finirla il più rapidamente possibile per poi ordinarne un'altra. Il gusto? Ah sì, quasi non me ne ero accorto. Bevuta "ghiacciata" è praticamente acqua frizzante colorata di giallo, con una lieve presenza di mais. Lasciatela riscaldare un po' se volete un spruzzatina di miele ed un po' più di mais. La ricerca disperata di sapore mi porta ad avvertire anche una leggera parvenza di agrumi, ma forse è la mia suggestione che inconsciamente vorrebbe uno spicchio di lime all'interno del bicchiere. Il consiglio è comunque di berla molto fredda, in quanto l'alzarsi della temperatura ne aumenta un po' la dolcezza e ne riduce la discreta secchezza, facendo venire meno quelle che sono le sue uniche funzioni: dissetare e rinfrescare. Come l'acqua, appunto. Chiudo confermando che la bottiglia non ha assolutamente sofferto di "cattivi odori" dovuti al "colpo di luce": ho sentito dire che il vetro trasparente della Corona sarebbe dotato di appositi filtri protettivi, ma non ho trovato informazioni a riguardo.  Ho prelevato la bottiglia da un cartone semi-chiuso al supermercato, quindi poco esposta alla luce, ma non credo sia stato questo a preservarla: del resto il responsabile dello "skunk" da colpo di luce è il luppolo, e in questa birra credo che ne sia stato messo davvero molto, molto poco.
Formato 35.5 cl., alc. 4.5%, lotto o26 05:39, scad. 17/02/2016, pagata 1,45 Euro (supermercato, Italia).

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

4 commenti:

  1. È innocua... E sí può piacere anche a chi non piace la birra:)

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  2. Che io sappia chi utilizza vetro trasparente utilizza per la produzione della birra non luppolo "vero e poprio" ma un estratto di luppolo "ridotto", senza cioè quelle componenti che a contatto con la luce creano l'aroma skunky

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  3. Qui mostrano l'impianto produttivo:
    https://www.youtube.com/watch?v=2t-alo56cOM

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