giovedì 28 febbraio 2019

Altotevere Breakfast Stout

Nasce nel novembre 2016 nella  Zona Industriale Altomare a San Giustino (PG) il birrificio Altotevere.  Al progetto partecipano Giuliano Nocentini, presidente del Gruppo Kemon (produzione di profumi e cosmetici) e il birraio Luca Tassinati, aiutato dalla collega Eleonora Manservigi. Se il nome Luca Tassinati non vi è nuovo, non vi sbagliate: fu lui a fondare nel 2013 la beerfirm ferrarese Monkey Beer che avevamo conosciuto in questa occasione.  Da quanto leggo il marchio Monkey Beer non verrà dismesso ma entrerà a far parte della gamma Altotevere. 
A San Giustino l’impianto da 12 ettolitri (1400 quelli che dovrebbero essere stati prodotti nel 2018) viene affiancato da quella che vuole essere molto più di una semplice taproom. C’è lo spazio per concerti e DJ set e soprattutto c’è una cucina che promette di utilizzare “il più possibile con ingredienti locali, freschi e da selezionatissimi fornitori”: spazio dunque a zuppe, taglieri di salumi e formaggi, hamburger e pizze gourmet. La carta delle birre abbraccia quasi tutte le scuole: anglosassone/americana, tedesca e belga.  Ecco la A-T Doppel (Heller Doppelbock), A-T Pils, Freezo (West Coast IPA con Citra, Simcoe e Mosaic),  Goldie (4.6% Belgian Hoppy Ale 4,6%  con scorza  d’arancia),  Joy (Blanche con scorza d’arancia e bergamotto, camomilla e coriandolo) e a sua versione potenziata Hangover Imperial Blanche 10,5%),  Noir (American Porter), Polly  (Belgian Hoppy Ale 4,6%) e Random (American Pale Ale che utilizza un mix di luppoli diverso a seconda delle disponibilità).  
E il 2019 è iniziato col botto; lo scorso gennaio il concorso Birraio dell’Anno organizzato da Fermento Birra ha incoronato Luca Tassinati come birraio emergente dell’anno 2018.

La birra.
Ha debuttato alla metà dello scorso gennaio la Breakfast Stout di Altotevere; una one-shot la cui ricette include caffè 100% arabica, vaniglia bourbon in baccelli e fave di cacao, lattosio e una buona percentuale di avena.  
Nel bicchiere si presenta di color ebano scuro, la cremosa schiuma che si forma in superfice ha modeste dimensioni e scarsa ritenzione. Il caffè domina un aroma pulito e intenso, abbastanza elegante: il profumo di una golosa nella quale potete trovare anche orzo tostato, tracce di cacao e di caffe latte. In sottofondo c’è qualche nota terrosa, quasi di sottobosco. La bevuta prosegue nella stessa direzione con buona intensità ma meno precisione: lattosio/vaniglia e caramello sono il trampolino per un bel tuffo nel caffè e nel torrefatto al quale fa seguito qualche piccola sorpresa di cacao. L’alcool è ben nascosto, l’acidità è molto contenuta ma questa Breakfast Stout si chiude un po’ bruscamente, allontanandosi un po’ troppo in fretta: lascia comunque un delicato retrogusto nel quale si ritrovano di nuovo caffè, cacao e vaniglia. Quello che tuttavia mi lascia maggiormente perplesso è il cosiddetto mouthfeel, o sensazione palatale che dir si voglia:  in una stout robusta (8%) dove ci finiscono lattosio e avena mi aspetterei morbidezza, cremosità, qualche coccola che invece in questa birra non trovo. Soprattutto in questo, ma non solo, ci sono ampi margini di miglioramento: nel complesso, comunque una buona bevuta.
Formato 33 cl., alc. 8%, IBU 15, scad. 09/01/2020, prezzo indicativo 5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 27 febbraio 2019

Welde Bourbon Barrel Bock

Nel 1752 Carl Theodor di Baviera concedeva a Heinrich Joos la licenza di produrre birra a Schwetzingen,  oggi parte del Baden-Württemberg. Per l’occasione Joos fece costruire un edificio in Mannheimer Straße nel quale trovava spazio anche un piccolo birrificio. Nel 1846 secolo la “gasthaus” fu acquistata da Heinrich e Anna Seitz che la ristrutturarono rinominandola Grünes Laub; a loro succedette il figlio Georg, morto prematuramente nel 1885. Nel 1888 la vedova Barbara convogliò a nozze col  birraio Johann Welde, il cui cognome è ancora oggi nel nome del birrificio: Weldebräu. Alla sua morte, nel 1917, l’azienda passò nella mani della figlia Elisabeth che sposò il giovane mastro birraio Hans Hirsch; il loro unico figlio maschio morì nel corso della seconda guerra mondiale e fu ancora una volta una donna a ricevere il testimone. Bärbel Welde, sposata con  Wilhelm Spielmann: fu lui a decidere la costruzione del nuovo birrificio a Plankstadt, visto che non era più possibile aumentare la produzione nella vecchia sede di Schwetzingen. 
Nel 1981 il piccolo brewpub di città venne quindi trasformato nella moderna Weldebräu, guidata dal figlio Hans Spielmann: oggi sono circa 100.000 gli ettolitri prodotti ogni anno.  In sala cottura c’è al momento il birraro Stephan Dück, mentre la parte commerciale e strategica è affidata al Max Spielmann, diplomato biersommelier con alla spalle una breve esperienza in Heineken. Alle birre della tradizione anche Weldebräu come molti altri birrifici tedeschi affianca una linea “craft” della quale al momento fanno parte la Welde Craft Pepper Pils (pils con pepe rosa),  Welde Craft Pale Ale, Welde Craft Citra Helles, Welde IPA, Badisch Gose con sale e coriandolo e una Bourbon Barrel Bock che ha catturato la mia attenzione.

La birra.
La Bourbon Barrel Bock di Weldebräu è in realtà un blend proveniente da tre botti (bourbon, rum e tequila) nella quale la birra ha riposato per tre mesi. E’ di un bel color oro antico e forma una generosa testa di schiuma, cremosa e compatta, dall’ottima persistenza. Al naso non c’è purtroppo molto e i profumi vanno cercati col lanternino:  biscotto, pane, un ricordo di miele, qualche traccia di legno. Non è esattamente quello che t’aspetteresti da una birra che nata da un blend di tre botti contenente distillati. Fortunatamente le cose vanno un po’ meglio al palato: il passaggio in botte ha giocoforza tolto alla bock quelle che dovrebbero essere le sue caratteristiche principali, ovvero fragranza e freschezza, ma tale assenza dovrebbe essere "compensata" dai benefici del Barrel Aged.  Pane, biscotto e miele sono comunque presenti ma l’apporto delle botti è timido e si fa attendere sino alla fine del percorso, quando emerge una nota etilica piuttosto evidente che evoca soprattutto la tequila: delle altre due botti, e mi riferisco in particolare a quella ex-bourbon che dà il nome alla birra, onestamente non avverto la presenza. La bevuta è comunque gradevole, pulita e bilanciata ma il risultato lascia un po’ di delusione soprattutto per la mancanza di profondità, spessore e complessità. Sarebbe legittimo pretendere un po’ di più di un lieve sapore di tequila in una bock. 
Formato 33 cl., alc. 6.5%, IBU 28, scad. 28/08/2019, prezzo indicativo 3.00  Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

martedì 26 febbraio 2019

DALLA CANTINA: Toccalmatto Dudes 2011

One-shot, collaborazioni, special editions: fino a qualche anno fa questo era il pane quotidiano del birrificio Toccalmatto, sempre pronto ad incalzare i bevitori con qualcosa di nuovo da provare. Nel 2017 il birrificio guidato da Bruno Carilli ha stretto una importante partnership con la beerfirm belga Coulier e da allora la strategia commerciale è stata modificata. Fu lo stesso Carilli ad ammetterlo in un’intervista a Fermento Birra:  “non puoi continuare ad inseguire un mercato schizofrenico, modaiolo, publican volubili. Vedo qualche birrificio seguire trend produttivi effimeri, fare birre modaiole, ma è una politica cieca che non paga, tutt’altro. Te lo dice uno che ha lanciato mode, che ha fatto molte one-shot, ma poi le birre che vendi sono altre, devi creare degli standard e puoi farlo anche con birre molto caratterizzate, solo che devi venderle”
Va bene “divertirsi”, va bene far parlare di sé ma alla fine del mese bisogna fatturare e l’impianto deve funzionare, soprattutto se di “grosse” dimensioni:  “noi di Toccalmatto abbiamo già fatto un investimento importante due anni fa con l’acquisto del nuovo impianto, un investimento sostenibile attraverso un indebitamento non rischioso. Ma non basta. Sono necessarie risorse per assumere personale, soprattutto in ambito commerciale, oltre che per la comunicazione e per il marketing. Per fare lo scalino puoi vendere alla grande industria o puoi accordarti con i tuoi simili. Io ho preferito la seconda scelta”. 
Le birre Caulier vengono dunque prodotte oggi a Fidenza con l’obiettivo dichiarato di raggiungere 20.000 ettolitri l’anno entro 24 mesi.  In aggiunta a questi ci sono i volumi della gamma La Brassicola che Toccalmatto produce per una catena di discount italiani.  Meno varietà e più quantità. Sembrerebbe essere questo l’unico modo per sopravvivere: “rimanere in una fascia intermedia a livello dimensionale è pericolosissimo. Il mercato è cambiato e sta cambiando. Noi ci siamo salvati perché abbiamo investito in maniera assennata e graduale. Arrivi però ad un certo punto che devi cambiare il mercato, la distribuzione, e da solo non puoi farcela. Secondo me chi produce tra i 1000 e i 7000hl annui rischia molto”.

La birra.
Rimini, febbraio 2012:  la manifestazione oggi  nota come Beer Attraction  in quell’anno si chiamava Selezione Birra. Per l’occasione Toccalmatto presentò al pubblico la nuova linea di Barley Wine. Alla Dudes, versione base ”maturato in bottiglia per un minimo di 9 mesi”, vengono affiancate le varianti Salty Dog (invecchiata in botti ex- Caol Ila), Ombra (grappa) e Bedda Matri (Marsala). Qualche anno dopo arriverà anche Sugar Kane, invecchiata in botti ex-rum. 
Dalla cantina recupero quella che dovrebbe essere il primo lotto di Dudes, birra prodotta nel 2011 e messa poi in vendita l’anno successivo. Nel bicchiere è piuttosto torbida, di color ambrato con intense venature rossastre: la foto la rende molto più scura delle realtà. In superficie si forma una manciata di bolle grossolane che svaniscono immediatamente. L’aroma è un po’ stanco ma si porta dietro il cosiddetto “fascino dell’età”: prugna disidratata, frutti di bosco, cuoio, vino marsalato, accenni di ciliegia sciroppata, qualche frammento di cartone bagnato. L’assenza di schiuma è purtroppo indicatore di una birra  piatta: anche se un po’ indebolita dagli anni, la sensazione palatale è tuttavia ancora morbida e gradevole. Il gusto mostra buona corrispondenza con l’aroma: alla prugna disidratata e ai frutti di bosco s’aggiungono lievi note biscottate e caramellate prima che Dudes entri nel territorio dei vini marsalati per poi riposarsi su di una piccola poltrona di cuoio. E’ solo qui che l’alcool si fa finalmente notare in un finale lungo, caldo e avvolgente. 
I sette anni in cantina le hanno dunque fatto bene?  Indubbiamente è una birra che ha già intrapreso la parabola discendente:  leggere tracce di cartone bagnato ed ematiche spuntano fuori di tanto in tanto, c’è una lieve astringenza e mancano le bollicine. Il risultato è tuttavia ancora godibile e le connotazioni positive sono ancora dominanti rispetto a quelle negative. Toccalmatto dichiara che “può invecchiare decenni”, ma se ne avete ancora una bottiglia in cantina io non aspetterei molto ad aprirla, fossi in voi.
Formato 37,5 cl., alc. 12%, lotto 11018, scad. 04/2026, pagata 9.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

lunedì 25 febbraio 2019

De Moersleutel Double Roast Brandmeester’s Lintong Sumatra

Avevamo scoperto il birrificio olandese De Moersleutel lo scorso anno proprio quando era in procinto di traslocare nella nuova sede di Alkmaar. U business di famiglia, quello degli Zomerdijk: padre, quattro figli e in parte anche la madre che si dedicano a produrre la birra. Il padre gestiva il microbirrificio Vriendenbier e i figli hanno utilizzato l’impianto per il proprio marchio De Moersleutel, ovvero “la chiave inglese”: pare sia stato lo strumento usato dal genitore per assemblare l’impianto da due ettolitri che è andato in pensione a giugno del 2018. 
I giovani Pim, Tom, Rob e Max, tutti nati tra il 1990 e il 1998, seguono le mode e sanno quello che vogliono i beergeeks: IPA e Imperial Stout, possibilmente in lattina, al ritmo incessante di una novità dietro l’altra. Poco importa se le birre siano leggere variazioni della stessa ricetta, l’importante è che ci sia qualcosa di nuovo da commercializzare. Detto fatto: il cambio d’impianto ha quadruplicato la capacità produttiva ed ha permesso di abbandonare le bottiglie. L’obiettivo dichiarato, per i primi cinque anni, è di arrivare a produrre 15.000 ettolitri all’anno.  
E non è neppure mancato il crowfunding online ad accompagnare il lancio del nuovo birrificio: bicchieri, magliette e quattro birre speciali passate in botte (un barley wine e tre imperial stout) venivano offerte in diversi pacchetti da acquistare direttamente online sul sito del birrificio. E dopo aver raggiunto l’obiettivo ecco le cinque birre di ringraziamento (Barley Wine, Double IPA, Porter, IPA  e Imperial Stout) della serie “We Helped Building the Brewery with this..”

La birra.
Sembrerebbe difficile orientarsi tra le quasi cinquanta (!) Imperial Stout / Porter prodotte in poco più di due anni di attività da De Moersleutel, ma in verità il compito è piuttosto semplice. Si tratta quasi sempre “one-shot”, quindi la maggior parte non è più in produzione ma sostituite da altre: ricette migliorate, varianti, aggiunta di vari ingredienti o diversi affinamenti in botte. Non credo faccia grossa differenza: quello che trovate sugli scaffali dei beershop oggi può tranquillamente sostituire quello che c’era l’anno scorso. Se ad esempio non riuscite più a trovare le imperial stout/porter al caffè Je Moer op de Koffie o Motorolie Koffie, lo scorso ottobre ne sono arrivate altre due in collaborazione con la torrefazione Brandmeester's di Amsterdam: una con la varietà Lintong proveniente dall’isola di Sumatra (Indonesia) e una quella etiope chiamata Sidamo.
Versiamo nel bicchiere la Double Roast Brandmeester’s Lintong Sumatra (10%): su di un lucido specchio nero si forma un piccolo cappello di schiuma un po' grossolana e non molto persistente. Caffè, caffè, caffè: intenso, pulito, dominatore assolto dell'aroma. Bisogna concentrarsi per scovare in secondo piano qualche nota terrosa, torrefatta e di cacao. Realtà? Fantasia? Difficile dirlo perché il tempo per riflettere manca: la bevuta è di fatto un caffè in tutto e per tutto, potenziato dal morbido calore etilico. Bisogna di nuovo affidarsi alle suggestioni: un velo di caramello dolce in sottofondo, liquirizia, orzo tostato, cioccolato. Sono piccoli frammenti, non aspettatevi alternanza, profondità, equilibrio. L'eleganza non è la caratteristica principale di questa imperial porter in un certo senso  estrema: forse non mi era mai capitata una birra così caratterizzata dal caffè. I giovani ragazzi armati di chiave inglese sono esuberanti e mostrano di volerci dar dentro, ma un po' di giudizio non guasterebbe.  L'acidità è comunque ben controllata, l'alcool scalda senza bruciare e nel complesso la bevuta è piacevole: certo, sarebbe meglio se il caffè lasciasse un po' di spazio ad altri elementi. Perché dopo tutto si tratta di una imperial porter al caffè e non di un caffè all'imperial porter. 
Dedicata a chi vuol far colazione con la birra o a chi vuole restare sveglio tutta la notte. 
Formato 44 cl., alc. 10%, lotto 104, scad. 08/2023, prezzo indicativo 8.00-10.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

domenica 24 febbraio 2019

Evil Twin Consumed 15 Today, Diane. All Galaxy

Se la musica è una delle principali fonti d’ispirazione per quel che riguarda i nomi delle birre, la cinematografia segue probabilmente a ruota.  Per (i pochi) che non la conoscono, Twin Peaks è stata una serie televisiva ideata e diretta da David Lynch trasmessa agli inizi degli anni ’90; qualcuno la considera addirittura come lo spartiacque delle serie televisive. Nel 1991 al termine della seconda stagione di Twin Peaks, Laura Palmer sussurrava all’orecchio dell’agente Cooper “I’ll see you again in 25 years”,  ci rivedremo tra 25 anni.  David Lynch ha mantenuto la promessa e nel 2017 (ventisei anni dopo, in verità) è arrivata la terza stagione, trasmessa in Italia da Sky Atlantic. 
L’occasione non è sfuggita all’attento Mikkeller che ha subito realizzato tre Twin Peaks beers con il benestare di David Lynch: Log Lady Lager, Damn Good Coffee Stout e Red Room Ale. E altri birrifici si sono subito accodati, anche se in maniera non ufficiale: se cercate troverete decine di birre con nome o grafiche d’etichetta ispirate alla serie di David Lynch: la Remember 430 di Wylam bevuta qualche tempo fa è un esempio. 
Poteva il fratello gemello cattivo di Mikkeller, ovvero l’Evil Twin Jeppe Jarnit-Bjergsø, sottrarsi dall’operazione commerciale?  Certo che no e sono circa una decina le sue birre a tema Twin Peaks, ispirate da personaggi, frasi o dall’iconografia lynchiana.

La birra.
Che dire della IPA chiamata Consumed 15 Today, Diane? Il riferimento questa volta è a una parodia della serie Twin Peaks andata in onda al Saturday Night Live Show il 28 settembre del 1990. Il giorno prima dell’inizio della seconda serie, l’attore Kyle MacLachlan/agente Cooper fu protagonista di un divertente siparietto nel quale si prendeva gioco della sua maniacale abitudine di confidare le proprie riflessioni ad una misteriosa Diane, registrando dei messaggi su un piccolo registratore vocale. Perché a quel tempo gli smartphones ancora non esistevano. 
Ecco parte del testo: “Diane, 11:31 di sera. Ho appena finito di lavare i piatti e sono pronto per andare a letto. Questa mattina ho fatto una doccia durata nove minuti. Ho trovato diciassette cappelli, tre ricci e quattordici lisci (…)  ho mangiato quindici ciambelle oggi, Diane. Tutte ripiene di marmellata. Tra quattro minuti mi farò l’iniezione di insulina. Diane, ho dormito benissimo ieri sera.“ 
Consumed 15 Today, Diane. All Jelly: ne ho mangiate 15 oggi, Diane. Tutte alla marmellata. Nel caso specifico della birra, “All Jelly” è stato sostituito da “All Galaxy”: bevete questa birra allo stesso modo in cui l’agente Cooper beveva caffè e divorava ciambelle. Il primo lotto è uscito dalla Dorchester Brewing Co. di Boston a luglio del 2017. Attualmente siamo arrivati alla terza edizione, data di confezionamento sconosciuta; le prime recensioni di bevitori americani sono datate novembre 2018, quindi immagino che la lattina in mio possesso abbia quei 3-4 mesi che spesso hanno sul groppone le birre americane importate via mare. 
All'aspetto è velata è di colore dorato, la schiuma è cremosa, compatta e ha ottima persistenza. La freschezza non è purtroppo la caratteristica principale dell'aroma, ma se si è disposti a chiudere un occhio si può comunque apprezzare una piccola macedonia nella quale svettano mango, lychee e ananas, forse papaia. Non ci sono grandi ampiezze, in sottofondo s'avverte anche una nota biscottata. Il gusto ricalca in fotocopia l'aroma: la parte fruttata tropicale non è fragrante e non è molto intensa ma la bevuta è comunque gradevole. Biscotto in sottofondo, amaro resinoso finale delicato e di breve intensità; anche la secchezza potrebbe essere maggiore, secondo il mio guasto. La gestione dell'alcool non è agevolata dalla poca fragranza: come spesso accade nelle IPA che hanno perso un po' di smalto, la  componente etilica si fa avanti e in questo caso si percepisce per quanto dichiarato (7%).  Messe da parte le pretese di freschezza, fragranza ed esplosività rimane una birra comunque piacevole: se (giustamente) pensate che queste debbano essere le imprescindibili caratteristiche di una IPA allora evitate le importazioni dagli Stati Uniti (soprattutto quando sulle lattine/bottiglie non vedete la data di confezionamento) e guardatevi attorno, Europa o ancora meglio Italia. 
Formato 47.3 cl., ala. 7%, lotto 356 - 3rd edition, prezzo indicativo 7.00-8.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

giovedì 21 febbraio 2019

The Kernel India Double Porter Mosaic Simcoe Vic Secret

Il birrificio londinese The Kernel è stato una musa ispiratrice per la maggior parte dei birrifici protagonisti della craft beer revolution non solo londinese ma di tutto il Regno Unito. Fondato nel 2009 sotto le arcate ferroviarie nel quartiere di Bermondsey, oggi ribattezzatto “The Beer Mile”, nel 2012 si è poi trasferito poco lontano all’interno di “arcate più capienti” che hanno permesso un aumento della capacità produttiva. Da allora non è cambiato molto: Londra continua ad essere il mercato nel quale viene venduto il 70% della produzione, le etichette sono ancora quelle di un tempo, minimaliste e spartane, poche lettere stampate su di uno sfondo che emula la carta da pacchi. Le birre non hanno un nome, ma utilizzano solamente la categoria stilistica e il nome dei luppoli usati. 
Nel futuro nessuna intenzione di crescere. Il fondatore Evin O'Riordain è contento così: “la nostra produzione è limitata dallo spazio in cui siamo. Di più non possiamo fare e siamo felici così.  Non bisogna confondere il successo con l’espansione, la crescita e l’aumento di volumi. Ai miei occhi è molto più importante lavorare in modo etico e sostenibile, principi in contrasto con i paradigmi che guidano la crescita economica. Facciamo birra sul nostro impianto da 20 barili una volta al giorno, cinque giorni la settimana. Tutti quelli che lavorano qui sono felici, negli ultimi cinque anni solamente una persona ha voluto andare via. I birrifici che vogliono crescere iniziano ad introdurre turni di lavoro alla notte, alla mattina presto: noi siamo in quattordici persone, iniziamo e finiamo il lavoro tutti assieme, prestando attenzione a quello che facciamo, alternandoci. Ci conosciamo e ci fidiamo l’uno dell’altro; a turno tutti facciamo la birra, la imbottigliamo, guidiamo il muletto, rispondiamo al telefono. Non si tratta solo di lavoro… io la chiamo umanità. Quasi tutti noi abbiamo lavorato in passato al Borough Market qui vicino: quella è la nostra famiglia allargata. Alla mattina ci viene a trovare il macellaio, il fornaio ci porta il pane fatto con la stout e i croissant; pranziamo con il pane e il formaggio che vendono i nostri vicini.  Allargando di un po’ l’orizzonte c’è una decina di birrifici a Bermondsey..  ed è un’altra comunità nella quale siamo coinvolti: se abbiamo bisogno di lievito o se restiamo senza tappi delle bottiglie chiediamo aiuto a Brew by Numbers or Partizan. Avere molti piccoli produttori è un bene per l’economia. Le grandi imprese tendono a sottrarre denaro agli azionisti, mentre i soldi che tu dai ad una piccola impresa rimangono in quel sistema economico, girano. 
Abbiamo deciso di chiudere la nostra taproom perché non riuscivamo più a gestirla: non potevamo continuare ad usare le nostre risorse ad allungare pinte ai clienti, a gestire code di mezz’ora, a decidere chi poteva entrare e chi doveva ancora aspettare fuori dalla porta. Non riuscivamo più ad offrire alla gente quell’esperienza che le nostre birre meritavano. Eravamo diventati un luogo dove noi stessi non saremmo mai andati a bere!”
Il birrificio è ancora aperto ogni sabato ma solamente per l'acquisto di birra da asporto.

La birra.
India Double Porter è la versione potenziata di quella India Porter che – come passa il tempo – avevo bevuto nel 2012. Quando si tratta di birre scure O’Riordain si ispira sovente a ricette di vecchi birrifici di Londra, rielaborandole in chiave moderna ovvero con luppoli americani. Il blog di Ronald Pattinson è una fonte inesauribile di notizie storiche e vi consiglio quindi di visitarlo se volete sapere di più sulle India Porter, molto amate dalle truppe inglesi in India nel diciannovesimo secolo. 
Esistono alcune versioni della India Double Porter di Kernel che si differenziano per le varietà dei luppoli utilizzati: in questo caso parliamo di Mosaic, Simcoe e  Vic Secret. Si presenta vestita di nero con un generoso cappello di schiuma cremosa e compatta dall’ottima persistenza. All’aroma c’è una curiosa convivenza tra profumi terrosi, di caffè e torrefatto, resina, frutta tropicale, pompelmo: pulito e intenso, un mix rischioso ma ben riuscito. Cos’è esattamente una India Porter? Una Black IPA? No, in questo caso è una porter generosamente luppolata e il gusto lo conferma. Il palato viene invitato a salire su specie di montagna russa che sale e scende tra frutta tropicale, resina, caffè, torrefatto e – ciliegina sulla torta – un bel finale di cioccolato fondente. Questi ultimi tre elementi non dovrebbero per l’appunto essere presenti in una Black IPA. I descrittori entrano ed escono di scena più volte, nel complesso c’è equilibrio, intensità e pulizia. L’alcool è ben gestito ed è un piacere sorseggiarla.  
Birra ben fatta, di livello alto come quasi tutte le “scure” prodotte da The Kernel: tutto il resto dipende ovviamente dal gusto personale. Per me è un bel “si”.
Formato 33 cl., alc. 7.5%, imbott. 08/11/2018, scad. 08/11/2019, prezzo indicativo 5.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.

mercoledì 20 febbraio 2019

DALLA CANTINA: Deschutes Mirror Mirror Barley Wine 2014

Sono passati 31 anni da quando nel 1988 Gary Fish aprì con la moglie il Deschutes brewpub a Bend, Oregon: 368 gli ettolitri prodotti nei primi 12 mesi di vita, cresciuti esponenzialmente a 91.000 dopo dieci anni e 216.000 dopo venti. Il tutto grazie a numerose espansioni, all’apertura di un secondo brewpub a Portland (2008) e di uno sulla costa ad Est a Roanoke  (impianto da 22 ettoltri) che doveva costituire l’anteprima di un progetto ben più ambizioso da 95 milioni di dollari che prevedeva la costruzione di un secondo birrificio nella stessa città della Virginia, 180.000 ettolitri all’anno di capacità. Il progetto è stato tuttavia temporaneamente congelato nell’attesa di capire meglio gli sviluppi del mercato della craft beer. Il birrificio di Bend ha infatti attualmente una capacità di 684.000 ettolitri l’anno ma ne produce poco più di 470.000: nonostante questo Deschutes rimane il decimo maggior produttore craft americano, posizionandosi al numero venti se allarghiamo la classifica anche alla birra industriale.  
Nel 2018 anche Deschutes ha introdotto le lattine, formato ormai indispensabile per competere nel mercato craft, ma ha anche annunciato dolorosi tagli al 10% del personale. Gary Fish rimane ancora il maggior azionista del birrificio ma, come altri fondatori di birrifici artigianali americani divenuti molto grandi,  ha ceduto il ruolo di CEO e presidente a Michael LaLonde;  le restanti quote societarie sono state offerte ai dipendenti. 
Tutte o quasi le birre di Deschutes hanno riferimenti a luoghi geografici che si trovano nei dintorni di Bend:  la Pale Ale Mirror Pond, ad esempio, è dedicata ad un piccolo laghetto formato dal fiume Deschutes. Mirror Pond è stata anche la ricetta di partenza per la prima birra della Reserve Series, birre prodotte occasionalmente, stagionalmente o solamente una volta l’anno nel formato da 65 centilitri. Ad inaugurarla fu nel 2006 il barley wine Mirror Mirror, versione “raddoppiata” (dicono alla Deschues) della Mirror Pond Pale Ale. Si tratta di un blend di birra fresca e della stessa birra invecchiata per dieci mesi in botti che avevano contenuto vino Pinot Noir, Tempranillo e Malbec.
Mirror Mirror è stata poi replicata nell’aprile 2009 e nell’aprile del 2014. Rispettando la cadenza quinquennale nel 2019 è prevista l’uscita di un nuovo barley wine che dovrebbe essere questa volta chiamato Black Mirror; i dettagli non sono ancora stati resi noti.

La birra.
Dalla cantina recupero una bottiglia di Mirror Mirror millesimo 2014: la ricetta prevede malti Pale, Victory, Crystal, Maris Otter e Cara-Pils, luppoli Millennium e Cascade. Per chi volesse provare a replicarla in casa, ecco qui la “versione per homebrewing”. 
Come per molte birre della Reserve Series, Deschutes indica in etichetta la  data dopo la quale sarebbe meglio stappare a birra, in questo caso febbraio 2015. Si chiede quindi ai clienti di tenerla in cantina per quasi un anno per poterla apprezzare al meglio.
A quasi  cinque anni dalla messa in bottiglia Mirror Mirror ha perso un po’ di brillantezza e il suo color ambrato carico risulta piuttosto spento e opaco: la schiuma è invece ancora generosa e compatta, rivelando ottima ritenzione. Al naso c’è una buona complessità fatta di caramello, uvetta e datteri, ciliegia, fragola, mela cotogna, frutta secca a guscio e biscotto; l’ossidazione ha avuto fortunatamente sviluppi positivi, in questo caso regala ricordi di vini passiti e marsalati. Quello che impressiona maggiormente la sensazione palatale: nessun segno di cedimento, mouthfeel cremoso, morbido ed avvolgente, corpo tra il medio ed il pieno.  La bevuta inizia  dolce di caramello e biscotto, uvetta e datteri, ricalcando di fatto l’aroma per poi rivelare gli effetti del passaggio in botte; note vinose e di legno, una lieve asprezza ed una bella secchezza arrivano a portare equilibrio. Il finale è piuttosto lungo e riscalda senza bruciare: una scia etilica vinosa, avvolgente e morbida. Davvero una bella bevuta questo barley wine di Deschutes: pulito, intenso, bilanciato, ancora pieno di vita. Capace di regalare emozioni e probabilmente di poter resistere in cantina ancora per qualche altro anno. 
Formato 65 cl., alc. 11.2%, IBU 53, imbott. 04/2014, 24/02/2015, pagata 17,00 dollari (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

lunedì 18 febbraio 2019

Walhalla Daemon #4 Baba Yaga

Due sono le passioni di Aart van Bergen: musica e birra. La prima viene perseguita attraverso il sassofono nello Starlight Jazz Trio, la seconda fino a qualche anno fa consisteva nel fare la birra in casa, cercando di replicare quelle bevute nei pub di Amsterdam. Nel 2013 assieme all’amico Peter Harms fonda la beerifrm De Vriendschap che produce inizialmente sugli impianti del birrificio Sallandse Landbier di Raalte e poi inaugura nel  2014 il proprio impiantino da un ettolitro nel centro culturale Melkweg di Amsterdam. Nel 2015 i due amici si separano: Harms gestirà De Vriendschap sino alla chiusura avvenuta nel 2016,  van Bergen inaugura invece la sua nuova beerfirm Walhalla Craft Beer che debutta con vernissage ad Amsterdam nel febbraio 2016. Due le birre prodotte, la Osiris Farmhouse Ale (7.0%) e la Shakti Double IPA  (8.8%). Per produrle si appoggia agli impianti dei birrifici Huttenkloas e Oproer. 
Nel 2017 grazie ad una campagna di crowfunding vengono raccolti i centomila euro necessari alla ristrutturazione di una vecchia officina meccanica nella zona nord di Amsterdam: qui nasce la Walhalla Brouwerij & Proeflokaal, una quindicina di spine alle quali in un secondo periodo viene affiancato un piccolo impianto produttivo destinato ad alimentare fusti e lattine, oltre al brewpub. Le bottiglie sono invece ancora prodotte presso il birrificio Huttenkloas, anche se le etichette non lo indicano. Walhalla si trova letteralmente a due passi da un’altra taproom di Amsterdam, quella del birrificio Oedipus. 
La produzione comprende birre prodotte tutto l’anno  (Loki IPA, Ares American Amber, Oriris Farmhouse Ale, Shakti Double IPA, Wuldor Barley Wine, Ymir West Coast Pale Ale, Aphrodite Raspberry Berliner Weisse, Izanami Sorachi Ace Stout, Elixer Neipa), birre stagionali ed alte prodotte in edizione “limitata” come la serie Daemon: tra queste  due Imperial Black IPA, alcune imperial stout e una imperial brown ale.

La birra.
La mitologia è un’altra della passioni di Aart van Bergen e a lei si ispira la maggior parte delle birre da lui prodotte; Baba Yaga è una creatura leggendaria della mitologia slava, una mostruosa  vecchietta dotata di poteri magici e vari oggetti incantati, spesso paragonata ad una strega incantatrice. A noi interessa però la birra a lei dedicata, ovvero la quarta della serie Daemon: una imperial stout “nera come il suo cuore” commercializzata nel novembre del 2017. Duemila bottiglie prodotte con luppoli americani e un parterre di malti che include Pale, Monaco, Roasted, Dark Crystal, Brown e Chocolate. 
Nel bicchiere è effettivamente nera come la notte e forma un generoso cappello di schiuma dall'ottima ritenzione. L'aroma non è molto intenso ma c'è un buon livello di pulizia: anch'esso nero, è dominato dal torrefatto e dai fondi di caffè. In secondo piano si scorge qualche nota terrosa e biscottata. Il mouthfeel è molto morbido, sebbene l'avena non sia citata tra gli ingredienti in etichetta: avvolge il palato con una coltre delicata e vellutata che non costituisce nessun ingombro. E' una birra che ha bisogno di un po' di tempo per aprirsi e rivelarsi completamente: inizialmente noiosa, tutta basata su torrefatto e fondi di caffè, man mano che s'avvicina alla temperatura ambiente rivela bei dettagli di frutta sotto spirito, caramello e sopratutto un bel cioccolato amaro che, abbracciando caffè e tostature, arriva ad ammorbidire un finale che sarebbe altrimenti stato un po' troppo ruvido. L'alcool è ben gestito a fa sentire la sua presenza senza esagerare. 
Ci sono ampi margini di miglioramento ma nel complesso il risultato è abbastanza godibile, a patto che non abbiate pretese elevate. Buona parte del merito va alla sensazione palatale, davvero azzeccata. 
Formato 33 cl., alc. 10.2%, IBU 104, imbotto 10/2017, scad. 10/2019, prezzo indicativo 4.00 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

venerdì 15 febbraio 2019

Dry & Bitter Double Dippy Doo

Del birrificio danese Dry & Bitter abbiamo già parlato in più di un’occasione. Alla guida ci sono Søren Wagner e Jay Pollard, proprietari anche del noto beer bar di Copenhagen chiamato Fermentoren,  24 spine tutte dedicate al craft e una succursale aperta di recente ad Aarhus. Nel 2015 i due soci rilevarono anche il birrificio Ølkollektivet che produce per moltissime beer firm danesi ed ora lo utilizzano, oltre che per realizzare le birre destinate al Fermentoren, anche per il loro marchio Dry & Bitter, lanciato nello stesso anno. Da notare che Wagner possiede già un'altra beefirm, Croocked Moon. 
IPA e dintorni la fanno da padrone nel portfolio di un birrificio che opera in una città molto attenta alle mode: in questo senso sorprendeva, fino a pochi mesi fa, la completa assenza del sotto-stile di IPA più in voga al momento, ovvero il New England/Hazy/Juicy. Una mancanza alla quale Dry & Bitter ha rimediato solo lo scorso novembre quando sono arrivate quasi contemporaneamente le Double NEIPA Juicy Gotcha Krazy, realizzata in collaborazione con gli americani di Interboro Spirits & Ales, e la Double Dippy Doo. Qualche settimana fa ha invece debuttato la NEIPA /JU:-DAB/  (6.3%) e, prossimamente, sarà disponibile la NEIPA Yoga Dog, collaborazione con il birrificio italiano Vento Forte.

La birra.
E' arrivata il  15 novembre 2018 alle spine del Dispensary e di altri bar selezionati a Copenhagen la NEIPA Double Dippy Doo: Citra e Simcoe sono i luppoli protagonisti di una birra la cui ricetta annovera anche una buona percentuale di avena e frumento. I due dinosauri protagonisti della grafica alle spine sono stati sostituiti, sull’etichetta delle lattine, da una serie di psichedeliche montagne, o forse onde sonore? 
Nel bicchiere assomiglia visivamente ad un torbido succo alla frutta, pera nello specifico: arancio pallido, schiuma scomposta ma dalla buona persistenza. L’aroma non lo definirei esattamente elegante o raffinato ma c’è quell’esplosività, quella sfacciataggine che t’aspetti di trovare in questo tipo di birre: un carattere tropicaleggiante non troppo definito nel quale emergono soprattutto ananas e mango, affiancati da arancia e mandarino. Il protocollo NEIPA prevede anche una sensazione palatale morbida e quasi masticabile, obiettivo in questo caso raggiunto solo a metà. C’è effettivamente una che di  chewy/masticabile ma è ingombrante piuttosto che vellutato o setoso: d’accordo, è una Double IPA (7.5%) e nessuno vorrebbe tracannarla, ma si potrebbe onestamente fare di meglio. Neppure il gusto mi convince del tutto: ci trovo la stessa scarsa definizione dell’aroma ma con un’intensità minore. La prima parte della bevuta è un gradevole tappeto tropicale dolce che pian piano va sfumando in un finale leggermente aspro di frutta acerba; la chiusura è abbastanza secca, l’amaro resinoso è molto delicato ma riesce tuttavia a provocare un leggero bruciore al palato. 
Ad un mese dalla messa in lattina la freschezza di questa Double Dippy Doo è fuori discussione ma il risultato è solo discreto, soprattutto in bocca: non c’è quell’intensità fruttata e sfacciata tale da poterle perdonare la scarsa pulizia e il lieve “effetto pellet” finale. Per entrare nell’olimpo delle NEIPA europee c’è ancora da lavorare.
Formato 44 cl., alc. 7.5%, imbott. 16/01/2019, scad. 16/07/2019, prezzo indicativo 7.00-8.00 Euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio

giovedì 14 febbraio 2019

Prairie Bomb! Deconstructed: Coffee

Bomb!, massiccia imperial stout prodotta con chicchi di caffè, fave di cacao, baccelli di vaniglia e peperoncino Ancho che ha contribuito in maniera determinante a decretare il successo del birrificio Prairie Artisan Ales, Okhlahoma. Ne avevamo già parlato qui. Una birra di successo, soprattutto se una imperial stout,  fa inevitabilmente proliferare numerose varianti: nel caso della Bomb! ce ne sono circa una decina, le più famose delle quali sono Christmas Bomb!  (spezie natalizie), Pirate Bomb! (invecchiata in botti ex-rum), Barrel-Aged Bomb! (botti whiskey) e Birthday Bomb! (ai classici ingredienti s’aggiunge una nuova e speciale “salsa di caramello”). 
Birra artigianale è sempre più sinonimo di novità: la gente cerca continuamente qualcosa di nuovo da provare e le varianti citate sopra rispondono perfettamente a queste esigenze. A chi si domanda cosa sia possibile aggiungere ad una imperial stout che già contiene chicchi di caffè, fave di cacao, baccelli di vaniglia e peperoncino Ancho, Prairie risponde con un’operazione inversa:  la scomposizione.  A marzo del 2013 viene annunciato l’arrivo della serie Deconstructed Bomb!, una confezione da quattro bottiglie di altrettante versioni di Bomb! ciascuna delle quali contenente solamente uno degli ingredienti: Deconstructed Bomb! Cacao Nibs, Deconstructed Bomb! Chili Peppers , Deconstructed Bomb! Coffee e Deconstructed Bomb! Vanilla.  
L’etichetta di ogni birra raffigura una delle quattro lettere della parola Bomb; mettetele in fila e ricomporrete come per magia la birra originale. Le quattro bottiglie vi danno anche la possibilità di assemblare il vostro “blend” preferito, creando ad esempio una Bomb! con solo due ingredienti o variando a piacimento le percentuali dei quattro per avere una Bomb! nella quale si senta più la vaniglia piuttosto che caffè, peperoncino o cioccolato. Le possibilità sono potenzialmente infinite.
Da notare che le quattro Deconstructed Bomb! erano già uscite nel 2017, solamente in fusto.

La birra.
Deconstructed Bomb! Coffee si presenta completamente nera con un discreto cappello di schiuma cremosa dalla buona persistenza. E impossibile risalire alla data di nascita di questa bottiglia ma al naso il caffè è ancora protagonista, affiancato da accenni di cioccolato fondente e tostature, note terrose e di pelle/cuoio. La sensazione palate è gradevole, il corpo tra il medio e il pieno: non ci sono particolari concessioni cremose, caratteristica che ritrovo in tutte le Prairie prodotte negli ultimi anni. Ricordo che il marchio è stato ceduto nel 2016 dai fratelli Healey alla Krebs Brewing Company. La bevuta è scura ed intensa come il colore: caffè e tostature dominano un palcoscenico sul quale s’affacciano anche melassa, liquirizia, caramello, frutta sotto spirito. L’alcool (13%) riscalda ogni sorso con vigore e sfocia in un lungo finale nel quale caffè, cioccolato e torrefatto compongono una gran bella armonia, molto bilanciata e pulita. Lasciando stare il confronto con la Bomb! normale, improponibile per ovvie ragione, questa Deconstructed Coffee in quanto “imperial stout al caffè” è ben fatta e gradevole ma non lascia particolari ricordi o emozioni. Ci sono altre birre che si lasciano preferire per precisione, complessità e profondità. A prezzo pieno (10 €) il rapporto qualità-prezzo inizia a divenire non del tutto soddisfacente: meglio approfittare degli sconti che sulla serie Deconstructed vengono spesso offerti su alcuni negozi on-line.
Formato 35.5 cl., alc. 13%, lotto e scadenza non riportati, pagata 5,73 euro (beershop)

NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.