A febbraio 2014 la beerfirm danese To Øl (la loro storia la trovate qui) annuncia la nascita della loro Session Series: la serie altro non fa che cavalcare la moda attuale della "sessionabilità", diametralmente opposta a quella dell'"imperializzazione" che invece dilagava qualche anno fa. Si parte con tre birre che - a guardarci bene - più che delle innovative "session" non sono altro che birre leggere per definizione: l'APA Sofia King Pale (4.7%), la Hope Love Pils (4.5%) e la Cloud 9 Wit (4.6%). Insomma, sbandierare come "session" una Pils è un po' come gridare di aver scoperto l'acqua calda.
Le etichette, come spiegano i danesi, sono state volutamente semplificate da Kasper Ledet, il loro grafico di fiducia, per trasmettere anche visivamente la "facilità" di fruizione di queste birre. Ampio spazio ai caratteri Gill Sans ed immagini quasi ridotte al minimo.
Alle tre "session" iniziali se ne aggiunge più tardi una quarta chiamata "Sesson", una parola che fonde al suo interno "session" e "saison". Anche qui ci sarebbe qualcosa da dire su come sia ridondante specificare "session saison"; sappiamo che le Saison erano le birre che nel diciannovesimo secolo erano prodotte alla fine della stagione fredda e destinate ad essere poi bevute in estate, durante il duro lavoro estivo nei campi, in quanto più sicure e salubri dell'acqua che era spesso portatrice di malattie ed infezioni. In assenza della refrigerazione, per farle "durare" qualche mese più del solito venivano abbondantemente luppolate ed anche il contenuto alcolico era leggermente superiore alla norma; bisogna però considerare che a quel tempo una birra dal contenuto alcolico in percentuale del 4% era già considerata "forte".
Come inoltre fa notare Phil Markowski nel libro Farmhouse Ales, è probabile che sino alla prima guerra mondiale coesistessero almeno due tipi di "saison". Quelle che venivano bevute di giorno nei campi, per dissetarsi e rinfrescarsi durante il lavoro, con un contenuto alcolico normalmente inferiore al 2.5% e quelle di qualità "superiore" (ovvero più alcoliche) che venivano bevute al termine della giornata lavorativa.
La Sesson di To Øl vede un dry-hopping di Vic Secret (Australia) ed Amarillo; nessuna novità neppure qui, visto che era pratica diffusa (stiamo sempre parlando del secolo XIX) praticare il dry-hopping dei cask per "ringiovanire" queste birre prodotte qualche mese addietro prima di essere spedite al consumatore.
Nel bicchiere arriva di colore oro pallido, leggermente velato e con un abbondante cappello di schiuma bianca e pannosa, dall'ottima persistenza. L'aroma vede gli agrumi in primo piano (lime, limone, mandarino e arancia) seguiti da sentori floreali, un accenno dolce di frutta tropicale e rustico di paglia; c'è anche la leggerissima acidità donata dal frumento, per un aroma pulito e ancora discretamente fresco. La "sessionabilità" viene perseguita al palato soprattutto attraverso la leggerezza del corpo e la consistenza acquosa, con un'impeccabile scorrevolezza ed una vivace carbonazione; ne soffre un po' l'intensità dei sapori. Leggero imbocco di crackers e di miele, il dolce della polpa d'arancia e qualche suggestione di canditi per un finale che arriva piuttosto in anticipo, con un amaro pulito e gradevole composto da note erbacee e di scorza d'agrumi. La secchezza è quella giusta, assicurando un ottimo potere dissetante e rinfrescante che - raffreddando il palato - dimentica però di scaldare il cuore. Birra molto pulita e "perfettina", eseguita con precisione chirurgica dal fido De Proef a scapito di quelle imperfezioni "rustiche" spesso responsabili di quelle emozioni che le grandi Saison riescono a dare.
L'importatore italiano la definisce curiosamente un tributo alla Saison Dupont Cuvéé Dry Hopping; non so se questa informazione sia arrivata direttamente dal produttore, ma andiamoci piano ad avvicinare irrispettosamente il profano al sacro.
Formato: 33 cl., alc. 4.6%, scad. 30/03/2017, pagata 4.00 Euro (beershop, Italia)
NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.
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