Cloudwater è indubbiamente uno dei nomi più chiacchierati tra i beergeeks del Regno Unito e non solo. A fondare questo birrificio che si trova ad Ancoats, quartiere periferico di Manchester non lontano dal centro e raggiungibile con una camminata di un quarto d’ora dalla stazione dei treni di Piccadilly, sono Paul Jones e James Campbell.
Jones non ha nessuna esperienza con la birra, a parte qualche trascorso nel campo della ristorazione, si è sempre occupato di musica e stava per aprire uno studio di registrazione prima di incontrare James Campbell. James è stato per molti anni il birraio della Marble di Manchester, lasciata nel 2013 con il desiderio di mettersi in proprio: coinvolto inizialmente da Jones come consulente esterno, un ruolo che già svolgeva per altri birrifici, viene poi convinto a diventare socio. I due si siedono ad un tavolo per elaborare un dettagliato business plan la cui realizzazione impiegherà quasi un anno, dalla scelta della location a quella dell’impianto da 24 ettolitri fornito dalla Premier Stainless di San Diego. Seguendo il consiglio di altri birrai inglesi, che si sono trovati dopo pochi mesi con un impianto incapace di soddisfare tutta la richiesta dei clienti, Jones e Campbell decidono di partire da subito “abbastanza in grande” sistemandosi in locali la cui capienza potrebbe un giorno consentire di raddoppiare le dimensioni dell’impianto, di ospitare una bella taproom e una cantina con quasi cinquecento botti.
A loro si aggiungono altri amici: Al Wall, ex-homebrewer e una lunga esperienza nella gestione di cantine e di bar (Port Street Beer House, Brew Dog Manchester, The Salutation, Deaf Institute e Sand Bar), Will France anche lui ex-manager dei locali The Beagle e Port Street Beer House e una esperienza di un anno come birraio al birrificio Summer Wine. In un secondo momento viene assunta anche Emma Cole, ex-responsabile commerciale di BrewDog per il Regno Unito settentrionale.
Cloudwater, ovvero “To drift like clouds and flow like water”: “volevo qualcosa che non fosse legato a Manchester, nessuno di noi è nato qui. Il nome proviene da un antico poema che parla della vita e della filosofia degli unsui, i giovani monaci buddisti che viaggiano di monastero in monastero alla ricerca del maestro giusto col quale studiare. Vagano come le nuvole, cercano la loro strada come fa l’acqua. E‘ una filosofia di vita che rappresenta anche il nostro approccio alla birra - dice Jones – non abbiamo un range di birre fisse, facciamo soltanto birre stagionali e in questo senso anche noi viaggiamo e vaghiamo per imparare. Nel 2016 abbiamo fatto le birre del 2016 ma finito l’anno si ricomincia da capo: le rifaremo in modo diverso per migliorarle o non le rifaremo più; vogliamo guardare avanti, non indietro. La stagionalità ci entusiasma e ci permette di meglio gestire la diversa qualità delle materie prime a disposizione, anche se spesso ci complica la vita. Ogni volta una nuova ricetta, una nuova etichetta realizzata da un nuovo artista”.
Cloudwater vende la sua prima birra a marzo 2015 e a inizio 2016 il popolo di Ratebeer già lo incorona come miglior “nuovo” birrificio inglese, nonostante Jones ammette che “alle nostre prime birre davamo un voto medio di 5/10; alcune erano migliori, altre peggiori”. Ma è solo un piccolo anticipo di quello che i beer-raters proclamano lo scorso gennaio, in relazione al 2016: Cloudwater è tra i dieci miglior birrifici al mondo. Nello stesso mese il birrificio annuncia la sostituzione delle bottiglie con le lattine grazie alla messa in funzione della nuova ABE Lincan 60.
Tra le birre che hanno contribuito al successo ci sono ovviamente le IPA: "le nostre birre luppolate all’inizio erano molto amare, il gusto era molto diverso dall’aroma; a partire dall’ottobre 2015 abbiamo cominciato a ridurre l’amaro e iniziato a lavorare con diversi ceppi di lievito anziché usare i lieviti neutri che non impartiscono nessun sapore alla birra. E’ quello che abbiamo apprezzato nelle birre dei birrifici del Vermont come Hill Farmstead, The Alchemist, Lawson's. Le IPA della West Coast cercano di annullare il lievito e bilanciano i luppoli con i malti: noi volevamo invece una struttura maltata semplicissima, non ci piacciono i malti caramellati. Abbiamo cercato progressivamente di rendere le nostre birre sempre più fruttate e meno amare, ed è un cambiamento ancora in corso".
La serie della DIPA (Double IPA) che ha permesso a Cloudwater di scalare le classifiche del beer-rating inizia a gennaio 2016 con l’arrivo della DIPA V1.0: nella filosofia del birrificio, che non intende avere birre in produzione fissa, la “versione 1.0” è solamente il primo capitolo di una “saga” che e si conclude lo scorso marzo 2017 con la DIPA V13. Tredici birre diverse, con cadenza quasi mensile, che sperimentano l’utilizzo di diversi ceppi di lievito e di luppoli e le loro differenti combinazioni: la V13 conclude questa serie ma non quella delle DIPA; Cloudwater ne ha infatti da poco annunciato la “riorganizzazione” in tre grandi famiglie che si alterneranno nel corso dei mesi. Le NW DIPA saranno prodotte con il lievito WLP4000 fornito dai vicini di casa della JW Lees; le IIPA utilizzeranno invece il WLP001, più neutro e “pulito”, mentre le NE DIPA saranno ovviamente la variante più “juicy/fruttata” grazie anche agli esteri prodotti dai lieviti WLP4000 e 095.
La birra.
L'ultima DIPA di Cloudwater porta il numero V13 ed è una rielaborazione di quella Birthday IPA che il birrificio realizzò lo scorso febbraio per i festeggiamenti del proprio secondo compleanno. La ricetta prevede malto Golden Promise e avena (14%), destrosio monodirato, estratto di luppolo Pilgrim per l’amaro ed un massiccio dry-hopping (25 grammi/litro) di Citra (BBC) e Mosaic; i llievito è un mix (50/50) di due ceppi, ovvero WSP4000 e 4786 di JW Lees. Chi segue il beer-rating/Ratebeer sappia che questa DIPA V13 si trova attualmente al 7 posto tra le migliori Double IPA al mondo grazie al significativo giudizio di ben 116 utenti… ma è già incalzata dalla sua nuova versione chiamata NW DIPA Citra, uscita a inizio maggio e spinta da 80 votanti sino alla posizione numero 9.
Il suo colore rispetto il protocollo New England/Cloudy/Juicy: nel bicchiere è un torbido succo di frutta arancione ma la schiuma biancastra, anche se un po’ scomposta, mostra una persistenza piuttosto buona per questo tipo di birre. Questa lattina è nata lo scorso 28 marzo e il birrificio la fa scadere a fine maggio: appena due mesi di vita per un tipo di birre che – per stessa ammissione di chi la produce – hanno un rapido decadimento anche se tenute sempre in frigorifero e andrebbero consumate entro le prime quattro settimane. A voler essere rompiscatole in effetti l’aroma non è già più un trionfo di freschezza ma regala comunque un bouquet gradevolissimo, succoso ed intenso anche se non particolarmente complesso: mango e ananas in primo piano, arancia e bubblegum nelle retrovie con un buon livello di eleganza per lo stile. La sensazione palatale è gradevolissima: è una DIPA da 9 gradi poco carbonata che scorre morbida e veloce, nascondendo il suo tenore alcolico in modo mostruoso. Il gusto non prevede malti (c’è giusto un velo di pane in sottofondo) e si rivela di fatto un succo di frutta basato sull’accoppiata mango-ananas e lasciando al bevitore la fantasia d’indovinare altre divagazioni del tema tropicale. L’amaro è a livelli davvero molto bassi, compare solo un tocco erbaceo/resinoso a fine corsa che, probabilmente grazie alla sua modesta intensità, non provoca quel “raschiamento” che ho riscontrato in altre New England IPA europee. Secchissima, si beve quasi come una session beer e garantendone lo stesso effetto dissetante e rinfrescante.
Ha perso già un po’ di smalto ma la DIPA V13 di Cloudwater è probabilmente la miglior esponente di questo sottostile che mi sia capitato di bere sino ad ora: non priva di una certa eleganza, è una birra/ succo tropicale che si beve quasi con la facilità di un succo tropicale.
Formato: 44 cl., alc. 9%, imbott. 28/03/2017, scad. 05/2017, prezzo indicative 10.00 Euro (beershop)NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.
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