Il birrificio YellowBelly è abbastanza giovane (2015) ma alle sue spalle c’è una storia molto più lunga. Era il 1965 quando Simon Lambert acquistò un pub nel centro di Wexford, capoluogo dell’omonima contea dell’Irlanda sud-orientale: alla sua morte, avvenuta nel 2006, gli sono succeduti i figli Nicky e Simon, oggi gestori del Simon Lambert & Sons Pub & Restaurant. La crisi economica del 2008 impose dei cambiamenti per cercare di sopravvivere: “dovevamo differenziarci dagli altri 20 pub di Wexford che servivano tutti le stesse sette birre. Iniziammo a proporre birre d’importazione, in Irlanda non c’erano molti birrifici artigianali e così nel 2009 prendemmo la decisione di provare a fare noi la birra” ricorda Nicky. Dopo un periodo di formazione, nel pub entra in funzione un impiantino da 200 litri che viene affidato al birraio Declan Nixon, che ricorda: "era una specie di kit da hombrewer su grossa scala e dopo un po’ di tempo mi trovai costretto a fare due cotte al giorno per cinque giorni alla settimana se volevamo soddisfare tutte le richieste”. Nel seminterrato viene allora installato un nuovo impianto da 1000 litri che serve al lancio commerciale del marchio YellowBelly, avvenuto all’inizio del 2016; ma in cantiere c’è già un trasloco, completato l’anno successivo, nel nuovo sito produttivo da 1000 metri quadri sulle colline (Whiterock Hill) che circondano Wexford, dove trova posto un impianto personalizzato proveniente da BrewDog e una Wild Goose Canning Line. Il potenziale è di circa 1000 ettolitri a settimana.
A YellowBelly non interessa la tradizione irlandese ricca di Red Ale e Stout: la parola d’ordine è innovare, stare al passo coi tempi con focus sulle birre luppolate ed acide, produzioni stagionali e occasionali. Il progetto è ambizioso: “vogliamo creare un brand internazionale, i nostri concorrenti sono produttori craft globali come Sierra Nevada, Stone, Founders (sic). Per farci notare non potevamo raccontare che eravamo solamente un pub che produceva birra: dovevamo avere una storia che potesse interessare la gente. Così ci siamo rivolti all’illustratore Paul Reck (oggi Creative Director per YellowBelly) che ha creato per noi i personaggi che vedete su lattine e grafiche”.
E’ lui l'ideatore delle belle etichette, i fumetti che potete scaricare e leggere dal sito del birrificio e anche del video gioco on line chiamato Hop Rocket.
Le birre.
Come detto YellowBelly ama sperimentale e seguire le tendenze della craft beer, la cui parola d’ordine sembra essere una sola: novità. Ma c'è anche una serie di birre disponibili tutto l'anno, delle quali ne andiamo ad assaggiare due.
Partiamo dalla Citra Pale Ale (4.8%) nella quale è ovviamente protagonista l’omonimo luppolo americano assieme a malti di provenienza tedesca e belga. Dorata, leggermente velata, bella schiuma candida, cremosa e compatta. L’aroma ha buona intensità ed espressività (fiori bianchi, ananas, pompelmo, arancia e limone) ma pulizia ed eleganza potrebbero essere migliori. La bevuta è snella e leggera, scorre come dovrebbe sempre fare una “quasi” session beer: pane, crackers e frutta a pasta gialla sono gli elementi complementari a quegli agrumi che ovviamente dominano questa Citra Pale Ale. Finisce secca con un amaro di media intensità e lunghezza nel quale convivono note zesty ed erbacee. Bel carattere fruttato, buona intensità, bevuta che risulta piacevole e gradevole, poco impegnativa, rinfrescante: sebbene ci sia spazio per migliorare definizione ed eleganza, il livello mi sembra piuttosto buono.
Mi ha convinto meno la IPA chiamata Hopped In Space (5.9%): malti Red X, Vienna, Monaco, Pilsner e Cara Clair, luppolo Mandarina in whirlpool, Simcoe e Summit in un generoso dry-hopping.
Il suo colore è tra l’arancio e l’ambrato, le note dank, resinose e di pompelmo dell’aroma annunciano un profilo “classico” e non contemporaneo. In sottofondo qualche nota più dolce che richiama la frutta tropicale; bene intensità e pulizia, migliorabili eleganza e ampiezza del bouquet olfattivo. Al palato arrivano leggere note biscottate e caramellate subito incalzate da frutta tropicale. E’ una IPA che parte bene con il giusto livello d’intensità ma che si perde un po’ per strada, spegnendosi quando sarebbe il momento d’accendersi: la trilogia amara finale pompelmo/resinoso/vegetale non morde e non spinge come dovrebbe. La bevuta fa qualche passo indietro rispetto all’aroma: meno intensa, meno pulita e meno definita. Insomma, questa lattina di Hopped in Space non riesce proprio a decollare nello spazio e s’accontenta di viaggiare a velocità di crociera. Peccato.
Nel dettaglio: Citra Pale Ale, formato 44 cl., alc. 4,8%, lotto CBK62, scad. 01/06/2019
Hopped In Space, format 44 cl., alc. 5.9%, lotto CBK59, scad. 01/05/2019
NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio
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