Anche l’Irlanda sta oggi vivendo la sua craft beer revolution e s’intravede qualche spiraglio di luce in un mercato dominato da troppo tempo dai marchi della Diageo (Guinness, Smithwicks, Harp) e della Heineken (Murphy's). Alla metà degli anni ’80 i cugini Liam La Hart e Oliver Hughes lanciarono la loro piccola sfida aprendo il microbirrificio Dempsey’s Ale che tuttavia non ebbe grande fortuna; nel 1989 rieccoli tentare la sorte con la ristrutturazione di un dilapidato edificio a Bray, County Wicklow, dove aprirono un “pub” (con sedici camere) focalizzato principalmente su birre d’importazione: nasceva il Porterhouse Inn.
Era la prima tappa di un successo destinato a crescere in fretta: nel 1996 venne inaugurato in centro a Dublino il primo Porterhouse Temple Bar, nel quale vennero proposte per la prima volta anche le birre autoprodotte. Quattro anni dopo arrivarono la filiale di Covent Garden a Londra ed una seconda Location a Dublino (Parliament Street); per alimentare tutte quelle spine era necessario aumentare la capacità e a questo scopo fu inaugurata la sede produttiva di Ballycoolin, nei dintorni della capitale. La prematura scomparsa (2016) di Oliver Hughes non ha fermato la crescita di quello che è oggi un franchising da oltre venti milioni di euro di fatturato: ad affiancare Liam La Hart c’è Elliot, figlio di Oliver, mentre il birrificio è da sempre nella mani dell’esperto Peter Mosley. Oltre alla location originale di Bray, Porterhouse oggi gestisce quattro pub a Dublino, uno a Londra, uno a Manhattan (New York), un paio di club notturni, tre tapas bar.
Come crescere ancora? Inaugurando (aprile 2018) un nuovo birrificio da sei milioni di sterline: “eravamo privi di flessibilità, quando produci 10.000 ettolitri l’anno e 7.000 sono richiesti dai tuoi bar e pub non hai molto spazio di manovra”, ammette Elliot Hughes. Il nuovo impianto da 100 ettolitri, che si trova nella periferia nord-ovest di Dublino a sei chilometri dal Temple Bar, consentirà di triplicare la produzione arrivando a circa 30.000 ettolitri l’anno: “era assolutamente necessario. Siamo forti a Dublino, ma al di fuori della capitale la nostra visibilità cala in modo drammatico: la gente non ci conosce perché sino ad ora non siamo stati in grado di esportare con regolarità”.
Le birre.
Flessibilità è effettivamente un concetto fondamentale se si vuole essere alla moda e sempre sul pezzo: il mercato richiede continuamente novità, birre stagionali, one shot, collaborazioni. Ancora meglio se in lattina: è questo il formato scelto da Porterhouse per la loro prima birra collaborativa realizzata assieme al birrificio Hillstown di Randlestown (Antrim).
Hazy Border è, come il nome suggerisce, una New England IPA realizzata con malto Maris Otter, avena, maltodestrine, frumento maltato, luppoli Aurora, Amarillo, Citra e Simcoe, lievito Lallemand New England. Il suo colore è arancio chiaro e velato ma abbastanza distante dagli estremi hazy di alcune NEIPA: l’aroma è discretamente intenso ma abbastanza carente in pulizia e definizione. Il risultato è un agglomerato non ben definibile che comunque veicola profumi tropicaleggianti e di agrumi. Le cose non migliorano di molto al palato, dove la componente “juicy/tropicale” è relegata in secondo piano dai malti (biscotto, frutta secca); il mouthfeel è gradevole, morbido e la birra scorre con quella velocità che una IPA da 4.4% dovrebbe avere. Da dimenticare invece il finale, sgraziato e astringente, con un amaro terroso che per fortuna ha breve intensità e durata; il risultato è bevibile ma ben lontano da quello che dovrebbe essere una Neipa o qualcosa di simile. Lattina con un mese di vita alle spalle nella quale tuttavia la luppolatura sembra aver già perso tutto il suo smalto, ammesso che ne avesse mai avuto.
Da un tentativo di seguire le mode passiamo ad un classico: Celebration, imperial stout che ci riporta nella Dublino più classica a colpi di malti Pale, Black, Crystal, orzo tostato, orzo in fiocchi, luppoli Galena, Nugget ed E.K. Goldings. Il contenuto alcolico di questa birra è andato man mano riducendosi nel corso degli anni: dal 10% della prima edizione del 2006 si è arrivati ai 6.5% di quella attuale.
E’ un bel bicchiere colorato di ebano scuro e sormontato da un cremoso cappello di schiuma compatta e dalla buona persistenza. Il naso è pulito e abbastanza elegante: orzo tostato, fondi di caffè, tabacco e cenere, qualche suggestione di cacao amaro. Non ci sono densità né particolari concessioni cremose al palato: è una birra che punta alla facilità di scorrimento e riesce nel suo intento senza tuttavia sacrificare l’intensità dei sapori. Una bevuta nera e amara che prosegue il suo percorso in linea retta, ricca di torrefatto, fondi di caffè, tabacco qualche filo di fumo, cioccolato fondente: un velo di caramello brunito e l’acidità dei malti scuri cercano di stemperare un po’ il carattere di una birra “sporca” nella quale sembrano rivivere idealmente i fasti del diciottesimo secolo, quando le porter/stout erano le birre più popolari nel Regno Unito. Se pensate che una Imperial Stout debba per forza avere un ABV in doppia cifra per essere degna di tale nome, questa e quella di Samuel Smith esistono apposta per farvi cambiare idea. Altro che Guinness: è la Celebration di Porterhouse che dovrebbe essere eletta a simbolo di Dublino.
Nel dettaglio :
Hazy Border, formato 44 cl., alc. 4.4%, scad. 01/12/2018, prezzo indicativo 5.50 Euro (beershop, Irlanda)
Celebration Stout, formato 33 cl., alc. 6.5%, scad. 01/09/2019, prezzo indicativo 2.30 Euro (beershop, Irlanda)
NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio
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