La Black Market Brewing Co. viene fondata da Kevin Dyer a Temecula, nell'entroterra della California del sud, un centinaio di chilometri a nord di San Diego. L'assolata cittadina californiana, 100.000 abitanti circa, ospita una decina di birrifici/brewpub tra i quali anche due succursali di Ballast Point e Karl Strauss di San Diego.
Kevin Dyer è nato a Chico, all'opposto settentrionale dello stato americano, ed è ovviamente cresciuto ammirando la crescita del birrificio Sierra Nevada, uno dei pionieri della craft beer revolution, che lì è stato fondato. Dyer non ha una lunga esperienza con l'homebrewing ma decide ugualmente di lasciare il suo lavoro come dipendente di una multinazionale per mettersi in proprio ed aprire nel 2009 la Black Market. L'impianto da 15 barili viene affidato all'esperto birraio Shaun McBride: a lui il compito di rinfrescare le accaldate giornate estive di Temecula con una Hefeweizen, birra con la quale Black Market debutta e birra che Dyer aveva da sempre prodotto nel proprio garage. La line-up viene poi completata con le classiche luppolate californiane, con imperial stout, con gli invecchiamenti in botte e, di recente, con le prime birre acide.
Il nome Black Market rimanda ovviamente a quel "mercato nero", molto attivo a Temecula, che costituiva l'unica fonte di approvvigionamento negli anni del Proibizionismo americano; il bel logo del birrificio è stato disegnato da Randy Mosher, l'esperto autore di Tasting Beer (in italiano "Degustare le birre"), un libro che vi consiglio assolutamente di leggere se non l'avete già fatto. Le etichette sono invece opera di Ian Law di Chicago.
La birra.
Cascade, Centennial, Citra, Columbus e Mosaic sono i luppoli selezionati per la ricetta dell'Aftermath IPA che viene prodotta tutto l'anno da Black Market; i malti sono Pale e Monaco. Bella la grafica dell'etichetta, con un minaccioso fungo di un'esplosione nucleare sullo sfondo e alcuni superstiti, quasi zombie, che in primo piano afferrano delle casse di birre dal rimorchio di un camion. Meno bene il fatto che non ci sia verso di risalire alla data di produzione di questa lattina.
Il suo colore è tipicamente West Coast, oro carico con sfumature arancio, leggermente velato, ed una compatta e cremosa testa di schiuma biancastra. L'aroma purtroppo non è un manifesto di freschezza e d'intensità: c'è una discreta presenza di pompelmo e aghi di pino, mentre la frutta tropicale latita e quel poco che c'è (ananas, mango) richiama più la marmellata che la frutta fresca. La sensazione palatale è invece ottima, con una presenza morbida ma "ricca" per un contenuto alcolico tutto sommato contenuto per gli standard statunitensi: poche bollicine, corpo medio. Il problema è che il gusto ricalca l'aroma nell'assenza di freschezza e di fragranza, caratteristiche essenziali quando si parla di IPA. La base maltata scivola nel miele con accenni biscottati ed è subito incalzata dall'amaro che sostituisce la resina pungente e "pepata" con stanche sensazioni vegetali che appesantiscono la bevuta ad ogni sorso; colpisce l'assenza della parte fruttata e "succosa", quasi completamente svanita e rimpiazzata da un lieve tocco di marmellata. Non lasciatevi però spaventare dalla descrizione poco entusiasta che ne ho appena fatto: la birra si beve, ci mancherebbe altro, con discreto piacere, ma è ovviamente completamente diversa da come era in origine. Il viaggio oceanico ed il caldo estivo hanno avuto il sopravvento: un rischio purtroppo da tenere sempre in considerazione al momento dell'acquisto di queste IPA che arrivano da così lontano.
Formato: 35.5 cl., alc. 5.8%. IBU 44, 4.50 Euro (beershop, Italia).
NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.
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