Prima del proibizionismo la città di New York (in particolare il quartiere di Brooklyn) era uno dei principali centri di produzione della birra degli Stati Uniti, contribuendo al 10% dell’intera produzione nazionale; dei settanta birrifici operativi ne sopravvissero 9, ma nel secondo dopoguerra la Grande Mela ne (ri)contava già 55, numero che è andato poi riducendosi sino ad azzerarsi nel 1976, con la chiusura della Bushwick Brewery, uno dei principali produttori di tutti gli Stati Uniti dell’era pre-proibizionista.
E’ stata necessaria un’attesa di venti anni per assistere all’apertura a Williamsburg nel 1996 della Brooklyn Brewery, operativa già dal 1987 come beerfirm; la Brooklyn continua a produrre oggi soltanto il 20% della propria birra a New York, appaltando il resto altrove. Per avere il primo microbirrificio completamente newyorkese bisogna passare al 2004, quando Andrew Bronstein e Shane Welch fondano la Sixpoint Brewery in un abbandonato edificio di Red Hook, un sobborgo di Brooklyn.
I due si conoscono all’Università del Wisconsin: è Welch a dedicarsi con passione all’homebrewing mentre Bronstein, cresciuto a Manhattan, è riuscito a recuperare i finanziamenti necessari per l’acquisto degli impianti di seconda mano; si dice che Sixpoint abbia prodotto la sua prima birra proprio nel giorno del ringraziamento del 2004. Sino a giugno 2011 Sixpoint ha prodotto solamente fusti, saturando completamente la propria capacità produttiva; dopo aver valutato le possibilità di espandersi all’interno dei locali di 40 Van Dyke Street a Brooklyn (650 metri quadrati circa) Bronstein e Shane Welch hanno invece optato per appaltare una parte della produzione di fusti e di tutte le nuove lattine presso la Lion Brewery di Wilkes-Barre, Pennsylvania. Un cambiamento necessario per far fronte rapidamente all’aumento di richieste dal mercato, anche se ha comportato - come per la Brooklyn Brewery - lo spostamento lontano da New York della maggior parte della produzione; da allora Sixpoint ha più volte accennato ad ulteriori piani di espansione che però al momento non sono ancora stati ufficializzati: nel frattempo le lattine di Sixpoint vengono distribuite in diversi stati americani e, per la prima volta in assoluto, a giugno sono arrivate anche in Italia.
La birra.
Resin è una massiccia Double IPA (9.1%) che viene prodotta da Sixpoint sin dall’anno dell'esordio, il 2004: la ricetta è stata modificata nel corso del tempo e si basa su un mix di sei diverse varietà di luppolo che in origine erano Columbus, Simcoe, Amarillo, Centennial, Cascade e Chinook. La versione nella stretta e affusolata lattina che ricorda quelle degli Energy Drink debutta a febbraio 2012 in un conveniente “4 pack” al prezzo consigliato di 8.99 dollari + tasse. Il nome è ovviamente un tributo a quella caratteristica che alcuni varietà di luppolo impartiscono alla birra; la lattina, di colore verde, risulta perfettamente coerente.
Chi legge il blog con regolarità conosce i miei timori sulle birre luppolate che arrivano dall’altra parte dell’oceano; nella migliore delle ipotesi sono birre che hanno almeno due/tre mesi di vita sulle spalle. E il tempo non è l’unico fattore di rischio per valutarne l'acquisto: siamo nel mezzo dell'estate, e in Italia le temperature sono molto poco amiche della birra, che ama il fresco. Basta che nella catena distributiva la birra prenda un colpo di calore e la frittata è fatta. Con questo non dico che non si possano bere buone IPA americane importate; sul blog trovate parecchi esempi piuttosto soddisfacenti. Dico solo che avrei preferito l'arrivo delle Sixpoint, peraltro "inlattinate" alla fine dello scorso aprile (neppure tre mesi di viaggio, un buon risultato), in autunno inoltrato o in primavera.
Nel bicchiere Resin presenta tutte le possibili sfumature che spaziano tra il dorato e l'arancio; è leggermente velata e forma una testa di schiuma bianca un po' scomposta e leggermente "saponosa", anche se dall'ottima persistenza. Il naso non è purtroppo un trionfo d'intensità e neppure di freschezza: ci sono ovviamente il resinoso e gli aghi di pino promessi dal nome, c'è un accenno di pompelmo e di quel carattere dank; anche i malti si fanno sentire con una lieve presenza caramellata e biscottata. La sensazione palatale è invece sorprendentemente docile, per una Double IPA il cui contenuto alcolico sfiora la doppia cifra: corpo tra il medio ed il pieno, poche bollicine, mouthfeel morbido e gradevole, con una buona scorrevolezza. Il gusto ha solide base maltate (caramello e biscotto, accenni di miele) e non fa molte concessioni alla frutta, se non un accenno di arancia candita, forse marmellata: la componente amaro resinosa inizialmente fa un po' fatica a recitare il ruolo di protagonista, risultando quasi "soffocata" dai malti. Bisogna avere un po' di pazienza ed attendere il retrogusto e la sua lunga scia amara, intensa e dominante, ricca di pungente resina e terra. L'alcool è molto ben controllato, presentando il conto solo alla fine: una Double IPA che mi sembra aver sofferto il viaggio più del dovuto, con la luppolatura sottotono per la maggior parte della bevuta che riesce a riscattarsi solo in extremis, risultando buona ma certamente non memorabile.
La seconda Sixpoint si chiama Puff ed è stata commercializzata per la prima volta negli Stati Uniti alla metà dello scorso maggio, arrivando sorprendentemente anche da noi. Si tratta della versione non filtrata della Resin, con l'ABV leggermente elevato a 9.8%; molto vicino ad un'altra Double/Triple IPA di Sixpoint, chiamata Hi-Res (10.5%) che rappresenta una versione potenziata della Resin stessa. Se il termine "non filtrato" vi suona obsoleto, siete liberi di utilizzare il termine "cloudy" che tanto va di moda adesso: probabile che Sixpoint abbia deciso di sfruttare la popolarità che queste IPA opalescenti prodotte nel New England stanno avendo in questo periodo. Il nome scelto, Puff (nuvola) sembra confermare.
Nel bicchiere è di colore arancio opalescente, anche se non al livello di un succo di frutta, con qualche riflesso dorato: la schiuma è biancastra e cremosa, più compatta rispetto a quella della Resin. Anche l'aroma è nettamente migliore rispetto alla sorella filtrata, sia per quel che riguarda l'intensità che sopratutto per la fragranza, ancora accettabile. Non è un'esplosione di profumi ma c'è comunque un gradevole bouquet di pompelmo, frutta tropicale (mango, ananas) e ovviamente resina/aghi di pino, una delicata speziatura. Al palato vale quanto detto per la Resin: ottima sensazione tattile e morbidezza, poche bollicine. Il gusto rappresenta un ulteriore passo in avanti rispetto al naso: la base maltata è percepibile (miele, lieve biscotto) ma lascia subito il palcoscenico al ricco fruttato tropicale e al dolce della polpa d'arancia. L'amaro segue a ruota, con le sue pungenti note resinose, a completare una bevuta tutto sommato bilanciata nel suo DNA amaro. L'alcool rimane subdolamente nelle retrovie, consentendo un ritmo di bevuta pericoloso per una birra che sfiora i 10 gradi alcolici in percentuale e fornendo un po' di calore solamente nel retrogusto, accompagnando resina e frutta tropicale. Double IPA muscolosa e potente, sia nella componente succosa/fruttata che in quella amara/vegetale: ottima pulizia e, con tutte le attenuanti possibili dovute all'attraversata oceanica estiva, sicuramente da provare se vi capita a tiro.
Certo, resta come al solito la curiosità di sapere come sarebbero entrambe nella loro terra d'origine a poche settimane dalla messa in lattina, ma per questo l'unica risposta è l'acquisto di un biglietto aereo. Nel dettaglio:
Resin, formato 35.5 cl., alc. 9.1%, IBU 103, lotto 1524 (aprile 2016), scad. 06/11/2016, 5.00 Euro.
Puff, formato 35.5 cl., alc. 9.8%. IBU 108, lotto 2347 (aprile 2016), scad. 24/08/2016. 5.50 Euro.
NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.
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