Prima di parlare della birra sono solito tracciare un breve profilo del birrificio ma oggi sarà diverso, perché la bottiglia è molto più importante di chi la produce, nella fattispecie il birrificio Harvey fondato nel 1790 da John Harvey a Lewes, Sussex, Inghilterra: è ancora indipendente e i discendenti del fondatore (settima generazione) fanno ancora parte del consiglio direttivo.
Parliamo della nascita delle Russian Imperial Stout ed il viaggio a ritroso nel tempo non può che avvenire in compagnia
dello storico Martyn Cornell. Nel diciottesimo e diciannovesimo secolo il birrificio Anchor, di proprietà della Barclay Perkins & Co, era uno dei maggior produttori inglesi di Porter, la birra della classe operaia e ne realizzava anche una versione “extra strong” che, almeno a partire dal 1790, veniva esportata nei paesi baltici ed era molto apprezzata alla corte dello zar a San Pietroburgo: documenti storici testimoniano che nel 1818 ne furono esportate in Russia quasi 214.000 bottiglie. Il commercio era a quel tempo dominato dalla ditta A Le Coq & Co, gestita da Albert Johann Ludwig Coq, che la letteratura solitamente identifica come belga: Cornwell ha invece scoperto che era un prussiano rifugiato in Francia. La famiglia Le Coq era arrivata in Inghilterra nel 1830 iniziando in un primo momento il commercio di vino per poi espanderlo alla birra e aveva commissionato alla Barclay Perkins la produzione della A Le Coq Imperial Extra Double Stout.
Nel 1881 Albert si ritirò dagli affari lasciando la ditta in mano al socio Oscar Hyde Sillem, anch’egli di origine tedesca. Nel 1895 Sillem inviò il figlio Oscar a San Pietroburgo per capire il motivo dell’improvviso declino nelle vendite: i dazi doganali erano aumentati e le ferrovie russe avevano rincarato le tariffe del trasporto, rendendo così la birra molto più costosa per i clienti che si erano spostati su alternative più economiche. Ma Sillem scoprì anche un enorme magazzino a San Pietroburgo pieno di bottiglie contraffatte di Imperial Extra Double Stout prodotte da birrifici locali: la sua denuncia alle autorità cadde però nel vuoto. Per recuperare il terreno perduto i Sillem decisero di spostare il loro quartier generale in Russia e affittarono un magazzino a San Pietroburgo dove fu installato un impianto d’imbottigliamento: la birra non veniva più prodotta dalla Barclay Perkins ma dalla Reid & Co., sempre in Inghilterra. In parallelo cercarono un birrificio che potesse produrla in loco: con la consulenza del birraio inglese della Reid ne fu individuato uno a Dorpat, città estone oggi chiamata Tartu: l’acqua aveva caratteristiche identiche a quelle di Londra.
Il primo lotto fu realizzato nel 1913 ma, sfortunatamente per Sillem e i suoi investitori, la prima guerra mondiale era alle porte. La produzione riuscì a ripartire solamente nel 1926 senza grande successo in quanto il gusto dei bevitori si stava spostando verso le dark lager; nel 1937 la Extra Double Stout rappresentava solamente allo 0,4% dei volumi prodotti a Dorpat. Nel 1940 l’armata sovietica occupò le repubbliche baltiche prima dello scoppio della seconda guerra mondiale: il birrificio venne nazionalizzato e divenne uno dei maggiori produttori russi, ma la stout fu lentamente abbandonata. Nel 1991, con il crollo dell’Unione Sovietica, il birrificio fu privatizzato e nel 1997 fu rilevato dai finlandesi della Olvi Oy che nel 2003 cambiarono il proprio nome in A Le Coq Ltd. Il birrificio
produce tutt’ora una Imperial Extra Double Stout (7%) ma non è quella che stiamo cercando.
Nel 1869 una nave inglese con un carico di birra era affondata nel mar Baltico; nel 1974 alcuni sommozzatori raggiunsero il relitto e recuperarono alcune bottiglie che vennero consegnate alla Brewers' Society di Londra: non sappiamo
se (il beerhunter) Michael Jackson riuscì davvero ad assaggiarne una ma pubblicò la storia sulla sua World Guide to Beer del 1977. A questo punto facciamo un salto in avanti al 1998 quando l’americano Matthias Neidhart (ovvero l’importatore B. United International) amante dei classici della tradizione belga e anglosassone, legge il libro di Jackson ed ha un sogno: riportare in vita una Russian Imperial Stout autentica per poterla magari confrontare con quelle che le giovani generazioni dell’American Craft Beer Revolution stanno iniziando a produrre.
Neidhart e Jackson vanno in Estonia e ottengono il consenso per replicare la A Le Coq Imperial Extra Double Stout in Inghilterra, a condizione che a produrla sia un birrificio piccolo e indipendente. La scelta cade sul birrificio Harvey & Son: dall’Estonia però le informazioni tecniche sono lacunose e il birraio Miles Jenner di Harvey va a parlare con gli ultimi birrai inglesi che l’avevano prodotta sino agli anni ’50 alla ricerca di ulteriori dettagli produttivi. La prima cotta avviene nel 1999: dopo nove mesi di maturazione le bottiglie con il tappo di sughero vengono spedite a New York e messe in vendita a partire da marzo 2000. L’importatore americano è entusiasta del risultato: “siamo contentissimi del suo profilo aromatico e gustativo. Ci sono anche quegli accenni aspri e acidi che speravamo davvero di trovare. Non modificate assolutamente la ricetta, lasciatela così”.
Ma dopo qualche mese, in luglio, arrivano numerose segnalazioni che i tappi in sughero di alcune bottiglie rimaste nei magazzini iniziano pericolosamente a sollevarsi e le bottiglie rischiano di esplodere. Ricorda Jenner: “eravamo molto preoccupati perché la maggior parte delle bottiglie si trovava dall’altra parte dell’oceano in un paese in cui le cause legali sono all’ordine del giorno. Ripensandoci avremmo dovuto considerare il fatto che nel periodo georgiano i birrifici, incluso Barclay Perkins, lasciavano maturare le loro birre per dodici mesi anziché per nove come abbiamo fatto noi. Dopo il primo lotto ne avevamo realizzato un altro che era ancora nei nostri fermentatori. Tutto sembrava tranquillo ma – dopo una pausa di nove mesi, come una gravidanza – notammo che un vulcano stava per eruttare. Era partita una seconda fermentazione e i serbatoi rischiavano di esplodere. Facemmo analizzare alcuni campioni e scoprimmo che nel nostro lievito proprietario era presente una piccola percentuale di Debaromyces Hansenii, lievito selvaggio stretto parente dei brettanomiceti, che dopo un periodo di latenza iniziava a lavorare”. Sistemati i problemi, e applicato un tappo a corona in aggiunta a quello in sughero, la Extra Double Stout continua ad essere prodotta da Harvey almeno una volta all’anno, tranne alcuni periodo di pausa. Il Debaromyces Hansenii è ancora presente ed è un tocco di autenticità: non ci sono infatti dubbi che le Imperial Stout del diciottesimo secolo fossero in parte fermentate con lieviti selvaggi.
La birra.
La ricetta dovrebbe prevedere malti Maris Otter (54%), un mix di Amber, Brown e Black (33%), zucchero invertito (13%), luppoli Fuggles ed East Kent Goldings del Sussex per una OG di 1106 ed un ABV finale del 9%. Dopo alcuni vintage sfortunati dei primi anni 2002, riesco finalmente a bere la Extra Double Stout giovane. Noto con piacere che quel tappo in sughero che spesso si è sbriciolato nel tentativo di aprire bottiglie più vecchie è stato definitivamente eliminato: peccato che dalle etichette sia scomparso il millesimo e che il lungo collo delle bottiglie da 275 ml sia stato accorciato.
Nel bicchiere è quasi nera, la schiuma è piccola, un po’ grossolana e poco persistente. L’aroma potrebbe essere spiazzante se ci si avvicina a questa birra senza conoscerne la storia: dominano le note selvagge e funky: cuoio, pellame, polvere, carne. In sottofondo accenni di tabacco e qualche sorprendente profumo aspro di frutti rossi. La sensazione tattile al palato è un’altra sorpresa: è l’imperial stout prodotta in Inghilterra più densa e “solida” che mi sia mai capitato d’assaggiare: quasi catrame. La bevuta è inizialmente più interessante che buona, ma per apprezzare davvero la Imperial Extra Double Stout bisogna lasciare al palato il tempo di entrare in confidenza con la birra e alla birra il tempo di respirare e di aprirsi per rivelare la sua complessità. Si riparte dal funky e dall’acido per passare gradualmente al dolce dei cosiddetti dark fruits, a richiami di vini fortificati e poi ci si tuffa quasi a capofitto nel nero profondo della liquirizia, delle tostature, del caffè, della carruba e del cioccolato fondente. In un sorso vengono condensati secoli di storia birraria e il punto d’arrivo è in un territorio contemporaneo, a noi familiare. La scia conclusiva amara è lunghissima e si porta dietro accenni terrosi e quasi resinosi.
E’ una birra che lascia inizialmente perplessi ma che alla fine risulta incredibilmente coinvolgente, interessante ed emozionante, difficile ma molto ricompensante: ad ogni sorso sembrano emergere nuove sfumature, nuovi dettagli. Una birra unica che non si dimentica e – se ve lo state chiedendo – molto buona. Non è stranamente facile da reperire nonostante il costo sia di gran lunga inferiore alle craft beers inglesi; il birrificio Harveys la vende online a cartoni ma non spedisce al di fuori del Regno Unito. Se avete un amico dall'altra parte della manica, sfruttatelo. E da quanto ne so al momento non c’è nessuno che la importi in Italia. Peccato, o forse no.
Formato 27,5 cl. alc. 9%, lotto AOL, scad. 02/2021, prezzo indicativo 4.00 sterline (beershop)
NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa lattina e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.