A molti le parole “beergeek” e “beer-rating” non diranno granchè ma sono due fenomeni con i quali chi s’interessa alla birra artigianale deve avere a che fare, volente o nolente, sia che si tratti di un professionista che di un semplice bevitore. Il beer-rating è stato capace di decretare il successo di birrifici, di birre e di stili di birra e quindi di smuovere un po’ di soldoni, soprattutto nel mercato statunitense e in quello scandinavo.
Le imperial stout sono tra le birre più amate e ricercate dai beergeeks e sono tra le birre che ottengono i voti più alti sui siti di beer-rating; fatevi un giro su Ratebeer, prendete un birrificio a caso e ordinate le sue birre per ordine di punteggio discendente. Nella maggioranza delle volte, se il birrificio produce un’imperial stout, quella birra sarà in cima alle preferenze; se non è un’imperial stout, sarà un’imperial IPA. A meno che il birrificio non produca birre acide.
Sono soprattutto le imperial stout, meglio se invecchiate in botte, che generano le file davanti agli stand dei birrifici ai festival e che danno vita ad un mercato “secondario” nel quale i prezzi delle bottiglie impennano rapidamente. Difficilmente ad un festival troverete 50 persone in fila per un assaggio di una pils; difficilmente troverete beergeeks americani accampati fuori dal birrificio sin dalla notte per riuscire ad accaparrarsi un paio di bottiglie di una bock. E’ triste se ci pensate, ma così stanno le cose.
E in Italia? Non è un mistero che gli italiani “preferiscono le bionde” e le birre scure (porter, stout, brown ales) non conquistano una grossa fetta di mercato all’interno della nicchia della birra artigianale; immagino che le imperial stout siano un’ulteriore “nicchia nella nicchia”. E’ probabile che la scarsa domanda domestica non motivi i birrifici a lavorare e a sperimentare maggiormente in questo ambito: in molti si sono buttati a produrre le New England IPA, quasi nessuno (vado a memoria) ha mai tentato di produrre una imperial stout densa e viscosa, magari invecchiandola in botti di bourbon. Una birra come BORIS The Crusher è ormai accessibile in Europa senza grosse difficoltà, basta ordinarla on-line: che nessuno abbia cercato non dico di clonarla, ma di fare qualcosa che potesse somigliarle? I maligni potrebbero dire che “non siamo semplicemente in grado di farle”. Eppure le imperial stout ci sono in Italia - alcune anche buone - ma non riescono ad arrivare al livello dei “mostri” americani o scandinavi, quelli per i quali la gente è disposta a fare la fila, quelli che generano “hype”. Non dico che per essere buona un’imperial stout debba essere necessariamente “viscosa o catramosa” e non possa essere scorrevole come quelle di Samuel Smith o di The Kernel: dico solo che i beergeeks vanno in estasi per altro. Il risultato è – giusto per fare un esempio – che nei festival europei più “cool”, come ad esempio Mikkeller Beer Celebration Copenhagen o Beavertown Extravaganza di birrifici italiani ne vengono invitati molti pochi, se non nessuno.
Il birrificio Hammer rappresenta indubbiamente una delle eccellenze del panorama brassicolo italiano, soprattutto per quel che riguarda le birra luppolate: birre come Killer Queen, Wave Runner e Mini non hanno nulla da invidiare alle analoghe produzioni di molti birrifici europei attorno ai quali si è generato parecchio hype, e farebbero ottima figura a qualsiasi festival del nostro continente. E per quel che riguarda l’imperial stout? L’etichetta della Daarbulah è stata virtualmente presente sul sito di Hammer sin dal debutto avvenuto a maggio 2015, ma ci è voluto oltre un anno per vederla in una bottiglia: il suo debutto è infatti avvenuto solo a novembre del 2016.
La birra.
Niente da dire sul suo aspetto: il bicchiere si veste di un nero mantello sul quale si forma una bella testa di schiuma cremosa e compatta, dalla buona persistenza. L’aroma non è particolarmente intenso ma si avvertono ugualmente profumi di fruit cake e toffee, uvetta e prugna; in secondo piano caffè, lievi tostature, qualche nota di carne leggermente affumicata. Al palato non ci sono velleità edonistiche: si privilegia la scorrevolezza, con un corpo medio ed una consistenza leggera, né viscosa né oleosa. La bevuta mostra una buona intensità ma non rispetta gli elevati standard di pulizia che ho sempre trovato nelle birre di Hammer: c’è un generale carattere torrefatto, un po’ confuso, sostenuto dal dolce del caramello e della frutta sotto spirito. Suggestioni di liquirizia, caffè e cioccolato fanno ogni tanto capolino in una imperial stout bilanciata ma poco precisa: l’alcool è molto ben gestito e apporta quel calore atteso e necessario ad accompagnare le tostature e frutta sotto spirito nel finale di media durata. Una birra discreta ma piuttosto deludente, soprattutto se contestualizzata nella gamma di un birrificio che mi ha abituato a ben altri livelli: mi riferisco in primis alla pulizia ed alla definizione dei singoli elementi, ma in generale anche la Daarbulah si aggiunge alla lista delle imperial stout italiane non molto corpose e non molto viscose, da bere anziché da sorseggiare in tutta tranquillità. Ed è una scelta che va bene se il mercato di riferimento è quello nostrano, ma i grandi palcoscenici europei richiedono ben altro.
Da quanto ho capito ho assaggiato una bottiglia del primo lotto di Daarbulah, al quale ne sono seguiti altri che hanno apportato alcuni correttivi: il prossimo weekend al Dark Fest organizzato da Hammer avrete invece l’occasione di assaggiare la Daarbulah 2.0, una versione più alcolica (10.5%) e corposa. E prima o poi la troverete anche sulle pagine del blog.
Formato: 33 cl., alc. 9%, IBU 60, lotto 2798, imbott. 11/2016, scad. 30/11/2017.NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.
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