Il post di oggi sarà un po’ diverso dal solito e magari non dirà molto a chi da anni è appassionato di birra “buona” o che si definisce “beergeek”; consideratela quindi come una “guida agli acquisti” per i meno esperti o per chi si è avvicinato da poco a questo mondo.
L’occasione mi è stata data da una lattina di Swami’s, un capostipite delle West Coast IPA prodotta da Pizza Port, storico/mitico brewpub della contea di San Diego aperto nel 1987 (nel 1992 la prima birra autoprodotta) a Solana Beach da Vince Marsaglia e sua sorella Gina. La loro storia
ve l’avevo già racconta qui, fresco di visita ad una delle loro location. Le loro birre sono state disponibili solo in fusto
sino a gennaio 2014 quando hanno debuttato le lattine di Swami’s IPA, Ponto Pale Ale e Chronic Amber Ale, realizzate su una linea fornita dagli italiani Parma) del CFT Group.
Che Pizza Port faccia delle West Coast IPA fantastiche è fuori discussione, un dato di fatto oggettivo. Il fatto che sino al 2014 fosse possibile berle solamente prendendo un aereo e recandosi in California, era al tempo stesso un grosso vincolo ma anche una garanzia di qualità, di trovarle quasi sempre perfette. Qualche fortunato era riuscito ad assaggiarle a Roma a dicembre 2012 e a gennaio 2014
nel corso di due Tap Takeover alla Brasserie 4:20, grazie alla “lucida follia” di Alex Liberati che aveva fatto pervenire via aerea i fusti da San Diego.
Le lattine di Pizza Port, inizialmente distribuite solo nella California del sud, hanno lentamente raggiunto altri stati americani e successivamente anche l’Europa. E qui nasce la domanda che un bevitore “consapevole” si dovrebbe porre, e non solo nei confronti di Pizza Port: ha senso acquistare queste birre che dovrebbero essere bevute il più presto possibile? Sarebbe semplice rispondere “no” e i birrifici stessi dovrebbero rifiutarsi (come qualcuno fa) di mandare le loro birre in giro per il mondo invece di vantarsi “di aver scelto l’importatore giusto” che garantisce il trasporto refrigerato. Al di là del container refrigerato che attraversa l’oceano, sappiamo bene che non è possibile garantire la refrigerazione per tutti i passaggi di mano della filiera che va dal birrificio al consumatore finale.
D’altro canto, il mercato europeo è avido di birre americane, soprattutto di IPA e Imperial IPA, nonostante ci sarebbero molti altri stili meno delicati e meno luppolati che meglio si presterebbero ad attraversare l’oceano. E ovviamente andare a berle negli Stati Uniti rappresenta un impegno in termini di tempo e di costo che non si può sempre affrontare. Lo stesso discorso si potrebbe applicare anche ad altre birre la cui spedizione al di fuori dal luogo di nascita crea problemi più o meno seri (cfr. la Franconia, tanto per fare un esempio), ma restiamo sul pezzo “IPA”.
E’ allora possibile bere una buona IPA/IIPA americana anche a migliaia di chilometri di distanza?
Non voglio tirarmela, ma prima di essere stato negli Stati Uniti (2012) pensavo proprio di sì, anche se il banchetto dell'American Brewers Association al Salone del Gusto 2010 aveva iniziato a solleticare il mio palato con delle IPA freschissime che erano arrivate via aerea. Nei beershop acquistavo IPA americane e mi piacevano quasi tutte, tranne casi
davvero eclatanti come ad esempio questo; commettevo errori madornali, come bere in aprile (!)
una “fresh hop” americana: che senso ha bere una birra prodotta con il luppolo fresco appena raccolto, sei o sette mesi dopo? Ma soprattutto, che senso ha importarla in Europa? Il discorso è prettamente commerciale: qualsiasi IPA americana si vende, soprattutto a chi (come me, a quel tempo) non era consapevole di cosa ti sarebbe arrivato nel bicchiere perché non aveva molti altri termini di paragone.
Quindi, se siete stati negli USA e le volete bere quasi come quelle che avete bevuto in loco la risposta è ovviamente no, ve lo potete scordare. Se invece non ci siete mai andati, e non avete ricordi che vi rendono difficile la vita, la risposta è “si”, virgolette d'obbligo in quanto vanno fatte alcune considerazioni:
- nella migliore delle ipotesi si tratta di birre che hanno almeno due/tre mesi di vita alle spalle; questi sono i tempi tecnici per l’importazione dagli USA; di birre più fresche io non ne ho mai trovate. I tre mesi, benché situazione non ideale, non sarebbero in verità neppure un problema così drammatico: è come hanno passato quei tre mesi che fa la differenza.
- è vero che non ci sono birrifici italiani (europei) capaci di fare un IPA allo stesso livello dei migliori esemplari americani, ma è altrettanto vero che sette/otto volte su dieci è migliore una IPA italiana fatta da poche settimane di una “blasonata” IPA che ha già quattro o sei mesi di vita e che ha subito diversi sballottamenti e sbalzi climatici. Prima di pensare alle “Born in the USA”, guardatevi attorno: se avete un birrificio a pochi chilometri di distanza, approfittatene per provare com’è una IPA davvero fresca e poi fate il confronto. Se il confronto non regge - passatemi la battuta - cambiate il birrificio.
Io stesso cerco di evitare l’acquisto di IPA americane, ma ogni tanto cado in tentazione e la maggior parte delle volte me ne pento. Ecco ad esempio una serie di birre che avrei dovuto lasciare sullo scaffale, risparmiando i soldi:
Smuttynose Rhye IPA,
Redhook Long Hammer IPA,
Sierra Nevada Torpedo Extra IPA,
Southern Tier 2xIPA. Intendiamoci, il mio malcontento non è verso le birre ma sul modo in cui sono arrivate nel mio bicchiere.
Il canovaccio è sempre quello, potrei quasi descriverle con il copia ed incolla: birre pesanti e stanche che hanno perso il loro equilibrio. Gli effetti del dry-hopping, i profumi pungenti di frutta fresca e le note fruttate (anche se non necessariamente succose/"juicy") che fungono una funzione fondamentale per reggere il peso dell'amaro sono i primi ad andarsene. Nella migliore delle ipotesi vi rimane la dolcezza e la pesantezza della marmellata che sostituisce la frutta fresca; nella peggiore, si passa direttamente dai malti (caramellone o miele, a seconda della scelta del birraio) ad un amaro nel quale le pungenti e quasi pepate note resinose si sono tramutate in una pesante sensazione vegetale che magari soddisfa la vostra voglia d'amaro ma non rappresenta la birra in modo veritiero. E' proprio questo il punto principale: in molti le trovano buone perché molto amare; ma una IPA non è solo amaro, è una birra che certamente si basa sui luppoli e il luppoli devono brillare, di fresco e di pulito: se ciò non avviene non state bevendo una ottima IPA, anche se vi piace quello che bevete. E chissenefrega, direte voi, finché mi piace.
Ma ci sono state anche delle IPA americane che mi sono davvero goduto, accettando quel piccolo “compromesso sulla freschezza” di cui parlavo prima:
Founders Dark Penance,
Toppling Goliath Golden Nugget IPA e
PseudoSue,
Bells Two Hearted Ale,
18th Street Cone Crusher, Sixpoint Puff
Che fare allora?
Questi i consigli che mi sento di dare ai meno “esperti” che vogliono acquistare le “IPA americane”: per tutti gli altri, si tratta di ovvietà già note.
- Prestate attenzione alla data d’imbottigliamento che spesso è riportata in etichetta o stampata al laser da qualche parte sulla bottiglia. Risale a più di quattro mesi fa? Lasciate perdere. Non è riportata? Non rischiate. Trovate un codice numerico incomprensibile? Date un’occhiata a questo sito, potrebbe darvi indicazioni molto utili.
- Prestate attenzione al periodo dell’anno; le birre attraverseranno anche l’oceano in un container refrigerato, ma cosa accade quando arrivano nelle mani dei corrieri, dei distributori e rivenditori? Per ovvie ragioni di costo nessuno di loro può permettersi lo stoccaggio refrigerato; nei mesi più caldi dell’anno, i cartoni di birra rischiano di restare per ore o giorni a 30 gradi nei magazzini di chi le movimenta. Evitate l’acquisto in estate e concentrateli da novembre a giugno: in questi mesi, tenendo conto dei 2-3 mesi di viaggio e di burocrazia necessari, scongiurerete qualsiasi rischio di cottura delle birre. Sarà un caso ma le birre “ancora in forma” citate sopra le ho acquistate proprio in quella finestra temporale (novembre-giugno).
- Ne va da sé, come conseguenza del punto 2, che gli acquisti per corrispondenza nei mesi più caldi dell’anno sono da evitare a prescindere dal tipo di birra che volete acquistare. Anche italiana.
- Se acquistate on-line e non potete vedere l’etichetta della birra, prima di comprare contattate il venditore per avere informazioni sulla freschezza delle birre
Se poi volete diventare (o se già lo siete) davvero dei beergeeks o dei malati di birra, potete anche
- -Monitorare i siti e gli account (facebook, instagram, twitter) dei beershop e degli importatori che poi vendono ai beershop: una delle (poche) cose utili dei social network è quella di darvi forse un’idea di quando queste birre sono arrivate in Italia. Non è la certezza sulla loro età anagrafica, ma è già una buona indicazione.
- Monitorare i siti e i social dei birrifici: spesso in Italia arrivano delle birre che vengono prodotte stagionalmente o solo una volta l’anno. I birrifici americani sono di solito molto precisi nell’annunciare al mondo la data di uscita delle proprie birre: avrete informazioni utili sull’età della birra che è arrivata in Italia.
Per i consigli qui sopra mi sto ovviamente riferendo agli acquisti di lattine e bottiglie; per il fusto al pub non vi resta che chiedere informazioni al publican o, ancora meglio, chiedere di darvi un piccolo assaggio.
Sperando che questi consigli abbastanza banali vi siano utili, concludo stappando la lattina di Swami's IPA.
La birra.
Ha venticinque anni ma non li dimostra, si potrebbe dire: nasce nel 1992 ed è ancora un punto di riferimento (o un "
sovrano", se preferite) dello stile (West Coast) American IPA. Il mix di luppoli è ovviamente stato modificato nel corso degli anni, per renderla più "attuale": la sua realizzazione è affidata al team di birrai di Pizza Port Bressi Ranch guidati da Sean Farrell e James Holloway.
Nel bicchiere la
Swami's IPA si presenta perfettamente dorata con qualche riflesso arancio, leggermente velata e sormontata da una testa di schiuma bianca abbastanza compatta e cremosa. Al naso purtroppo non c'è molta freschezza, in particolare mancano quasi del tutto quelle note fruttate (pompelmo, lieve tropicale) caratteristiche di questa birra; rimane la componente "dank", che richiama anche la resina e gli aghi di pino. Il
mouthfeel è invece perfetto, giusto equilibrio tra presenza palatale e scorrevolezza, con la giusta quantità di bollicine. Figliastro dell'aroma, anche il gusto purtroppo mette in mostra i suoi affanni dovuti all'attraversamento dell'oceano: avverto il dolce del miele, c'è quasi un accenno biscottato che accompagna (senza passare dal via, ovvero dalla frutta) al finale amaro nel cui le note pungenti di resina vanno via via scemando in una sensazione vegetale, amara e intensa ma un po' priva di vigore. Nel vuoto lasciato dalla frutta s'insinua l'alcool che anziché celarsi si fa sentire più del dovuto, ovvero esattamente quanto dichiarato in etichetta; la birra si beve, ci mancherebbe, non sto affatto affermando che sia cattiva: ma ha avuto un viaggio non troppo felice durato neppure tre mesi. Senza troppi giri di parole, è una IPA Californiana con pochissimi raggi di sole: e se voi riuscite a pensare ad una California del Sud senza sole, io non ci riesco.
Formato: 50 cl., alc. 6.8%, imbott. 16/06/2016, prezzo indicativo 6.00/7.00 Euro (beershop, Italia).