Gli Stati Uniti guardano con sempre più interesse all’Europa. Ci sono birrifici che apriranno succursali nel nostro continente con le proprie forze (Stone Brewing Co.) ed altri (Brooklyn) che per farlo si sono alleati con il “nemico” industriale. E poi c’è un’altra modalità, che è quella di far produrre (contract brewing) le proprie birre destinate al mercato europeo da birrifici europei. E’ questa la modalità scelta dalla californiana Green Flash Brewing Co., una trentina di chilometri a nord di San Diego, fondata nel 2002 da Mike e Lisa Hinkley. “E’ da tempo che spingiamo per la distribuzione della nostra West Coast IPA in Europa, ma il problema principale è stato sempre quello di farla arrivare fresca; – dice Mike – dopo aver fatto dei tentativi con alcuni importatori, ci è parso evidente che la qualità della nostra IPA che arrivava al consumatore europeo non era soddisfacente, ed il suo prezzo era quasi proibitivo. Dovevamo pensare ad una soluzione migliore”. Su questo non posso che confermare la mia esperienza di qualche hanno fa con una bottiglia di West Coast IPA in stato comatoso.
La scelta del partner europeo cade quasi automaticamente sulla belga Brasserie St-Feuillien, che aveva già collaborato con Green Flash nel 2010 per realizzare la “Bière De L’Amitié” poi seguita nel 2012 dalla Black Saison. Ecco che all’inizio dell’estate 2014 il birraio Chuck Silva si reca in Belgio per “insegnare” a Alexis Briol tutti i segreti di quella che è considerata la flagship beer di Green Flash. La buona notizia per i consumatori europei arriva però proprio nel momento in cui la ricetta di una delle IPA più rappresentative della California è stata da poco modificata. La notizia è dello scorso Marzo e va di pari passo con il rinnovo grafico al quale sono state sottoposte tutte le etichetta di Green Flash. Ma tralasciando l’estetica delle etichette, negli Stati Uniti numerosi beer aficionados non hanno preso molto bene il cambiamento di ricetta di una birra storica e molto amata.
Ma cosa è cambiato, concretamente? E’ innanzitutto aumentato il contenuto alcolico, che passa dal 7.3 al 8.1%: in etichetta è stata aggiunta la parola “double”, mentre prima si tratta solamente di una India Pale Ale. Il vero oggetto del contendere è - ovviamente – la luppolatura; la storica West Coast IPA prevedeva abbondante uso di Simcoe, Columbus, Centennial e Cascade, mentre la nuova versione aggiunge ai quattro luppoli già citati anche il gettonatissimo Citra. E’ proprio questo l’oggetto del contendere, con “l’accusa” fatta a Green Flash di seguire troppo la moda e di farsi trascinare nell’hype del Citra. La struttura della grafica delle nuove etichette fa poi sì che (casualmente ?) la parola “Citra” risulti quella più grande e più in evidenza rispetto ai nomi degli altri luppoli usati. Perché cambiare la ricetta di una birra che è stata una delle principali protagoniste del grande successo dello stile West Coast IPA, anni prima dell’invenzione del Citra? Perché non creare una IPA completamente nuova, se si voleva usare il Citra ? In aggiunta a questo, Green Flash viene “accusata” dai (fortunati) habitué statunitensi di cambiare troppo spesso: formati delle bottiglie, etichette, formato dei packs (4 o 6), indicazione della data d’imbottigliamento sostituita da quella di scadenza e poi viceversa. Ma a dire il vero un motivo per far polemica lo avremmo anche noi consumatori europei: negli USA Green Flash dà sei mesi di vita alla sua West Coast IPA, ma la sua gemella belga ne ottiene invece dodici. Perché ?
Da quanto apprendo la versione europea utilizza inoltre malti europei anziché americani.
Birra nel bicchiere, il colore è quello classico di una IPA Californiana: tra l’oro e l’arancio, leggermente velato, con un’impeccabile “testa” di schiuma bianca, fine, cremosa e molto persistente. La bottiglia in questione immagino risalga allo scorso giugno, e siamo quindi al quarto mese di vita: una freschezza ancora “accettabile” che si manifesta nell’aroma, pulito ed elegante. Pompelmo, arancio, mango e papaya dominano la scena lasciando molto in sottofondo la resina e gli aghi di pino: un aroma più piacione che muscoloso, che sembra – effettivamente - seguire la tendenza attuale che vede le IPA più “dolci” e fruttate rispetto al passato. Lo stesso può dirsi del gusto: pulizia ed equilibrio su tutto, ingresso maltato (biscotto), frutta tropicale dolce, chiusura amara non particolarmente intensa e pungente; l’alcool è molto ben nascosto, la bevuta è molto gradevole – quasi accademica - anche se non molto pungente. Chiariamoci subito: il livello è alto e se tutte le DIPA che mi arrivano nel bicchiere fossero così sarei ben contento: corpo medio, morbida e scorrevole in bocca, forse solo un pelino carente di bollicine. Ma, tralasciando la bottiglia-cadavere del 2011 i miei ricordi sono di una ottima West Coast IPA bevuta a San Diego nell’estate del 2012. Certo, sei in California per la prima volta, tutto ti sembra più bello ed il tuo metro di giudizio è un po’ sbilanciato verso l’alto. Resta il fatto che quella era una IPA ugualmente bilanciata ma con quell’accelerata finale amara che ti lascia completamente soddisfatto a fine bevuta; in questa West Coast IPA 2014 ci trovo invece molta più frutta e quasi l’intenzione di non fare troppo male al palato del bevitore. Detto questo, ben venga la possibilità di bere una birra “americana” prodotta in Europa e quindi meno maltrattata dal viaggio intercontinentale; speriamo solo che anche il prezzo risenta dei benefici della produzione continentale. Non sono riuscito a scoprire quanto costi in Belgio, ma se si potesse acquistare al prezzo di una "normale" birra belga (al di sotto dei due euro) sarebbe davvero una manna. Noi invece qui in Italia, tra importatori, distributori vari e rivenditori, restiamo coerenti con il caro-birra: pagata 5.00 Euro quella arrivata negli USA nel 2011 (erano 35.5 cl!) e pagata 5.00 Euro anche questa.
Formato: 33 cl., alc. 8.1%, IBU 95, lotto 5782 08:09, scad. 20/06/2016.
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