Il meteo certamente non la favorisce, e Portland non esercita lo stesso fascino di San Diego agli occhi del birrofilo che vuole programmare una vacanza negli Stati Uniti (anche se nei quattro giorni passati a San Diego in pieno agosto io non ho visto un solo raggio di sole, aimè ). Eppure, guardando i numeri, la cittadina dell’Oregon è a tutti gli effetti una vera e propria mecca per ogni appassionato bevitore di birra: i 58 birrifici (che diventano 89 se si considera l’intera aerea metropolitana) la rendono attualmente la città al mondo con il maggior numero di birrifici. Dal 2010 a tutt’oggi, a Portland si spendono più soldi in birra che in qualunque altra città americana: su 100 dollari spesi nel settore “Grocery” (beni di largo consumo) 39 sono stati utilizzati per acquistare “craft beer”. E se i freddi numeri non fossero sufficienti, basterebbero solo i nomi di questi birrifici per farvi pianificare subito un viaggio: Hair of the Dog, Cascade Brewing Co., Deschutes, Upright e, tra quelli che si trovano spesso in Italia, Rogue ed Alameda.
Leggendo la storia della Commons Brewery, ben descritta sul sito ufficiale, si ha un po’ la sensazione di deja-vu. Un homebrewer (Mike Wright, californiano) che nel 2009 va a bussare alla porta di qualche banca per ottenere un prestito necessario ad installare un “nano” birrificio nel proprio garage e invece trova le solite porte chiuse. E’ solo grazie ai fondi raccolti tramite una decina d’investitori privati che riesce ad acquistare l’attrezzatura necessaria e ad ottenere l’insperata autorizzazione dalle autorità della OLCC (Oregon Liquor Control Commission) ad operare commercialmente dal proprio garage.
A giugno 2010 nasce ufficialmente il birrificio Beetje - una parola fiamminga che significa appunto “piccolo”- con l’intenzione di fare soprattutto le birre che piacciono a Mike: bassa gradazione alcolica, grande facilità di bevuta, funzione “aggregante” (“Gather Round Beer”, è lo slogan scelto) e da condividere con amici e familiari, ispirate principalmente dalla tradizione belga. L’anno successivo è già il momento di ingrandirsi, passare ad un impianto da 7 barili, acquistare un’imbottigliatrice e, tramite fundraising, traslocare in uno spazio di 140 metri quadrati che a quel tempo sembrava enorme, ma che diventa rapidamente stretto: si parte a dicembre 2011, con il nuovo nome The Commons Brewery, i cui locali vengono inaugurati assieme ad una piccola tasting room. A bordo arrivano anche il birraio Sean Burke (fresco di diploma al Siebel Institute in Germania) e il commerciale Josh Grags proveniente dal beershop “The BeerMongers” di Portland.
Nel 2012 gli spazi del birrificio raddoppiano, mentre è proprio di questi giorni la notizia di un imminente trasloco in una nuova location da 1000 metri quadri dove verrà installato un nuovo impianto da 15 barili. Se data un’occhiata alla lista delle birre realizzate dalla Commons, non troverete né IPA né Double IPA; la loro produzione guarda soprattutto al Belgio (il paese d’origine della moglie di Mike) e avviene utilizzando ceppi di lievito importati dall’Europa. Il nucleo centrale è costituito da dissetanti Saison/Farmhouse Ales, alcune prodotte con lieviti selvaggi o affinate in botti; i (pochi) pezzi “forti” non sono le solite Imperial Stout ma delle Belgian Strong Ale.
Del birrificio dell’Oregon è arrivata anche in Europa qualche bottiglia: ad esempio la Urban Farmhouse Ale, una saison ispirata dalla tradizione belga che, essendo prodotta in città, prende l’appellativo di “urbana”: medaglia di bronzo alla World Beer Cup del 2012, d’argento al GABF del 2013 e, secondo la stampa locale, miglior birra del 2012 per il Portland Tribune, e del 2013 secondo il Willamette Week.
Si presenta dorata, leggermente velata, e una bella schiuma bianchissima, fine e cremosa, dalla discreta persistenza. L’aroma è pulito, e benché non brilli per intensità regala comunque un discreto bouquet di fiori bianchi, miele e crosta di pane, banana e pera, con la delicata speziatura del lievito a suggerire il pepe ed il coriandolo.
In etichetta nessun dato per provare ad indovinare l’età di questa bottiglia, che al palato non mostra una particolare fragranza o vitalità, eccezione fatta per la vivace carbonatazione e la lieve speziatura; il corpo è leggero, con una marcata acquosità a renderla molto scorrevole, dissetante e facile da bere. Leggera la base di pane e crackers, un accenno di miele, note di arancio e di banana; una birra immagino piuttosto delicata all’origine che però con il passare del tempo ha perso la maggior parte del suo carattere e dell’equilibrio. In quanto Saison non è dotata di una secchezza impeccabile, ed il palato rimane un po’ troppo in compagnia del dolce e non ne esce completamente dissetato, nonostante la gradevole nota acidula data probabilmente dall’utilizzo di frumento.
Una Saison solo discreta, arrivata in Europa un po’ corta di fiato. Ma forse la domanda giusta potrebbe essere: con quanto c’è già di buono vicino a noi, in Belgio, era davvero il caso di farla partire ?
Formato: 75 cl., alc. 5.3%, lotto e scadenza non riportati, pagata 10,34 Euro.NOTA: la descrizione della birra è basata esclusivamente sull’assaggio di questa bottiglia, e potrebbe non rispecchiare la produzione abituale del birrificio.
Nessun commento:
Posta un commento