martedì 30 settembre 2014

Baltika 6 Porter

Oggi facciamo un’incursione in territorio “nemico”, quello industriale. A San Pietroburgo iniziano nel 1978 i lavori per la costruzione di un birrificio per conto del Lenpivo, l’industria (di quella che allora si chiamava Leningrado) per la produzione di birra e di bevande non alcoliche.  La costruzione e l’inaugurazione della Пивоваренная компания "Балтика” (Baltika Brewery) viene portata a termine nel 1990, quasi alla vigilia degli eventi che un anno dopo porteranno alla storica dissoluzione dello Stato sovietico. In verità il birrificio inizia a produrre birra utilizzando i marchi Zhigulevskoye, Rizhskoye, Admiralteiskoye e Prazdnichnoye; nel 1992 inizia il processo di privatizzazione e la compagnia diviena una società per azioni regolarmente quotata in borsa. I primi azionisti sono circa duemila individui privati e ventotto società. Il marchio Baltika nasce soltanto nel 1997, con l’intenzione di creare una birra di qualità superiore: a soli due anni dalla nascita, nel birrificio viene investito nuovo denaro per installare impianti produttivi più moderni costruiti in Europa. Nel 1998 avviene il cambio di nome in Baltika Breweries, mentre il 2006 è l’anno della fusione di Baltika con altri tre produttori di birra russi: Vena, Pikra e  Yarpivo. 
L’immenso potenziale del mercato russo (91 milioni di ettolitri, dato 2011) attira l’interesse delle grandi multinazionali e nel 2008 la Carlsberg acquista l’88,86% di Baltika, arrivando al 100% nel 2012.  Oggi il gruppo Baltika consiste in dieci stabilimenti produttivi in Russia, uno in Azerbaijan, due malterie:  sono trenta i marchi prodotti, tra i quali Baltika, Nevskoe, Zatecky Gus, Arsenalnoe, Yarpivo, Bolshaya Kruzhka (King-Size Jar), Zhigulevskoe, Carlsberg, Tuborg, Kronenbourg 1664, Eve, Don, DV, Kupecheskoe (Merchant’s Beer), Samara, Sibirsky Bochonok (Siberian Cask), Uralsky Master (Urals Craftsman), Chelyabinskoe, Asahi Super Dry, Corona Extra. 
Secondo la Russian Brewers’ Union (associazione di produttori) ci sono attualmente circa 250 produttori di birra in Russia, ma l’80% del mercato è controllato da cinque grandi gruppi: Baltika Breweries (Carlsberg Group), SUN InBev, Heineken, Efes e  SABMiller Rus. Baltika si posiziona attualmente al 38%. Ma se capitate in territorio sovietico, non disperate. Qualche microbirrificio da scoprire lo potete trovare anche là, e a Mosca potete fare qualche acquisto interessante qui. Attenzione alle etichette però: difficile capire cosa state comprando se l’etichettà è scritta esclusivamente in cirillico.   
Ma torniamo agli anni ’90, quando il marchio Baltika viene commercializzato  con una gamma di birre che comprende  Baltika №0, Baltika №2 Pale, Baltika №3 Classic, Baltika №4 Dark, Baltika №5 Gold, Baltika №7 Export, Baltika №8 Wheat, Baltika №9 Extra Strong, Baltika 20 Anniversary, Baltika Cooler, Baltika n.1 LITE, Baltika Razlivnoe, Baltika München e Baltika Praha. 
Tutti prodotti industriali non particolarmente interessanti, ma c’è la Baltika #6 Porter che ha catturato la mia attenzione, visto che ottiene dei punteggi abbastanza dignitosi sui siti di beer-rating: 82 per Beer Advocate, 90 per Ratebeer. La descrizione che ne fa Baltika si allaccia ad una “antica ricetta inglese”: malti pale, caramel e black, luppolo e – dicono su Ratebeer -  sciroppo di maltosio. Ricco anche il “pedigree” di riconoscimenti industriali: argento nella categoria Strong Beer all’European Beer Star 2004, 2005 e 2006; argento all’X Beer Festival di Helsinki del 2007. Argento nella categoria Porter all’ Australian International Beer Awards del 2007  e 2008; nello stesso anno anche  l’American Brewers’ Association le conferisce un argento. Seguono il titolo di “miglior Porter del mondo” (sic!) proclamato ai World Beer Awards del 2009. Viene anche citata da Michael Jackson nel suo “Great Beer Guide: 500 Classic Brews”
Bene la teoria, ma com’è in pratica questa Baltika 6 ? Filtrata, si presenta di un luminoso e limpido color ebano scuro: la schiuma beige è compatta e cremosa, molto persistente. L’aroma offre una netta dominanza di pane nero e pumpernickel, con in sottofondo sentori di caramello e qualcosa che ricorda vagamente lo sciroppo di ciliegia.  In bocca è gradevole:  corpo tra il medio ed il leggero, bassa carbonazione, giusto compromesso tra necessità di essere scorrevole senza risultare acquosa. Ritornano le note di pane nero, di caramello e di sciroppo di ciliegia, per un gusto inizialmente parecchio dolce che sfocia poi in un finale che non si può propriamente definire amaro, ma che comunque bilancia il dolce iniziale con tostature, e sfumature che ricordano caffè e cioccolato amaro. L’alcool (7%) è molto ben nascosto e quindi non pensate a questa birra come ad un winter warmer da bere per riscaldarsi dai rigidi inverni russi.  In quanto prodotto industriale ha una buona intensità, peccato che il gusto non sia particolarmente elegante, e la sensazione è quella di sapori un po’ artificiali, e mi riferisco soprattutto a  quelle note di ciliegia che il birrificio definisce come “vinose”. Il bilancio è tutto sommato abbastanza positivo e, in mancanza di birre di qualità, potete orientarvi su questa Baltika come un’accettabile alternativa alle blande lager industriali. In più, viene anche riportata la data di produzione in etichetta: un’indicazione che tutti i cosiddetti birrifici “artigianali” dovrebbero sempre ricordarsi di mettere. 
Formato: 50 cl., alc. 7%, lotto 17/02/2014, scad. 17/02/2015, pagata 3,00 Euro (bar, Italia)  

lunedì 29 settembre 2014

Braustelle Helios Tripelbock

Si autodefiniscono Koelns kleinster und innovativster Brauerei, ovvero il birrificio più piccolo ed innovativo di Colonia: impossibile dargli torto. Del microbirrificio Braustelle vi avevo già accennato in questa (poco fortunata) occasione: è qui che produce infatti le proprie birre Freigeist, altro innovativo ma qualitativamente discutibile marchio tedesco. La città di provenienza è la patria delle Kölsch, birre ad alta fermentazione nonché prodotto IGP dal 1997,  la cui produzione è regolamentata da un documento/accordo redatto dai produttori, chiamato Kölsch Konvention, all’interno del quale non troverete però il nome di Braustelle. La loro Kölsch, chiamata Helios, non è infatti filtrata ed il suo colore torbido è al di fuori dei parametri stabiliti. 
La Gasthaus-Brauerei Braustelle viene fondata nel dicembre 2001 da Peter Esser, nel sobborgo occidentale di Colonia chiamato Ehrenfeld: Esser aveva iniziato la sua carriera come apprendista alla Brauerei zum Füchschen di Düsseldorf, per poi approfondire la propria tecnica in Baviera. Ritornato vicino a casa, ha lavorato in diversi birrifici tra Dusseldorf e Colonia (in particolare alla Brauhaus Weissbräu) prima di poter realizzare il suo sogno ed aprire un piccolo brewpub a Colonia: in centro metri quadri trovano infatti spazio sia gli impianti produttivi che la Gasthaus, dove potete bere le birre e mangiare. Negli stessi locali Esser organizza anche dei corsi periodici di homebrewing, che si tengono una volta al mese.
Dando un'occhiata all'elenco delle birre prodotte su Ratebeer vi potete rendere conto dell'atipicità di questo (micro)birrificio: di solito in Germania ci si concentra sulla produzione di pochissime birre base e qualche stagionale. Alla Braustelle invece gli esperimenti sono all'ordine del giorno: non mancano le classiche hefeweizen, weizenbock, rauch e doppelbock, che però sono affiancate da una miriade di altre produzioni: birre acide, stili anglosassoni, birre prodotte con spezie e con erbe, affinamenti in botte, incroci stilistici e chi più ne ha più ne metta. 
Ammetto di aver acquistato questa bottiglia di Helios Tripelbock in un beershop di Monaco di Baviera senza saperne nulla: il caprone in etichetta ed il nome della birra mi avevano inizialmente fatto pensare ad una Doppelbock "potenziata" che diventava un Tripel/Triplebock. Solo in un secondo tempo mi sono accorto che si tratta in verità di un incrocio tra una Tripel belga ed una Doppelbock tedesca. Come ciò sia stato  tecnicamente possibile lo lascio immaginare a voi, visto che quello che ho trovato nel bicchiere mi ha lasciato abbastanza perplesso.
All'aspetto è di colore arancio torbido, con un esuberante quantità di schiuma bianca, cremosa e molto persistente che riempie tutto il bicchiere ed obbliga ad una discreta attesa. L'aroma annuncia che c'è "qualcosina" che non va, per dirla con un eufemismo: acido lattico, yogurt, sentori di gorgonzola, di acetone e di calzini sporchi. Svanita la schiuma, come se fosse finito il temporale, s'affaccia un timido sole che porta un po' di Belgio: mela rossa, miele, frutta candita (arancio e pesca) zucchero candito. In bocca è appiccicosa, dolcissima, dal corpo medio-pieno: neppure l'elevato livello di bollicine aiuta a stemperare un po' tutto lo zucchero. Il risultato è una sorta di dolcione alcolico molto difficile da bere: tra zucchero, miele, frutta candita e sciroppata, c'è anche qualcosa che mi riporta all'infanzia, alla colazione dei miei nonni: pane imburrato e zuccherato. Una birra-calvario non solo difficile da finire, ma anche solamente da sorseggiare, una sorta di martirio iper-zuccherato per il palato che non dà tregua. Miracolosamente non ci sono grossi off-flavors in bocca, se si eccettua una lievissima nota lattica che comunque viene sopraffatta dal dolce. Ci sarebbe un po' di amaro finale (scorza arancio) ma è difficile accorgersene a causa della stucchevole patina dolce che è incollata al palato. Finisce nel lavandino, e il risultato di un incrocio tra una Tripel ed una Doppelbock è quello di  farti venire una gran voglia di bere una Doppelbock ed una Tripel fatte come Dio comanda, mandando "a quel paese" chi ha riempito la bottiglia di quell'infausto liquido dolciastro. Bottiglia sfortunata? Forse, ma nel dubbio statevene alla larga.
Formato: 33 cl., alc. 9.5%, scad. 12/2014, pagata 2.38 Euro (beershop, Germania).

domenica 28 settembre 2014

Theresianer India Pale Ale

La storia di Theresianer inizia nel 1766, quando in un borgo di Trieste chiamato "Borgo Teresiano", un certo signor Lenz ottenne la licenza di inaugurare una birreria sotto l'Impero Austro-Ungarico della Regina Maria Teresa d'Asburgo. 
Da quell'anno bisogna fare subito un salto temporale di oltre duecento anni per arrivare sino ai giorni nostri, esattamente nel 2000, quando il marchio diviene di proprietà di Martino Zanetti, titolare del marchio di caffè Hausbrandt Trieste 1892.  Curiosamente, entrambi i marchi continuano a fare riferimento alla città in cui sono nati nonostante, per entrambi, la produzione avvenga a Nervesa della Battaglia, in provincia di Treviso. Non sono riuscito a reperire nessun'altra informazione sulla storia di Theresianer: non sappiamo che cosa sia successo alla "birreria" originale, non sappiamo se in questi due secoli la produzione sia continuata o no a Trieste, per mano di qualche altro proprietario, e quando si sia interrotta. Un piccolo "mistero" al quale non si fa nessun riferimento sul (curatissimo) sito del birrificio, pur rivendicando la data di nascita del 1766.  Mi lascia abbastanza sorpreso il fatto che sul sito dell'associazione birrofila triestina, che si propone di "salvaguardare il patrimonio storico e le tradizioni, in particolar modo relativamente al territorio della provincia di Trieste ma pure delle vecchie birrerie regionali" Theresianer non sia mai menzionata. Per chi volesse quindi avere qualche altra informazione, non mi resta che indirizzarvi a questo bell'articolo - recentissimo - del blog di Berebirra.
Possiamo considerare Theresianer come il più piccolo birrificio industriale italiano, con una produzione annua (2013) di 28.000 ettolitri come segnala l'ultimo report di Beverfood, che si differenzia tuttavia da tutti gli altri per la diversificazione dei prodotti: a fianco delle classiche Lager, Pils e Bock, ci sono Wit, Strong Ale, Pale Ale, India Pale Ale, Vienna, birra invernale/natalizia ed una Coffee Stout che immagino sfrutti la collaborazione con l'altro marchio di casa, Hausbrandt. Non si parla quindi al semplice bevitore che chiede "una chiara o una rossa", ma ci si vuole rivolgere ad un consumatore che abbia un minimo livello di conoscenza. Anche il target della distribuzione, che potete trovare nella sezione "Theresianer nel mondo" del sito ufficiale, non è quello del bar di periferia ma soprattutto del ristorante di qualità/stellato, offrendo stili diversi al servizio degli abbinamenti gastronomici.
Detto questo, ricevo con sorpresa dall'ufficio stampa di Theresianer un mini kit d'assaggio, che comprende tre bottiglie: Pils, Wit, IPA. Partiamo proprio da quest'ultima: la bottiglia mi arriva accompagnata da un foglio che ne illustra la storia (ripetendo - purtroppo - il mito delle IPA inventate per essere esportate nelle colonie indiane) e le caratteristiche, riportando qualche nota gustativa e suggerendo alcuni abbinamenti gastronomici. Mi sento però di fare un piccolo appunto: se si vuole scendere nel dettaglio e specificare le tipologie degli ingredienti usati, sarebbe opportuno farlo nel modo giusto. Bene indicare la provenienza dell'orzo (Franconia), ma la tipologia di malto "ale" non mi dice granché se non, immagino io, che sono stati utilizzati malti chiari. Idem per i luppoli: Hallertau non identifica un luppolo in particolare ma piuttosto una regione tedesca dove si coltiva (tanto) luppolo (nobile). Qual è quello che è stato usato? Parliamo di Hallertauer Mittelfrüh, Hallertauer Gold, Hallertauer  Magnum, Hallertauer Tradition? E per l'altro luppolo utilizzato, descritto come "Stiria", si tratta forse di Styrian Golding? 
Birra nel bicchiere, il colore è ambrato scarico, opaco; il bianco cappello di schiuma che si forma ha una buona persistenza, ha trama fine ed è cremoso. Al naso, non particolarmente pronunciato e discretamente pulito, emergono sentori di frutta secca, caramello e biscotto, una lieve pepatura da luppolo nobile e, più in sottofondo, marmellata d'arancia ed  una leggerissima terrosità.  Oggi quando si parla di IPA si indicano genericamente le American IPA, che hanno ormai (purtroppo) quasi definitivamente portato alla scomparsa di quelle "originali" inglesi; l'abbondante dry-hopping al quale siamo ormai abituati ci potrebbe far restar delusi dai profumi di questa Theresianer: c'è tuttavia una buona pulizia e, se ancora vi ricordate una classica IPA inglese (ormai sempre più difficile da trovare), lo scenario vi sarà piacevolmente familiare e gradevole. In bocca rivela un corpo tra il medio ed il leggero, con poche bollicine: la sensazione al palato è molto gradevole, la birra è scorrevole e facile da bere senza mai risultare acquosa. Il gusto è molto pulito, con una solida base di malto (biscotto, caramello e quel "nutty" inglese quasi intraducibile) e una lieve presenza di agrumi; non ci sono fuochi artificiali ma tanto equilibrio ed una chiusura quasi delicata di note erbacee, terrose e di mandorla amara, con una lieve nota pepata che ci riporta al punto di partenza, l'aroma. Il risultato ottenuto con materie prime non inglesi è proprio quello di ricordare a grandi linee una IPA inglese. Theresianer IPA è una birra delicatamente amara che può risultare facilmente accessibile anche ad un palato meno "esperto": è pulita e ben fatta, corretta, gradevole. A chi invece ha un palato "evoluto" (se mi passate il termine) la bevuta risulterà ugualmente piacevole ma non susciterà particolari sussulti o emozioni.
Formato: 75 cl., alc. 5.8%, IBU 45, lotto 14213 1247, scad. 30/04/2015.

sabato 27 settembre 2014

Gilac Dorita

Il Birrificio Gilac non è certo uno degli ultimi arrivati sulla scena italiana; è attivo dal 2007, quindi in tempi ben lontani dall'esplosione demografica di birrifici che è avvenuta negli ultimi cinque anni. Lo fondano i coniugi Claudia Bidone (una tra le poche birraie in Italia), il marito Salvatore Sparacio ed il fratello di quest'ultimo, Vincenzo (musicista eclettico, insegnante e percussionista professionista) a Val della Torre (Torino); nel 2013 avviene il trasloco nella vicina (quindici chilometri) Rivoli, e per l'occasione viene anche completamente rinnovata la grafica dell'etichette, il sito internet ed il logo del birrificio, che abbandona la veste "agricola" ed il legame con il territorio (rappresentava, stilizzandola, l’infiorescenza della Euphorbia gibelliana, una pianta spontena che cresceva in Val Ceronda) per assumerne una più moderna, austera e pulita. Nel passato di Gilac c'è l'homebrewing, nel presente l'obiettivo di produrre birre semplici e di facile fruizione "senza scoraggiare il consumatore costringendolo a dover compiere uno sforzo cognitivo eccessivo per poter gustare una buona birra".  Al momento sono dieci le etichette prodotte, sei ad alta fermentazione e quattro a bassa. 
Nonostante sia attivo da sette anni, non mi era mai capitata l'occasione sino ad ora di trovare da qualche parte le produzioni di Gilac; ringrazio quindi Dario di www.iperdrink.it per avermi inviato una bottiglia di Dorita da assaggiare. Si tratta di una classica Pils, dal colore dorato opalescente con qualche sfumatura arancio; la schiuma, bianca, è fine, compatta, cremosa ed ha una buona persistenza.
L'aroma è pulito, con sentori floreali (soprattutto camomilla), di miele e di mollica di pane, cereali; in sottofondo si avverte una leggerissima speziatura (pepe), qualche traccia erbacea e, mi sembra, di agrumi. In bocca è corretta, con un corpo snello ed una carbonazione media: è watery e scorrevole come una Pils deve essere, anche se il gusto si rivela essere un po' meno intenso - e pulito -  dell'aroma. Dopo l'ingresso di cereali e di pane, c'è un lieve passaggio a vuoto, un po' troppo acquoso (a fatica emerge una nota di miele d'arancio e forse di agrumi), prima della chiusura delicatamente amara ed erbacea, forse un po' timida. E' una birra facilissima da bere, che mi sembra rispecchi bene la filosofia del birrificio di mirare a produrre birre semplici da bere senza sforzi: ma chi fa birra sa anche che la semplicità non è affatto semplice da raggiungere, se mi passate il gioco di parole. Le Pils sono tra le birre più difficili da fare, prive di paraventi o estremismi che possono aiutare a coprire eventuali difetti; questa Dorita viene un po' penalizzata da una bottiglia vicina alla data di scadenza, quando lo stile brassicolo imporrebbe un rapidissimo consumo. Va da sé che questa Pils ha perso buona parte di quella fragranza e freschezza che sono esse stesse un parametro fondamentale per una bevuta pienamente soddisfacente. Potrebbe comunque essere una buona "gateway beer" per chi ha il palato abituato ai prodotti industriali e necessita di qualcosa di qualità superiore che però non si allontani troppo da quello che è abituato a bere; i palati più allenati noteranno invece una discreta intensità e pulizia, ma intravedranno anche i necessari margini di miglioramento per quel che riguarda la personalità ed il carattere.
Formato: 33 cl., alc. 4.5%, lotto 96/13, scad. 10/2014 (la potete acquistare qui www.iperdrink.it)

venerdì 26 settembre 2014

Williams Brothers Double Joker

Il mio primo incontro con il birrificio scozzese Williams Bros. Brewing Co. lo trovate qui, e non è stato dei più entusiasmanti; a nessuno (o quasi) si nega una seconda possibilità ed eccomi di fronte alla loro Double Joker I.P.A. Di solito evito l'acquisto di IPA e Double/Imperial IPA se non trovo indicazioni sulla data d'imbottigliamento o se non riesco a risalire, in qualche modo, al loro grado di freschezza. Aiuta in questo senso avere un beershop "di fiducia", dal quale acquistate con regolarità e che può darvi indicazioni in questo senso. Sono birre (e ripeterlo non è mai abbastanza, visto che sono anche quelle - forse?- ancora più richieste) che vanno bevute fresche, entro poche settimane (pensiero ortodossa del beergeek americano) o almeno entro pochissimi mesi dal loro imbottigliamento; il discorso vale in maniera ancora maggiore per le Double IPA, più alcoliche e più luppolate, dove l'affievolirsi dei luppoli col passare dei mesi crea degli squilibri molto più forti trasformando le birre in "dolcioni" alcolici squilibrati e molto poco gradevoli.  Aggiungiamo a questo il fattore rischio della Grande Distribuzione, che notoriamente tratta le cosiddette birre "artigianali" come quelle pastorizzate o come i cartoni di acqua, senza troppo preoccuparsi di proteggerle dalla luce e dagli sbalzi  termici (calore). L'acquisto di una Double IPA in un supermercato sarebbe quindi da non fare a prescindere; ma una stanca sera d'estate dopo otto ore di lavoro passate a far la spesa tra le corsie, e la visione di birre "insolite" su uno scaffale a fianco della solita carrellata di Ainechenmorettiperonituborg possono procuravi, come nel mio caso, un attacco di immotivata euforia a spingervi all'acquisto di quello che - a mente fredda - non acquistereste mai. Metteteci anche un prezzo (2.29 Euro per trentatré centilitri) al quale non siete abituati: quante bottiglie, nei beershop, hanno come prima cifra del prezzo un numero inferiore al tre, nella migliore delle ipotesi? 
Mi ritrovo dunque nel frigorifero la versione "potenziata" della Joker Scottish IPA del birrificio di Kelliebank, Alloa; è realizzata con malti Lager, Vienna e Pale Crystal, frumento, avena e segale. 
La scelta dei luppoli cade su Southern Cross, Amarillo, Cascade, Citra e Calypso. Nel bicchiere si presenta di colore oro antico, quasi limpido: forma una buona testa di schiuma biancastra, fine, cerosa e compatta, dalla buona persistenza. Ma il vero biglietto di visita di una IPA/IIPA è l'aroma: bastano pochissimi secondi per avere un'idea di quello che ti ritroverai a bere, e del suo livello di freschezza. Purtroppo il riscontro (quasi come aprire un referto medico!) non è affatto positivo; l'aroma è tutt'altro che fresco, anche se tutto sommato pulito: caramello, marmellata d'arancia, frutta disidratata, quasi candita, qualche remoto sentore di frutta tropicale molto matura (mango). Tutto il resto non è altro che una conferma di qualcosa che sai già, senza neppure bisogno di bere: gusto molto dolce, sbilanciato, con abbondanza di marmellata d'agrumi, frutta candita e caramello (c'è anche un po' di biscotto, qui). L'amaro non morde, fa quasi fatica a contenere il dolce, alzando il capo solo nel finale: ma è un amaro poco elegante, che pesta sul vegetale, che satura subito il palato. Il passaggio dal "troppo dolce" al "cattivo amaro" è brusco, senza nessuna sfumatura; la birra è bevibile, intendiamoci, l'alcool si fa sentire quanto basta, ma una (Double) IPA fresca è ben altra cosa. Difficile quindi dare un'opinione veritiera su una birra così diversa da come dovrebbe essere: bene il prezzo ma, Grande Distribuzione, dovresti trovare il modo di trattare questi prodotti con le dovute attenzioni. Non pretendo di trovare tutte le birre in frigorifero come negli Stati Uniti (dove peraltro i "cadaveri" s'incontrano comunque), ma almeno mettete sugli scaffali delle tipologie di birre che siano un po' meno "delicate".
Formato: 33 cl.,  alc. 8.3%, IBU 65, lotto 1703 0914, scad. 09/2015, pagata 2.29 Euro (supermercato, Italia). 

    giovedì 25 settembre 2014

    Lambrate Sant'Ambroeus

    Lambrate, birrificio in Milano e,  nonostante gli ultimi arrivati,   “IL” birrificio di Milano, nonché uno dei pionieri della birra artigianale italiana, avendo aperto le porte nel 1996. Non poteva quindi mancare un tributo a Sant'Ambrogio, patrono della città che viene festeggiato ogni anno il sette di dicembre. La tipologia scelta è una Belgian Strong Ale, con la licenza stilistica di utilizzare luppoli neozelandesi: nel 2011 il birrificio dichiarava che era la sua birra più venduta  chissà se è ancora così.   
    All’aspetto è quasi limpida, di color oro antico con qualche sfumatura ramata; la schiuma è fine e compatta, cremosa, ed ha una buona persistenza. Il naso non è particolarmente pronunciato, anche se pulito: domina il dolce, quasi zuccherino, con sentori di biscotto, miele, frutta candita, polpa d’arancio, pesca, qualche suggestione di frutta tropicale. Al palato è gradevole e morbida, con corpo medio, ma paga un po’ l’assenza di bollicine, presenti in maniera decisamente minore rispetto a quelle che ti aspetteresti di trovare in una Strong Ale belga. Nessuna deviazione rispetto all’aroma, con un gusto dolce di biscotto e arancio candito, pesca e/o mango, albicocca, sapientemente equilibrati da un delicato amaro finale che accorpa l’erbaceo alla scorza dell’arancia: è molto, molto facile da bere, nonostante una gradazione alcolica (7%) ben lontana dal concetto di “session beer”.  
    L’ottimo livello di pulizia ed intensità la rendono una birra molto godibile e bilanciata, che scorre con pericolosa semplicità: questa bottiglia viene solo un po’ penalizzata – come detto – da una carbonazione un po’ sottotono che la rende meno vivace e stimolante di quanto potrebbe essere: in carenza di bollicine, è la notevole attenuazione a scongiurare il pericolo di scivolare nel troppo dolce. Ma la vera nota dolente è il prezzo; è noto che Lambrate non è tra i produttori più economici in Italia.  Non conosco il prezzo della vendita diretta al brewpub, ma i 15 Euro al litro proposti sullo scaffale da un noto emporio del gusto (“buono e giusto”)  in Milano rendono il confronto ed il rapporto qualità-prezzo con le “originali” belghe assolutamente improponibile: Duvel, St. Feuillien, St. Bernardus, La Chouffe e Gouden Carolus (senza scomodare sua maestà Westmalle) si trovano ormai sugli scaffali di molti supermercati ad un prezzo ben inferiore.  Orientatevi allora su queste, a casa vostra: al pub o in birreria, dove invece i prezzi sono maggiormente livellati, potete tranquillamente ordinare un bicchiere di Sant'Ambroeus. Formato:  33 cl., alc. 7%, lotto LSA005114, scad. 01/04/2015, pagata 5.00 Euro (food store, Italia)  

    mercoledì 24 settembre 2014

    Ninkasi Fabriques Triple

    Del meno famoso dei due birrifici che portano lo stesso nome, Ninkasi, vi ho già parlato in questa occasione. Siamo in Francia, a Lione e dintorni: niente a che vedere con il più noto (e riconosciuto a livello mondiale) birrificio dell’Oregon, USA. Ninkasi Fabriques, con i suoi brewpub (o meglio locali di somministrazione, dove la birra non viene però prodotta) sparsi nei vari quartieri di Lione, rappresenta comunque una discreta alternativa per bere qualcosa di diverso dalle solite lager industriali. Dopo una IPA, ecco la loro interpretazione di una Tripel belga; le materie prime utilizzate sono malti Cara e Pils, luppoli Galena (USA) e Styrian Golding (Slovacchia). All'ultima edizione del Concours Général Agricole de Paris (2014) ha ottenuto la medaglia d'argento: date l'importanza che volete a questi premi, ma personalmente non ho mai fatto incontri particolarmente memorabili con le birre premiate a questo concorso.
    Ad ogni modo, si presenta nel bicchiere di un limpido color arancio con riflessi oro antico; la schiuma, bianca, non è molto generosa ma compatta ed abbastanza fine, con una discreta persistenza.
    L'aroma di benvenuto è caratterizzato da lievi sentori di pepe, coriandolo, miele e frutta candita (arancio, pesca); l'intensità è solo discreta, buona la pulizia.  In bocca si avverte una leggera carenza di bollicine, che rendono la bevuta meno vivace di quanto dovrebbe essere: il corpo è medio, con una consistenza gradevole ed oleosa. Gusto pulito e ben bilanciato tra biscotto, miele, arancia candita, albicocca disidratata, pesca sciroppata; l'alcool è molto ben nascosto, difficile indovinarne il contenuto alcolico (9%) che porta solamente un lieve tepore nel retrogusto. La bevuta è dolce ed il finale si mantiene sugli stessi binari, con una timida nota erbacea amara finale che serve giusto a mantenere l'equilibrio. Il risultato è discreto e tutto sommato soddisfacente: la pulizia e l'intensità ci sono, manca solo un po' di carbonazione ed un po' più di carattere, di quella personalità che vorresti trovare in una Tripel dal contenuto alcolico che sfiora la doppia cifra e che invece mostra un po' di timidezza.
    Formato: 75 cl., alc. 9%, lotto 4368, scad. 03/2015, pagata 5.03 Euro (supermercato, Francia)

    lunedì 22 settembre 2014

    21st Amendment Hop Crisis!

    Con il Ventunesimo emendamento, il 5 dicembre del 1933 veniva messa in moto la procedura costituzionale che avrebbe portato alla rimozione del Proibizionismo negli Stati Uniti, stabilito dal Diciottesimo emendamento del 17 Gennaio 1920, e che vietava di produrre, vendere ed importare bevande alcoliche. In quanto città costiera e portuale, pare che a San Francisco il proibizionismo fu comunque vissuto in maniera abbastanza marginale: era infatti facile fare arrivare di notte alcolici su imbarcazioni provenienti dal Canada che venivano poi rapidamente distribuiti nei bar per essere serviti nei retrobottega ai propri clienti. Il  riferimenti al "21st Amendment" è  comunque un fortissimo richiamo per chiunque voglia dare un nome alla propria azienda che produce alcolici. I primi ad accaparrarselo, negli Stati Uniti, sono stati Nico Freccia e Shaun O'Sullivan, che nel 2000 fondano la 21st Amendment Brewery nel distretto South Park di San Francisco, a pochi isolati dello stadio di baseball (AT&T Park) nel quale si esibiscono i Giants, inaugurato peraltro nello stesso anno. Nico a Shaun s'incontrano nel 1995 proprio a San Francisco, "esuli" dalla California del sud. O'Sullivan, con un passato da fotoreporter per un settimanale di Los Angeles, si era spostato a Berkley dove aveva lavorato come assistant brewer alla Triple Rock Brewery ed alla 20 Tank Brewery; Freccia era invece un appassionato homebrewer che cercava fortuna a Los Angeles come attore e scrittore. Dopo qualche esperienza nella ristorazione, ammette di essersi spostato nella Bay Area frustrato dalla mancanza di cultura birraria della Los Angeles degli anni novanta.  I due si conoscono, frequentano assieme alcuni corsi per la produzione della birra e decidono di dare forma al loro progetto di aprire un brewpub con annesso ristorante.
    Nel 2005 una visita alla Oscar Blues in Colorado, dopo aver partecipato al GABF, convince Nico e Shaun ad utilizzare le lattina come unico contenitore per le loro birre la cui immagine grafica, davvero molto bella, viene progettata dalla TBD Advertising di Bend, Oregon.
    Quattordici anni dopo la sua nascita, 21st Amendment si trova ancora nella sede originale al numero 256 di and Street; il limitato spazio a disposizione non rende chiaramente possibile soddisfare tutta la domanda dei distributori ma solamente quella del brewpub. Sebbene le ricette delle birre vengano progettate e testate al brewpub di San Francisco, la produzione vera e propria  (e la messa in lattina)  avviene invece alla Cold Spring Brewing Company, in Minnesota, a 3000 (!) chilometri di distanza.
    Contract Brewer, Beer firm? "Io vado là ogni mese a fare la birra, approvvigioniamo noi tutti gli ingredienti; è come se io venissi a casa tua e cucinassi le mie lasagne usando solo il tuo forno", dice Sullivan. Il birrificio ha comunque già annunciato un grande progetto di ampliamento da 21 milioni di dollari che consisterà nella costruzione di una nuova sede a San Leandro, dall'altra parte della baia di San Francisco, nella vecchia fabbrica di cereali Kellogs, che chiuse nel 1995 lasciando a casa 325 dipendenti. Il nuovo spazio (con annesso ristorante, tasting room e spazio per eventi), dovrebbe essere inaugurato nel 2015 e si trova ad un solo chilometro di distanza dalla Drakes Brewing Company.
    Dal vasto portfolio di birre prodotte in questi quindici anni da 21st Amendment, ecco la Double IPA chiamata Hop Crisis!  Medaglia d'argento al GABF del 2010, nella categoria delle Imperial IPA, nacque come una reazione alla scarsa disponibilità (ed all'aumento dei prezzi) di luppolo: "la nostra decisione allora fu di fare la birra più luppolata e più forte che potessimo immaginare". La grafica della lattina fa riferimento all'isola di Alcatraz, situata di fronte a San Francisco ed al suo famosissimo ex-penitenziario: contro la scarsità dei luppoli in commercio si leva il grido  Free the Hops! (liberate i luppoli).
    Hop Crisis! viene prodotta ogni anno con un mix di luppoli diversi a seconda della loro reperibilità; l'edizione 2014, rilasciata lo scorso luglio, annovera Saaz, Citra, Amarillo ed una nuova varietà di luppolo australiano ancora senza nome; i malti dovrebbero essere Pale, Munich e Dextrose, per un ABV di 9.7% e 94 IBU. La birra viene poi messa a maturare su spirali di quercia.
    Nel bicchiere si presenta di colore dorato, appena pallido e velato: la bianca schiuma è compatta, cremosa e fine, molto persistente. L'aroma è fresco e pulito anche se non particolarmente intenso: pompelmo, arancio, melone rosa, mango; in sottofondo il malto (crosta di pane), sentori di alcool e una lieve presenza di marmellata d'agrumi.  Buona presenza in bocca, copro medio, carbonazione medio-bassa ed una base di malto abbastanza solida (pane) a supportare l'abbondante luppolatura; la parte centrale della bevuta è fruttata (pompelmo, tropicale) ed irrobustita dall'alcool che fa sentire la sua presenza se mai andare oltre il dovuto. Il risultato è una birra molto solida e pulita che si sorseggia abbastanza bene ma che ha una bevibilità molto più limitata rispetto ad altre (migliori)  Double IPA della West Coast; l'amaro fa quasi fatica ad essere protagonista, trovando solo una valvola di sfogo, neppure troppo intensa, in un finale terroso, e resinoso (pungente), con qualche lieve note legnosa. Per una lattina che dopo essere stata prodotta in Minnesota ha viaggiato tremila chilometri per tornare nella città in cui è stata ideata (San Francisco), non è comunque niente male.
    Formato: 35.5 cl, alc. 9.7%, IBU 94, lotto ZN130037, scad. 11/10/2014, pagata 2,64 Euro (3,49$ negozio di alimentari, USA)

    domenica 21 settembre 2014

    Brewfist / To Øl Space Frontier

    Collaborazioni, collaborazioni, collaborazioni: anno particolarmente intenso per il birrificio Brewfist di Codogno: Spaghetti Western con gli americani di Prairie, Beautifil & Strange con De Molen, MILD I'd like to drink con Ducato, Toccalmatto e De Molen, Space Frontier con la beerfirm danese To Øl.
    Potete in generale guardare alle collaborazioni con occhio "puro", ossia come un'occasione per confrontarsi e scambiarsi opinioni ed esperienze tra i birrai; oppure potete alzare il sopracciglio con diffidenza, pensando soprattutto al marketing ed alla strategia di creare sempre birre nuove, per attirare l'attenzione dei beer geeks annunciando qualcosa di irripetibile, una "one shot" che spesso però viene poi puntualmente replicata. Il (mio) sopracciglio si alza però quasi automaticamente quando il risultato di una collaborazione è una (l'ennesima) India Pale Ale, quasi non ce ne fossero già abbastanza in giro; questo è quello che è scaturito da una serata "To Øl" al Terminal 1 di Brewfist, lo scorso gennaio
    Per fortuna questa IPA porta almeno con sé un elemento inusuale, ovvero il mosto d'uva, che affianca il malto Pilsner, l'avena e la luppolatura di Citra e Mosaic; la birra prende il nome di Space Frontier, andando così idealmente a dare vita ad un nuovo episodio della saga delle "Frontier" di To ØL. La collaboration viene ovviamente presentata al Terminal 1 di Brewfist a Marzo 2014; si tratta quindi di una birra che ha circa sei mesi di vita alle spalle. 
    Nel bicchiere è di un dorato molto pallido, velato, che dà forma ad una schiuma dalle dimensioni piuttosto modeste, bianca, cremosa ma molto poco persistente. L'aroma è ancora abbastanza fresco, con una bella pulizia che regala aspri sentori di lime, limone ed uva bianca, fiori bianchi e ribes bianco; l'unica dolcezza, alquanto in secondo piano, è quella degli agrumi canditi. Il suo biglietto da visita sembra essere quello di una birra estiva, particolarmente secca, molto rinfrescante e dissetante, ed il gusto non tradisce le aspettative: lievissima base di crackers, e poi anche in bocca converge sui binari del cedro, del limone, dell'uva bianca e del ribes con un timidissimo sottofondo dolce (suggestione di miele? frutta tropicale). Man mano che la birra si scalda l'asprezza viene un po' stemperata, dal limone/lime ci si sposta sul pompelmo; corpo medio, carbonata  e watery quanto basta, trova un bel compromesso tra morbidezza al palato e necessità di essere molto scorrevole. Finisce molto attenuata, con un retrogusto zesty che non lesina scorza d'agrumi gialli e una nota amara di nocciolo di pesca. Space Frontier potrebbe essere una birra spiccatamente adatta ai giorni più caldi dell'anno, pulita e ben fatta, profumata e rinfrescante, leggermente vinosa; tuttavia la sua decisa caratterizzazione (aspra, quasi acerba, estremamente fruttata) la rende molto accattivante ad un primo assaggio ma - almeno per quel che mi riguarda - non ne berrei un litro. Terminato l'effetto dissetante del primo bicchiere, che evapora con grande rapidità, le mie papille gustative sono ormai sature e vanno alla ricerca di qualcosa di più bilanciato con cui passare il resto della serata. Detto questo, se vi capita a portata di mano, è senz'altro una birra che merita di essere assaggiata.
    Formato: 33 cl., alc. 6.5%, IBU 80, lotto 4153, scad. 30/04/2015, pagata 4.50 Euro (beershop, Italia).

    sabato 20 settembre 2014

    Ugly Duck Imperial Vanilla Coffee Porter

    A Nørre Aaby, quaranta chilometri ad ovest di Odense, trova sede la Indslev Bryggeri: fondata da Frederick Christian Rasmussen nel 1897, si è specializzata nella produzione di birre di frumento, un categoria particolarmente popolare in tutta la Danimarca. La progressiva riduzione dei consumi ne ha però determinato la fine della produzione nel 1973; l'azienda ha comunque continuato a produrre bibite e soft drink sino al 1990, anno della sua chiusura.
    Ad Aprile del 2006, il nipote del fondatore, Donald Busse Rasmussen, riapre il birrificio dopo il restauro dello stabile ed il rinnovamento degli impianti; dalla Baviera viene chiamato il birraio Stefan Peter Stadler.
    La piccola Danimarca ospita più di cento microbirrifici, ma la maggior parte di essi producono sostanzialmente birre d'ispirazione tedesca (lager, bock e weizen) destinate al consumo locale; i produttori che vanno oltre questo cliché e spaziano tra la tradizione anglosassone e quello belga sono solo una minoranza, e i migliori arrivano di tanto in tanto anche sugli scaffali dei beershop italiani. Mi riferisco ad esempio ad Amager, Hornbeer, Fanø tra i produttori, Mikkeller, To Øl e Beer Here tra le beerfirm.  Evidentemente anche in Danimarca (non pensate solo a Copenhagen, però!) è in crescita la voglia di novità da parte dei consumatori, e così alla Indslev decidono di dare vita ad un marchio parallelo, la "fittizia" Ugly Duck Brewing Co.
    Donald Rasmussen chiama ad aiutarlo l'esperto (e vincitore di numerosi premi) birraio Martin Jensen, fondatore della Raasted Bryggeri; Ugly Duck apre le porte a marzo 2012 e, nella classifica di fine anno della Danske Ølentusiaster, riesce subito a piazzare due birre al primo posto delle uniche due categorie esistenti: birre con contenuto alcolico in percentuale inferiore al 5.9% (la Simcoe & Chinook IPA) e superiore al 6%  (la Ugly Duck Imperial Vanilla Coffee Porter). L'anno scorso la IPA ha fatto il bis, mentre nella categoria "più alcolica" Ugly Duck si è dovuta accontentare di piazzare al quinto posto l'imperial stout chiamata Putin (!). 
    Eccola qua, allora, la Ugly Duck Imperial Vanilla Coffee Porter, ispirata da un viaggio in Canada e da una sosta allo Sherbrooke Liquor Store di Edmonton, dove immagino che Rasmussen abbia avuto l'occasione di assaggiare qualche gustosa imperial stout o porter. La ricetta include malti Pilsner, Caramel, Chocolate e Black, segale, avena, caffè, baccelli di vaniglia e luppoli Magnum e Nelson Sauvin. 
    Nera, forma un bel cappello di schiuma compatta e cremosa, dalla trama molto fine, color beige e molto persistente. L'aroma è abbastanza semplice ed elegante, pulito: caffè liquido e macinato, vaniglia,  cioccolato al latte, orzo tostato ed una lieve presenza etilica. Benissimo in bocca, morbida ed oleosa, dal corpo medio, poche bollicine; anche il gusto è relativamente semplice e non offre grosse sorprese: tostature, caffè, liquirizia, un gradevole tepore alcolico e lievi note di  cenere. L'inizio è a tutto caffè, molto intenso ed amaro, con la bevuta che cala progressivamente d'intensità sfociando in un finale etilico (quasi bourbon) dove si avvertono tutti i 10 gradi. Semplice e monotematica, dicevo, ma molto solida: non è senz'altro tre le migliori imperial porter/stout che ho bevuto, ma si sorseggia con buona soddisfazione.
    Formato: 33 cl., alc. 10%, scad. 20/02/2015, pagata 8.54 Euro (Vinmonopolet, Norvegia).

    3 Fonteinen Oude Geuze 2013

    Berseel è un comune belga situato alle porte meridionali di Bruxelles; nel suo passato, come in quello di tanti altri comuni della provincia del Brabante Fiammingo, c’era una lunga tradizione di produttori di Lambi(e)k e di assemblatori di Geuze (Geuzestekerij) che, con il passare degli anni, ha quasi rischiato di scomparire. A Berseel sono infatti rimasti oggi solamente Oud Beersel  (chiuso nek 2003 e riaperto nel 2005 dopo un cambio di proprietà) e 3 Fonteinen. La storia di 3 Fonteinen inizia nel 1953, quando Gaston Debelder acquista il 3 Fonteinen Café, di proprietà di Tisjke e Maree Potter.  La formazione di Gaston avviene grazie ai consigli dell’amico Jan-Baptist Vanderlinden, uno dei migliori assemblatori di Gueuze e – mi pare – sindaco di Berseel, ma anche a quelli (come racconta Kuaska in questo splendido articolo) dello scrittore Herman Teirlinck, il padre della moderna letteratura in lingua fiamminga, che aveva eletto il 3 Fonteinen come sede del suo club artistico/letterario De Mijol. “Fu lui che, più che consigliare, impose al suo carissimo amico Gaston, miracolosamente scampato ai campi di sterminio nazisti ma talmente debilitato da non riuscire più a nutrirsi, di sforzarsi a bere una gueuze al giorno, facendogli tornare l’appetito e salvandogli di fatto la vita. (…) Gaston divenne ben presto famoso per il suo “naso”, cioè quella sensibilità che ogni assemblatore di lambic può avere come dote naturale (come nel suo caso) o che può acquisire e incrementare con una costante applicazione”. 
    Gaston Debelder ebbe due figli, Guido ed Armand: il primo scelse la strada della ristorazione, prendendosi in gestione la cucina del cafè, mentre Armand ricevette alla fine degli anni ‘80 l’onerosissimo testimone dal padre. E’ Michael Jackson a raccontare un emozionante aneddoto quando, nel 1993,  Armand riceve il suo primo premio dalla  De Objectieve Bierproevers: “fu la prima volta che vidi mio padre piangere” dirà Armand.  Sino alla fine degli anni ’90 Gaston affianca Armand nel difficilissimo compito di assemblatore di Gueuze; nel 1998  l’amico e  birraio  Willem Van Herreweghen installa a 3 Fonteinen un piccolo impianto, proveniente dalla Jupiler, dove era utilizzato per produrre dei lotti pilota. E’ una piccola rivoluzione ed il primo passo che porta 3 Fonteinen a non essere più solo un assemblatore di lambic acquistati altrove, ma anche un  produttore vero e proprio. 
    Nel giugno del 2008 viene inaugurato il LambikOdroom  un locale adiacente al ristorante, gestito da Guido, dove è possibile degustare Geuze in abbinamento a prodotti del territorio, ma l’aria di festa dura giusto un anno, perché nel 2009 avviene una catastrofe: il 16 maggio, a causa di un termostato guasto, Armand scopre che la temperatura della sala di fermentazione è passata da 16 a 60 gradi. Il risultato, quantificabile in oltre 200.000 euro di danni, parla di quasi cinquantamila litri di  lambic da buttare via: in parole povere, ciò significa anche l'impossibilità per i prossimi tre anni di utilizzare il proprio lambic per l'assemblaggio del geuze, che viene appunto realizzato mettendo assieme lambic di uno, due e tre anni. 
    La bancarotta viene evitata con la vendita dell'impianto appena installato; una piccola parte di quel lambic viene distillato (Eau de Vie van Oude Geuze) e venduto con l'apposito scopo di racimolare fondi per la ripartenza. Da un amico americano arriva invece il suggerimento di immettere sul mercato delle edizioni limitate assemblate con i lambic degli anni precedenti, da vendere ad un prezzo più elevato; nel 2010 arrivano quattro speciali blend, diciassettemila bottiglie dedicate alle quattro stagioni e vendute in un'elegante confezione: Lente, Zomer, Herfst  e Winter. L'idea è di vendere le bottiglie solamente al proprio spaccio/cafè, al prezzo di 24 Euro, per evitare speculazioni da parte dei rivenditori; la realtà sarà come sempre un po' diversa. Risistemata la situazione finanziaria di 3 Fonteinen, Armand prende la decisione di chiudere nell'aprile 2012 il LambikOdroom; la cattiva notizia viene fortunatamente subito bilanciata da una buona: verrà installato un nuovo birrificio, più capiente del precedente, con una conseguente riorganizzazione di tutti gli spazi. Il nuovo impianto, che verrà inaugurato a marzo 2013, consente a 3 Fonteinen di riprendere la produzione di lambic in proprio da utilizzare negli assemblaggi assieme a quello regolarmente acquistato da Girardin, Boon and Lindemans.
    Riassunta in poche righe la storia di 3 Fonteinen, è il momento di bere. Le birre acide sono ultimamente diventate molto di moda, importando (in maniera minore, ma crescente) anche in Italia quell'hype che sta attualmente caratterizzando la scena statunitense. Basti pensare al nome  scelto (Lambiczoon) da un locale milanese che ha aperto nel 2013; la "moda" e l'aumento della richiesta si riflettono in una maggiore reperibilità di prodotto ma anche, purtroppo, in un aumento dei prezzi: cito su tutti l'esempio Cantillon. Il mio messaggio è principalmente rivolto ai neofiti, che magari sentono per la prima volta parlare di lambic, di geuze, di "sour", di birre acide e di fermentazioni spontanee: non sono birre facili.  Troverete forse accessibili i lambic alla frutta  (Kriek, Framboise, Peche, Vigneronne) ma nella maggior parte dei casi avrete a che fare con degli odori (profumi!) e dei sapori ai quali non siete abituati: ricordo ancora la mia prima reazione tutt'altro che felice dopo aver bevuto il primo sorso di una geuze. Il mio consiglio è questo: prima di spendere soldi in esosi vintage, o in costose birre acide importate dagli Stati Uniti, fatevi una discreta esperienza con alcuni lambic/gueze "di base" che potete trovare a dei prezzi ragionevoli. 
    Un'ottima introduzione a questo "mondo" delle birre acide è senz'altro l'Oude Geuze di 3 Fonteinen; ringrazio Iperdrink.it per avermi inviato da assaggiare una bottiglia dell'anno 2013.
    Il birrificio pone la scadenza a dieci anni, ma potete tranquillamente dimenticarvi una geuze in cantina (ricordatevi di riporla in orizzontale) anche più a lungo. Questo "esemplare" ancora piuttosto giovane si presenta di color dorato, torbido, con una bella testa di schiuma bianca, cremosa e croccante, non molto persistente. L'aroma riflette ancora l'irrequietezza della giovane età: mela verde, limone, uva spina, fiori bianchi danno il benvenuto. Ma dopo qualche istante ecco arrivare i classici profumi di una geuze: sudore, sentori di animale, di calzino sudato, polvere, legno, formaggio.  Il corpo è tra il medio ed il leggero, con un elevata quantità di bollicine ed una piacevole acquosità: al gusto è netto l'acido l'attico, con qualche sfumatura acetica. Troviamo una lieve base di crackers ma soprattutto aspre note di uva bianca, cedro e limone, con una gradevole "anima" dolce, abbastanza nascosta, che mi ha ricordato l'ananas. Grande secchezza, buona capacità dissetante e rinfrescante e, ovviamente, interessante potenziale per abbinamenti gastronomici. Rustica, con un lieve carattere vinoso ancora in divenire, chiude aspra con una punta amara di yogurt e di legno: geuze giovane che regala però già una bella complessità e delle splendide sensazioni.  Il consiglio è ovviamente quello di reperire qualche bottiglia e di metterle in cantina, assaggiandole di tanto in tanto per assaporare con grande soddisfazione gli effetti del passare del tempo. E ricordo sempre con piacere le parole di Tim Webb e Joris Pattyn sul libro 100 Belgian Beers to Try Before You Die: "se c'è scritto 3 Fonteinen in etichetta, compratela!".  
    Formato: 37.5 cl., alc. 6%, imbottigliata 17/10/2013, scad. 17/10/2023 (la potete acquistare qui: www.iperdrink.it )

    giovedì 18 settembre 2014

    Drakes Drakonic Imperial Stout

    Ha festeggiato proprio in questi  giorni il suo venticinquesimo compleanno, la Drake’s Brewing Company, fondata nel 1989 a  San Leandro, nella East Bay a circa trenta chilometri da San Francisco; ve l’avevo presentata nell’occasione dell’interessante Double IPA Denogginizer che potete assaggiare, assieme alle altre loro produzioni, nella tap room chiamata Barrel House (24 taps disponibili), situata all’interno del  Westgate Shopping Center.
    Niente luppolo in primo piano oggi, ma nel bicchiere c'è Drakonic, una imperial stout dal contenuto alcolico tutto sommato modesto (per i canoni statunitensi). La prima imperial stout della Drakes vide la luce nel 2003 mentre Drakonic, che di quella ricetta ne è l'evoluzione, nasce nel 2009 dapprima solo in fusto e, dal 2011, anche in bottiglia. Lievito 001 di White Labs, una sostanziosa batteria di malti (American 2-Row Barley, Simpsons Crystal 155-165, Weyermann Carafa Special 3, Simpsons Chocolate, Simpsons Roast Barley, Simpsons Caramalt 30-37) ed una varietà di luppolo  da amaro che spesso cambia (Bravo, Columbus).
    All'aspetto non è esattamente nera, ma poco ci manca; impeccabile l'ampio cappello di schiuma che si forma, beige, molto fine e cremosa, compatta, molto persistente. 
    Bottiglia molto fresca (luglio 2014), anche se non si tratta di una caratteristica così determinante nel caso di una Imperial Stout. L'aroma è gradevole e pulito, ma non particolarmente intenso o eccitante: caffè in grani, cenere, tostature, qualche sentore di frutti di bosco scuri (mirtillo e ribes nero). Al palato risulta evidente la scelta del birraio di privilegiare la scorrevolezza piuttosto che la cremosità: corpo medio, consistenza oleosa, un po' troppe bollicine, almeno per il mio gusto. Meglio lasciarla riposare un po' nel bicchiere per lasciare che si "sfoghino". C'è una buona pulizia ed una bella intensità di caffè, liquirizia, tostature e frutti di bosco, quello che manca forse è un po' di calore etilico, un po' di spessore. La bevibilità è ottima, l'alcool è molto ben nascosto ma paradossalmente questo sembra essere in questo caso una lieve mancanza piuttosto che un pregio. La bevuta migliora a temperatura ambiente, quando "esce" finalmente un po' di warming etilico che ben si abbina con il finale di caffè e tostature, cioccolato amaro, frutta sotto spirito e cenere. Birra molto gradevole e ben fatta, molto equilibrata; personalmente tendo a preferire Imperial Stout un po' più dense e cremose, capaci di avvolgere il palato di una "spessa" coltre scura: ma questa Drakonic è comunque un bell'esempio di come si possano regalare buone soddisfazioni anche senza esagerare né sulla gradazione alcolica, né sulla densità.
    Formato 65 cl., alc. 8,75%, 40 IBU, lotto 8/7/2014, pagata 5,67 Euro (7,99 $, supermercato USA).

    mercoledì 17 settembre 2014

    BraufactuM Palor

    Ho incontrato per la prima volta BraufactuM nel 2011,  forse uno dei pionieri, in Germania, nel settore della cosiddetta “craft bier”.   Non si tratta di un birrificio vero e proprio, ma di un “marchio” che ha spalle molto robuste, ovvero quello del gruppo Oetker  e della sua divisione dedicata alla birra, ovvero il gruppo Radeberger, acquistato nel 2004  e proprietario a sua volta di una ottantina di marchi locali ed internazionali.  Molto poco artigianale, insomma.
    Ispirata dalla Craft Beer Revolution americana, BraufactuM ha avviato un’attività di importazione di birre dall’estero (USA, Belgio, Italia) e la creazione di ricette proprie, realizzate da diversi birrai in diversi birrifici tedeschi non precisati, e spesso ispirate proprio da quanto avviene negli Stati Uniti. Non è un mistero che i consumi di birra in Germania siano in calo e di conseguenza anche i profitti di chi produce; bisogna quindi inventarsi qualcosa di nuovo, e questo “qualcosa”, in Germania, significava introdurre un’idea di birra non più come semplice “nutrimento” ma come una valida alternativa al vino, un prodotto gourmet da abbinare al (buon) cibo che potesse assicurare maggiori margini economici. Una prodotto di nicchia, che non s'indirizza certamente al bevitore "medio" o di fascia anagrafica alta, ma a quello giovane, a quello che ordina spesso vino, a chi abita nelle grandi città piuttosto che nei paesini. 
    Il marchio Braufactum viene lanciato nel 2010, in un anno che si può forse considerare quello in cui in Germania iniziano ad arrivare sul mercato le prime American IPA prodotte da birrifici come Camba Bavaria e  Braustelle; prendo questo stile come parametro perché le A-IPA sono le birre che hanno accompagnato la nascita della birra "artigianale" in quasi tutti i paesi europei. BraufactuM fiuta il potenziale mercato abbastanza presto, arrivando già nel 2011 con una distribuzione nei supermercati attraverso dei frigoriferi personalizzati e dedicati. Accanto a IPA ed APA, Braufactum propone le costose importazioni straniere ed anche le proprie produzioni più tradizionali: resta da verificare quanti tedeschi siano disposi a pagare, per quanto buona che sia,  oltre dieci euro al litro una Schwarzbier o una Marzen che normalmente ne costa ampiamente meno di due.
    I modello di Braufactum ha evidentemente avuto un po' di successo visto che alcuni birrifici tedeschi  (Riegele, Schonramer, Pyraser, giusto per fare qualche nome) hanno cominciato a produrre birre speciali (IPA, Imperial Stout, Doppelbock) nell'inusuale formato da  75 cl. a prezzi molto poco tedeschi.
    Dall'ampia gamma BraufactuM ecco Palor, un'American Pale Ale prodotta con malti Pale Ale, Pilsner e Caramel; i luppoli sono il classico Cascade ed il tedesco Polaris, una varietà commercializzata a partire dal 2012 e che dovrebbe, anche secondo le note gustative riportate in etichetta, portare in dote caratteristiche che ricordano la menta. La bottiglia ha l'insolito formato, per l'Europa, da 355 millilitri; il colore è un classico dorato, velato, con cappello di schiuma biancastra, compatta, cremosa e dalla buona persistenza. Al naso, pulito ma non particolarmente intenso o fragrante, emergono sentori floreali (camomilla), di miele, frutta tropicale (mango, papaya), marmellata d'arancia e di cereali.  Benissimo invece la sensazione palatale: corpo medio-leggero, equilibrio pressoché perfetto tra morbidezza e scorrevolezza, carbonazione medio-bassa. Il gusto ricalca in toto l'aroma, compresa la discreta pulizia e la fragranza non eccelsa: crosta di pane, miele, cereali, pesca, pompelmo, arancia; nel finale la bocca rimane però un po' imburrata, ed il finale amaricante (erbaceo, pompelmo) non riesce del tutto a ripulirla. E' dotata di una facilità di bevuta sorprendente che fa evaporare il bicchiere in pochissimi minuti, e di un equilibrio che richiama lo stereotipo del rigore e della perfezione tedesca: impeccabile, quasi "noioso". Il risultato è quello di una birra accademica che però non risulta molto fresca e fragrante; ma questo potrebbe essere soltanto un problema dovuto allo scorrere del tempo. Della menta che il luppolo utilizzato (Polaris) avrebbe dovuto portare in dote, sinceramente non ne ho avvertito traccia.
    Il birrificio la consiglia in abbinamento con: würstel bianchi, costaiole di maiale, spaghetti al pesto, saltimbocca alla romana, bistecca in salsa verde, insalata al pesto.
    Formato: 35.5 cl., alc.  5.2%, scad. 30/04/2015, pagata 2.74 Euro (supermercato, Germania)

    martedì 16 settembre 2014

    The Bruery Smoking Wood - Bourbon Barrel

    In Italia (e forse anche in Europa), non ci sono ancora situazioni analoghe, ma negli Stati Uniti c’è più di un birrificio che ha attivato un cosiddetto “Membership Program”; di che cosa si tratta?  In pratica pagate una certa somma di denaro (trimestrale o annuale) e in cambio avete diritto a dei cosiddetti privilegi  esclusivi. Prendiamo ad esempio il birrificio californiano The Bruery, che vi ho presentato qui, e la sua Preservation Society; pagando 58 dollari  (44 euro) ogni trimestre, avrete diritto a tre birre ad edizione limitata.  Alcune di queste birre potranno poi anche essere distribuite regolarmente al pubblico, ma la “membership” vi dà là sicurezza di riuscire comunque ad avere una bottiglia e ad un prezzo di almeno il 10% inferiore a quello praticato al pubblico. In breve, se volete mettere le mani su una bottiglia di Black Tuesday, la membership è l’unica certezza che può garantirvela. In alternativa, ci sono sempre gli scambi  (ma dovrete avere qualcosa di uguale “prestigio” da mettere sul piatto) o gli strozzini su Ebay.   
    La birra di oggi, chiamata Smoking Wood, uscì per la prima volta nel dicembre del 2011 proprio per la Bruery Preservation Society. Una sostanziosa imperial porter affumicata (10%) che dopo pochi mesi venne commercializza anche invecchiata in botti di quercia che hanno ospitato bourbon. La birra ottenne un buon successo e viene, da allora, prodotta una volta l’anno con leggere variazioni, probabilmente a seconda della varietà di botti che il birrificio è riuscito a reperire. Una sorta di duplice tributo al legno, dapprima necessario per l'affumicatura dei malti utilizzati e poi per l'invecchiamento in botte.
    Nel 2014 escono contemporaneamente due versioni della Smoking Wood: la Rye Barrel (13%), invecchiata in botti che hanno ospitato Rye Whiskey, e la Bourbon Barrel (14%), che ha chiaramente riposato in botti di quercia ex Bourbon. E' proprio di questa che vi voglio parlare. 
    E' praticamente nera, con una bellissima "testa" di schiuma color nocciola, molto compatta e cremosa, dalla trama fine e molto persistente; davvero sorprendente, se si considera l'elevata gradazione alcolica.  L'opulenza di questa birra è evidente sin dall'aroma, pulito ed elegante, ricco di legno umido e di legno affumicato, di cenere e di vaniglia, liquirizia e caffè, uvetta e prugna. Il bourbon non si nasconde, fornendo quella sorta di "calore olfattivo" che gli anglosassoni definiscono in una parola: "boozy". La viscosità del liquido del bicchiere si riversa ovviamente anche in bocca: il corpo è pieno (ma non troppo), la birra è poco carbonata e dalla consistenza oleosa e si lascia comunque sorseggiare con buona facilità dando una bella sensazione di morbidezza. Se l'aroma era ricco, il gusto non è certo da meno mantenendo tutte le aspettative create; non ci sono grosse variazioni, il gusto ripropone in fotocopia il caffè, la liquirizia, l'uvetta e la prugna, con note di affumicato e di legno umido. Una semplicità comunque molto appagante, calda di bourbon e con un bel finale tra il tostato, l'affumicato e la frutta sotto spirito. Questa Smoking Wood è pulitissima e sontuosa, elegante, calda ed appagante, davvero molto ben fatta. L'alcool è abbastanza ben nascosto, ma i 14 gradi presentano il conto già alla fine del primo bicchiere, soprattutto se non è la prima birra della serata. Personalmente trovo il formato di The Bruery (75 cl.) abbastanza sproporzionato, soprattutto per le birre più alcoliche che spesso superano con facilità la doppia cifra di ABV; d'accordo, sono fatte per essere condivise (anche per ammortizzarne il costo), ma se non ne avete la possibilità e non potete neppure mettere da parte la bottiglia per il giorno dopo, vi si spezzerà (come a me) il cuore e verrete assaliti dai sensi di colpa dopo aver vuotato via quel che resta dal secondo bicchiere in poi. Una birra così non andrebbe mai sprecata, andrebbe gustata sino all'ultimo sorso, per un'intera serata, comodamente seduti in poltrona nel silenzio della vostra casa; fuori potrà  anche accadere di tutto, ma voi sarete in buone mani e non ve ne accorgerete nemmeno, rinfrancati e coccolati da questa Imperial Porter.
    Formato: 75 cl., alc. 14%,  lotto 2014, pagata 15,14 Euro  ($ 19,99 beershop USA).

    lunedì 15 settembre 2014

    Brewfist / De Molen / Toccalmatto / Ducato M.I.L.D.

    Il viaggio in Italia  dello scorso marzo di Menno Oliver, patron del birrificio olandese De Molen (accompagnato dal fido John Brus) si è rivelato molto prolifico per quel che riguarda le birre-collaborative che, lo sappiamo, vanno attualmente tanto di moda e fanno tanto marketing. Una settantina sono i chilometri sulla via Emilia che separano il Birrificio del Ducato  (Parma)  da Brewfist e sulla strada si trova anche Fidenza, dove ha sede Toccalmatto. La sosta in quel di Parma vede la nascita della Vliegende Verdi  (il “Verdi volante”, in olandese), versione aromatizzata con peperoncino della Imperial Stout di Giovanni Campari. A Fidenza, l'incontro con Bruno Carilli di Toccalmatto genera la Debra Kadabra, una Pale Ale "dedicata a Frank Zappa ed alla Maledetta Primavera di Loretta Goggi" (sic). Il viaggio verso ovest termina a Codogno, dove nasce invece la Beautiful & Strange,  ispirata alle tradizionali Gose ma aromatizzata con scorze di arancia amara e bergamotto e prodotta assieme a Brewfist. 
    Al Terminal 1,  (la “taproom” di Brewfist) in un paio di serate dal tasso alcolico probabilmente abbastanza elevato, i quattro birrai discutono anche gli ultimi dettagli di una birra collaborativa ad otto mani che prende il nome di M.I.L.D. (Mild I'd Like to Drink), ma l'acronimo e l'etichetta fanno invece pensare a tutt'altro: si tratta di una "Imperial" Mild, un nuovo non-sense birrario, visto che la categoria delle Mild inglesi è ben distante da qualsiasi idea di "forza" e di potenza. Ma gli americani ci hanno insegnato che si può "imperializzare" tutto o quasi, e quindi ecco una ricetta che prevede un contenuto alcolico ben al di sopra del 4.3%  che il CAMRA indica come il massimo per lo stile ed una generosa luppolatura di Chinook, Galaxy e Mosaic.
    Il risultato è una birra dal colore ebano scuro ed un bel cappello di schiuma beige, fine e cremosa, dalla buona persistenza. Al naso domina la frutta, con un bouquet composto da frutta tropicale  molto matura (mango, papaya), melone retato, lampone; a tratti ci scorgo una presenza abbastanza netta di Big Babol; la parte scura emerge in un secondo tempo, portando in dote leggeri sentori di tostature e di caffè.  Gradevole e scorrevole al palato, con il giusto livello di bollicine ed un corpo medio. Se l'aroma era poco coerente con il colore scuro della birra, la situazione viene capovolta in bocca: il controllo lo prendono subito le tostature ed il caffè, con la frutta tropicale a recitare il ruolo dello sparring partner. L'intensità e la pulizia sono di ottimo livello, pur mantenendo la facilità di bevuta tipica proprio di una "mild". Finisce molto secca, sul bordo dell'astringenza, con l'acidità del caffè e con un retrogusto piuttosto amaro di caffè e tostature. 
    Al di là di quello che si dichiari di essere (Imperial Mild ?), è una birra che si presenta un po' ruffiana, con un naso molto piacione di frutta tropicale e che si ritira poi nell'ombra, come una seducente ragazza che ti ammalia per poi gelarti un po' il sangue al momento del "dunque". Ma quello che poteva essere un pericoloso scontro tra due opposti (frutta tropicale e caffè) si è invece rivelato un incontro riuscito, una birra ben fatta e molto pulita, che a me è piaciuta. Poi possiamo discutere finche vogliamo sul fatto che fossero davvero necessarie otto mani per realizzarla, ma questa è un'altra storia.
    Formato: 33 cl., alc. 6.5%, IBU 30, lotto 4144, scad. 30/05/2015, pagata 5.00 Euro (beershop, Italia).

    domenica 14 settembre 2014

    Russian River Blind Pig IPA

    Non è certamente famosa come la sua sorella maggiore Pliny The Elder, ma la Blind Pig di Russian River è una India Pale Ale che non ha nulla da invidiarle. Il suo nome riporta alle origini della carriera di Vinnie Cilurzo, alla Cilurzo Winery di Temecula, un centinaio di chilometri a nord di San Diego. Nonostante provenisse da una famiglia di viticoltori, a partire dal 1988 si diletta assieme agli amici con l'homebrewing: "dopo aver prodotto la mia prima birra, capii che era quello che avrei voluto fare per il resto della mia vita", dirà poi. Si iscrive al college a quella che potrebbe essere l'equivalente della nostra scuola alberghiera e, influenzato da un viaggio in Belgio, decide nel 1994 di aprire un brewpub a Temecula con alcuni soci, chiamandolo Blind Pig Brewing Company. Ma la Craft Beer Revolution americana non è ancora esplosa, ed i bevitori di Temecula non sembrano gradire particolarmente la IPA, la Golden Ale ed il Barley Wine che vengono prodotti. Il brewpub ha vita breve, ma l'esperienza è importante perché è lì che (secondo alcuni) viene inventata la prima Double IPA americana, dove una quantità esagerata di luppolo viene utilizzata da Cilurzo - ammetterà lui stesso - principalmente per "mascherare" i difetti delle birre prodotte dall'impianto antiquato del brewpub. Secondo altri, la prima Double IPA americana sarebbe stata la IIPA prodotta all'inizio degli anni novanta dalla Rogue.
    Dopo tre anni passati a lavorare al ritmo di cento ore la settimana, Vinnie vende la sua quota del Blind Pig e si trasferisce con la moglie Natalie più a nord, a Santa Rosa (una settantina di chilometri da San Francisco), nella contea di Sonoma dove vive anche sua sorella. In pieno territorio vinicolo, Cilurzo viene assunto come birraio dalla Korbel and Benziger, dei produttori di vino che avevano deciso di lanciarsi nel business della birra: "era un'azienda molto grande, ed era bello perché siccome non sapevano molto sulla birra mi lasciavano fare quello che mi pareva".  Vinnie inizia con il piede giusto, e già nel 1999 la Russian River Brewing Company ottiene la nomination di "Small Brewing Company of the Year" al Great American Beer Festival. Ma la passione dei viticoltori per la birra non dura molto, e nel 2002 offrono a Cilurzo, che ovviamente accetta, l'acquisto della Russian River Brewing Company. 
    Nel 2004 Vinnie apre le porte di una seconda location, il Brewpub in centro a Santa Rosa, mentre nel 2008, ad un paio di miglia di distanza, viene inaugurato il nuovo birrificio, più capiente, che ospita un vecchio impianto di Dogfish Head. 
    Vi è venuta sete? Passiamo alla sostanza. La Blind Pig IPA di Russian River viene prodotta da Cilurzo per la prima volta nel 1994 a Temecula; siamo ancora alla Blind Pig, ed ecco appunto la Blind Pig IPA. Il brewpub chiude definitivamente le porte un paio di anni dopo la dipartita di Cilurzo, che può così riutilizzare il nome di quella birra anche a Santa Rosa; la ricetta viene solamente aggiornata con nuove varietà di luppolo che non erano ancora disponibili ai tempi di Temecula.
    Nel bicchiere è del classico colore di una IPA della West Coast: tra il dorato e l'arancio, quasi limpido, con una bella testa di schiuma "croccante", bianca, cremosa e molto persistente. La bottiglia freschissima, con appena una decina di giorni di vita sulle spalle, permette di apprezzarne l'elegantissimo aroma: fiori ed agrumi (mandarino, pompelmo, arancia), frutta tropicale (melone, ananas, mango) con una leggerissima presenza di erba umida, appena tagliata. C'è una grande pulizia e grande equilibrio tra tutti gli elementi, caratteristiche che si ritrovano anche in bocca. Ingresso di crosta di pane seguito da una freschissima macedonia di frutta tropicale e di agrumi che ripropongono gli stessi profumi dell'aroma. Il tutto all'insegna del massimo equilibrio, della freschezza e della facilità di bevuta; l'amaro che bilancia il dolce è delicato, con note di pompelmo e, molto leggere, di resina. Banditi gli eccessi, nessuna vagonata di luppolo ad annientare il palato: l'alcool è 6.25% ma questa Blind Pig è una birra che potresti bere tranquillamente per tutta la sera, senza neppure accorgertene. Il corpo è medio, la carbonazione è contenuta con il risultato di una birra morbidissima al palato, che scorre quasi accarezzandolo. Abbagliati dalle mode, la potreste trovare deludente: non è un cocktail di frutta e neppure una spremuta di pino. La sorella minore della (Double IPA) Pliny The Elder ne ripropone in toto le caratteristiche principali: una birra pulitissima, fragrante, secca e semplicissima da bere, magistralmente eseguita.
    La sua etichetta enfatizza con una simpatica cornicetta la necessità di berla fresca e di non lasciarla assolutamente invecchiare: una raccomandazione quasi superflua, visto la velocità con la quale le birre di Russian River spariscono dai frigoriferi dei negozi e dei supermercati.
    Formato: 51 cl., alc. 6.25%, IBU 70, imbott. 14/08/2014, pagata 3,93 Euro (5,20 $, birrificio).