domenica 30 settembre 2012

Mission Shipwrecked Double IPA

Restiamo in città a San Diego per parlare della Mission Brewery, che ha sede a pochi isolati dal Petco Park, il campo da baseball che ospita gli incontri dei San Diego Padres. L'edificio risale al 1834, quando era sede degli impianti produttivi della Wonder Bread. A San Diego esisteva una Mission Brewery sin dal 1913, ma la sua fine coincise con l'inizio del proibizionismo. Dan Selis quasi non riesce a credere che il nome sia disponibile all'uso, quando nel 2008, decide di aprire un birrificio. Ex-homebrewer, ha svolto un percorso di crescita a piccoli passi che lo hanno portato ad ottenere il titolo di "giudice" ai concorsi brassicoli; nel 2007, un brewpub di La Jolla si trovava di fronte ad un dilemma: cercare un nuovo birrario o vendere gli impianti. Dan convince il proprietario a lasciarli utilizzare l'impianto di produzione annesso al ristorante. Dopo 15 anni passati alla scrivania, Dan abbandona il suo posto di lavoro in ufficio per tuffarsi in questa nuova avventura. Passano due anni ed è già tempo di spostarsi, perché gli impianti non riescono a soddisfare tutta la richiesta; la Mission Brewery si sposta per un paio di anni a Chula Vista, prima di un nuovo trasloco negli ampi spazi del Wonder  Bread Building, dove viene attrezzata anche l'immancabile tasting room con 400 posti a sedere. Ad aiutare Dan Selis c'è oggi il birraio John Egan.   "Shipwreck" significa “naufragio”, ed è un po' quello che ci è capitato bevendo questa robusta Double IPA, la cui ricetta prevede luppoli Cascade, Magnum, Centennial e CTZ.  L’inizio dell’immaginario viaggio in nave è incoraggiante, con uno splendido aspetto, ambrato carico con riflessi rosso rubino. La schiuma non è molto generosa, ma fine e cremosa, color ocra. Purtroppo già l’aroma denota molta poca freschezza: naso dolcissimo, agrumi quasi canditi (arancio e pompelmo), caramello e solo in sottofondo qualche reminiscenza di resina, con una leggera pepatura. L’aroma è molto forte ma quasi stucchevole, e un po’ grossolano. C’è tanto dolce anche in bocca, caramello, biscotto, note di sciroppo d’acero, zucchero, tutti elementi che il “calcio” amaro, a fine corsa, non riesce a bilanciare; luppoli evanescenti, il palato rimane zuccherino, quasi appiccicoso, con un leggero calore alcolico e note di scorza d’arancia sotto spirito. Il corpo è massiccio, con una buona morbidezza ed una carbonazione media. Bottiglia disgraziata o chissà da quanto residente sugli scaffali. Su Ratebeer  la Shipwreck Double IPA si prende un decoroso 93/100, sarebbe quindi il caso di riprovarla in condizioni più ottimali. Formato: 35.5 cl., alc. 9.25%, IBU 75, lotto e scadenza non riportati, prezzo 2.91 Euro ($ 3.49)

sabato 29 settembre 2012

Coronado Idiot IPA

Coronado Brewing Company è situata sull'omonima penisola che s'affaccia da un lato sull'Oceano Pacifico e dall'altro sul downtown di San Diego. Originariamente era un isola, separata dalla terra da un canale d'acqua poco profondo che fu poi chiuso dopo la seconda guerra mondiale; nel 1969 fu inaugurato lo scenografico ponte che rende oggi molto più rapido il collegamento con la città di San Diego. Oggi a Coronado trova sede un'importante base navale della Marina Americana, e la maggioranza dei residenti sono degli ex-militari ora in pensione. Secondo le statistiche tanto care agli americani, il reddito medio annuo di una famiglia che abita sulla Coronado Island è di 120.000 dollari (dato del 2007). L'area è anche nella "top 20" dei luoghi più cari di tutti gli Stati Uniti; con un costo medio per casa di circa 1.840.000 dollari (2010) è inoltre al terzo posto nella "classifica" della sola contea di San Diego. Non osiamo andare a cercare quali siano i primi due, ma una certa idea ce la siamo fatta. Se stavate quindi facendo un pensiero all'emigrazione, è meglio che vi dirottiate su altre mete più a portata di portafoglio. Potete però venire a mangiare ed a bere alla Coronado Brewing Company, che si trova nella bella Orange Avenue; il birrificio fu fondato nel 1995 da due coppie di fratelli: Ron e Rick Chapman, Tim e Shawn DeWitt.  Fatto abbastanza insolito, nessuno di loro aveva alcuna esperienza come homebrewer, ma solamente la voglia di aprire un locale dove si potesse mangiare e bere bene. Così, qualche mese prima di aprire, Shawn (che lavorava come barista in un bar a Coronado) fa un periodo di prova un po' più a nord, a La Jolla Brewing Company. Il focus del birrificio è indirizzato subito su birre facili da bere, che potessero accompagnare le pietanze servite in loco, ma ben presto il birraio Sean Farrell, chiamato a garantire la sufficiente qualità e costanza produttiva, introduce l'immancabile Double IPA, una Imperial Stout, una Imperial Red Ale ed un Barley Wine. Anche in questo caso, su consiglio del commesso, non abbiamo resistito al "fascino" di una tipica Double West Coast IPA ed abbiamo messo nel carrello una bottiglia di Idiot IPA; Nugget, Columbus, Centennial, Chinook e Cascade costituiscono il “ventaglio” dei luppoli usati. Nel bicchiere è ambrata, la schiuma leggermente “sporca” è fine e cremosa, dalla buona persistenza. Aroma fresco ed elegante, classicamente West Coast, con leggeri aghi di pino, frutta tropicale (mango, ananas) e pompelmo. In bocca risalta per un corpo molto ed insolitamente leggero per una “Double IPA”; il malto è quasi impercettibile, c’è subito frutta tropicale dolce e pompelmo che vengono bilanciate dal classico amaro con resina, pompelmo ed una nota pepata. C’è pulizia e un buon equilibrio, visto che l’amaro è intenso senza raschiare mai il palato. L’alcool dichiarato (8.5%) è praticamente inesistente, e la bottiglia finisce molto in fretta. In sostanza pregi e “difetti” di questa birra tendono a coincidere. Ad alcuni sembrerà una Double IPA troppo leggera che manca di “malto” e di presenza alcolica; per altri questo può ritenersi un sacrificio necessario in favore della facilità di bevuta. Non è la migliore Double IPA che abbiamo trovato, ma si è ugualmente trattato di una bella bevuta. Formato: 65 cl., alc. 8.5%, IBU 90, lotto e scadenza non riportati, prezzo 5.83 Euro ($ 6.99).

venerdì 28 settembre 2012

Manzanita IPA

Ritorniamo nella contea di San Diego, per parlare della Manzanita Brewing Co., fondata da Jeff Trevaskis e Garry Pitman, che ha aperto le porte a luglio del 2010 a Santee, una trentina di chilometri a nord-est di San Diego, verso l'entroterra. Un'amicizia iniziata dodici anni fa, con Garry ex-homebrewer che ha introdotto Jeff al mondo della craft beer; l'idea di aprire un birrificio era nelle loro teste da diverso tempo, ma si è concretizzata solamente un paio di anni fa. Nel frattempo i due avevano iniziato ad acquistare, di tanto in tanto, tutte le attrezzature necessarie che erano state temporaneamente stivate a casa di Jeff. Solamente sei le birre in produzione, con stili che privilegiano la bevibilità, mentre risalta l’assenza di birra “scura” (stout, porter). Fa eccezione l’IPA della casa, che ha una gradazione alcolica (8%) quasi ai confini “dell’Imperial/Double” ma che comunque è risultata una birra davvero molto facile (e pericolosa) da bere.  Ambrata, con dei bei riflessi color rame, forma un “cappello” molto persistente di schiuma cremosa e leggermente ocra. Ottimo aroma, pulito, elegante, ricco di frutta tropicale (mango, ananas, melone, papaya) e pompelmo. Le ottime impressioni dell’aroma sono anche confermate in bocca; “classico” imbocco di malto biscotto seguito da dolci note di frutta tropicale e, soprattutto, pompelmo. Molto lungo ed intenso il finale, ricco di scorza di pompelmo con qualche nota di resina ed una leggera pepatura. Una ottima IPA West Coast, profumata, dal gusto (e dall’amaro) molto intenso ma mai aggressivo; molto pulita, corpo medio, morbida e gradevole in bocca, si lascia bere con buona facilità nascondendo in modo molto sottile l’alcool. Formato: 65 cl., alc. 8%, IBU 88, lotto e scandenza non riportati, prezzo 4.99 Euro ($ 5.99).

giovedì 27 settembre 2012

High Water No Boundary IPA

Oggi parliamo di una Beer Firm californiana, High Water Brewing. Viene fondata nel Giugno 2010 da Steve Altimari e John Anthony. Steve proviene dalla Silicon Valley, e dopo 12 anni passati a lavorare nel campo dell’High Tech decide di cambiare vita frequentando un corso per diventare mastro birraio. Nel 1995 viene assunto alla Valley Brewing Company, dove riesce anche a vincere diverse medaglie in alcune edizioni del Great American Beer Festival. Anche il secondo socio, John Anthony, dopo 25 anni di carriera nel marketing, viene colto dalla passione per la birra “di qualità”, lascia il proprio impiego per fondare la Craft Brewers Distributing, un’azienda che distribuisce i prodotti di Stone Brewing, North Coast Brewing, Ale Smith, Lagunitas, Drake’s, Devil’s Canyon. La sua nuova attività lo porta a conoscere Steve Altimari e a dare vita alla High Water Brewing. La maggior parte della produzione avviene presso gli impianti della Drake's a San Leandro, dove la High Water ha posizionato delle vasche di fermentazione; una parte minor di birre vengono invece prodotte alla Devil's Canyon Brewing Company di Belmont. Anche in questo caso non abbiamo resistito all'assaggio della IPA della casa, chiamata No Boundary IPA, che viene brassata 2-3 volte all'anno  Tipico colore dorato con riflessi arancio, la schiuma bianca ha una buona persistenza ed è cremosa. Il naso non è esattamente entusiasmante: ci sono agrumi, con un'asprezza abbastanza marcata; ricorda il lime, più che il pompelmo. In sottofondo, sentori di cereali; ma l'aroma non ci colpisce né per l'intensità né per la freschezza. Al palato troviamo, in sequenza, note di biscotto e polpa di pompelmo, dolce; a seguire c'è buona intensità d'amaro, ricco di scorza di pompelmo e lime, che caratterizza anche il retrogusto. IPA discreta, molto facile da bere, anche se non completamente pulita; ha corpo medio, una carbonazione modesta ed una consistenza oleosa. Ottiene buoni punteggi su Ratebeer (98) e Beer Advocate (85); non ci ha impressionato, un riassaggio sarebbe necessario. Formato: 65 cl., alc. 6.5%, lotto 10/05/2012, prezzo 6.13 Euro ($ 7.35).

mercoledì 26 settembre 2012

Karl Strauss Tower 10 IPA

La notorietà non è certamente il loro punto di forza, e se pensate alla contea di San Diego, vi verranno prima di tutto in mente nomi come Ballast Point, Stone e Port Brewing/Lost Abbey. Ma prima ancora che questi birrifici esistessero, nel 1989 la Karl Strauss Brewing Company produceva già birra in una città che non aveva un birrificio "locale" da più di cinquant'anni, ovvero dalla fine del proibizionismo. I fondatori furono Chris Cramer e Matt Rattner. Chris era rimasto affascinato da un brewpub che aveva visitato durante un viaggio in Australia; tornato a San Diego, si ricorda di avere un cugino mastro birraio, che di nome faceva appunto Karl Strauss e che da 44 anni lavorava alla Pabst Brewing Co, di Milwaukee. Karl decide di lasciare il lavoro ed il freddo del Wisconsin per aiutare il cugino sotto il caldo sole della California. Il birrificio apre nel febbraio del 1989, con una folla di avventori che per la prima volta nella loro vita si trovavano a bere una birra appena fatta, fresca, non industriale. Il successo è quasi immediato, e già nel 1996 Chris e Matt sono costretti a spostarsi in una location più grande (quella attuale, in Santa Fe Street) per soddisfare tutta la domanda. Nel tempo si sono aggiunti anche sei brewpub/ristoranti nella contea di San Diego ed uno a Los Angeles. Nel 2006, Karl Strauss muore all’età di 94 anni. Sull’etichetta della loro Tower 10 IPA c’è una delle tante torrette che trovate sulle spiagge di San Diego, dalle quali i bagnini monitorano la sicurezza della spiaggia e dei bagnanti; la ricetta è quella classica dei “tre luppoli C americani”: Chinook per l’amaro, un blend di Cascade e Centennial in dry hopping per l’aroma.  E’ dorata, con riflessi arancio; la schiuma, leggermente “sporca” è poco generosa ed ha una persistenza discreta. Il naso non brilla purtroppo di freschezza: marmellata di agrumi (pompelmo ed arancio), caramello, poco altro. C’è pulizia ma poca vitalità. Molto meglio in bocca, con un imbocco molto pulito di biscotto seguito dalla polpa di pompelmo, dolce, subito bilanciata dall’amaro della scorza dello stesso agrume, e del limone. Grande secchezza, ottima pulizia, e buona morbidezza in bocca con un corpo medio ed una consistenza oleosa. Finisce con un bel retrogusto amaro, intenso, ricco di pompelmo con qualche note resinosa. Una IPA penalizzata da un’aroma non al meglio, si riscatta in bocca, risultando una discreta bevuta che però risulta molto lontana dalle migliori “sorelle” brassate nella contea di San Diego. Sarebbe da riprovare in condizioni migliori. Formato: 35.5 cl., alc. 7%, 70 IBU, lotto e scadenza non riportati, prezzo 1,66 Euro ($ 1.99).

martedì 25 settembre 2012

Rough Draft Hop Therapy

La Rough Draft Brewing Company è una delle ultime nate nella contea di San Diego, nella zona di Mira Mesa, una trentina di chilometri a nord della città. Le porte si sono aperte lo scorso Marzo 2012; Jeff Silver, homebrewer da 18 anni e vincitore di numerosi riconoscimenti, ha deciso di lasciare il suo lavoro nel settore finanziario ed assicurativo per lanciarsi in questa nuova avventura. Come ogni birrificio americano che si rispetti, ha già operativa un'accogliente ed ampia tasting room dove i clienti possono assaggiare tutte le produzioni. Da turisti in California è difficile resistere al fascino di una IPA o una Double IPA fresca, e così abbiamo optato per una bottiglia di Hop Therapy, una Double  IPA brassata con Galaxy e Summer due luppoli originari dell'Australia. E' ambrata, con dei riflessi rosso rubino; la schiuma, mediamente persistente, è ocra e cremosa. La prima sorpresa è l'aroma che sprigiona sentori molto dolci di caramello, frutti di bosco maturi, forse ciliegia matura, melone maturo. La seconda sorpresa è al palato, con una carbonazione molto spenta e con una consistenza watery nonostante un contenuto alcolico del 9%.  Il gusto reclama l'assenza dei luppoli per la maggior parte della bevuta: c'è caramello, melassa, biscotto e marmellata d'arancia. Sarebbe anche pulito, ma l'evidente dolcezza non lo rende esattamente gradevole; all'ultimo minuto arriva finalmente un po' d'amaro, resinoso e pepato, che cerca di emergere e di equilibrare quello che sembra un sciroppo di marmellata d'agrumi. Birra con evidenti problemi, quasi priva di bollicine, si rivela un dolcione quasi insopportabile per tre quarti di bevuta fino ad un finale improvvisato, resinoso, che non riesce a risollevare la situazione. Birrificio giovane ma situato in una zona ad altissima qualità: dovranno trovare in fretta la costanza produttiva, o la selezione sarà - crediamo - molto spietata. Formato: 65 cl., alc. 9%, 94 IBU, lotto e scadenza non riportati, prezzo 5.83 Euro ($ 6.99).

lunedì 24 settembre 2012

Russian River Pliny the Elder

Ci sono delle birre verso le quali un appassionato non può che nutrire una specie di rispetto reverenziale, per lo meno alla prima occasione in cui riesce a potarle alla bocca. In un certo senso è come ritrovarsi dall'altra parte dello specchio: di solito sei tu, bevitore, ad osservare, a studiare la birra nel bicchiere cercando di coglierne le sfumature e decidere se lei soddisfi le tue aspettative. Ma per alcune birre è come se le parti s’invertissero; ti scopri essere diventato l’oggetto dell’osservazione e lei, la birra, ti scruta dall'alto della sua fama e sembra quasi dirti: “vediamo se sarai alla mia altezza”. Stiamo ovviamente estremizzando il gioco, ma effettivamente ci si sente molto emozionati, e forse un pochino a disagio, nell'avere davanti una bottiglia di Pliny the Elder dopo averla solamente “letta” e “vista” su libri, pagine internet e filmati su you.tube. Il birrificio è Russian River, a Santa Rosa (California), un centinaio di chilometri a nord di San Francisco; prende il nome dall'omonimo fiume che attraversa questa regione della California, nota soprattutto per i grandi vigneti. Ed infatti la storia di uno dei più quotati birrifici americani ha molto in comune con il vino: il primo proprietario fu infatti la Korbel Champagne Cellars, che aveva costruito un birrificio i mezzo ai vigneti. Nel 2003 la proprietà decidere di cedere il birrificio ed offrono al loro mastro birraio, tale Vinnie Cilurzo, la possibilità di acquistarlo. Anche Vinnie proveniva da una famiglia di viticoltori  a Temecula, in California; nel seminterrato della cantina dei genitori si era improvvisato homebrewer, e nel 1994 aveva aperto con un paio di soci la Blind Pig Brewing Company. In tre anni di vita il microbirrificio aveva ottenuto diversi riconoscimenti al Great American Beer Festival e, leggiamo, erano stati i primi a produrre commercialmente una Double IPA (era la Blind Pig Inaugural Ale, nel 1994). Nel 1997 Cilurzo e sua moglie si trasferiscono nella contea di Sonoma e Vinnie viene assunto alla Russian River come birraio. La Pliny the Elder (Plinio il Vecchio) nasce nel 1999 quando il Bistro di Hayward, in California, decide di tenere il suo primo Double IPA Festival ed invita anche la Russian River, che però non aveva nessuna Double IPA in produzione e deve inventare una nuova ricetta per l’occasione. Il nome non viene scelto a caso: la parte centrale della “Storia Naturale” scritta da Plinio il Vecchio è infatti dedicata alla botanica fornendo (sembra) la più antica descrizione del luppolo (Humulus Lupulus) che si conosca: nel suo libro Plinio paragona il luppolo (rampicante e quindi nocivo agli alberi circostanti) ad un lupo (nocivo alle pecore). La ricetta elaborata da Cilurzo prevede “lupi” di nome Amarillo, Centennial, CTZ e Simcoe; il risultato ha portato la Pliny The Elder al vertice di tutte le classifiche stillate dai beer raters. Per Beer Advocate è la quinta miglior birra al mondo, e la quarta migliore Double IPA al mondo. Ratebeer invece la colloca al diciannovesimo posto nella classifica delle migliori birre al mondo ed al secondo posto (dietro alla Pliny The Younger, che però è disponibile solo alla spina) tra le migliori Double IPA. L’ossessione di Vinnie Cilurzo per la freschezza con la quale vanno bevute le IPA è ribadita con una simpatica scritta che fa da cornicetta intorno all'etichetta  e che recita: “Rispettate i luppoli, bevetela fresca. Non migliorerà invecchiandola! Le birre luppolate non sono fatte per invecchiare! Tenetela lontano dal caldo! Rispettate la vostra “vecchia”: conservatela in frigorifero, bevetela fresca, non invecchiatela! Plinio il Vecchio è un personaggio storico, non fate in modo che lo diventi anche la birra contenuta in questa bottiglia. Non è un barley wine, non invecchiatelo. Invecchiate il vostro formaggio, non la vostra Pliny! Non mettetela da parte per un giorno di pioggia! Bevetela fresca o non bevetela!”. In questo senso siamo stati davvero fortunati ad aver trovato un esemplare imbottigliato il 14 Agosto 2012 che abbiamo bevuto in data 26 Agosto. L’aspetto è quello di una tipica IPA West Coast, dorato, con riflessi arancio, velato; la schiuma è molto generosa e molto persistente, bianca, cremosa. L’aroma è pulitissimo, con leggeri sentori floreali, aghi di pino, agrumi (pompelmo e mandarino); c’è più eleganza che “potenza”, se la confrontiamo con altre Double IPA West Coast dall'aroma esplosivo. Superlativa la sensazione che si ha in bocca, con una grande morbidezza, esemplare: il corpo è medio, come la carbonazione. Siamo molto lontani dalle Double IPA aggressive ed ultra luppolate californiane: quello che colpisce ad ogni sorso è la pulizia e l’equilibrio di tutti gli elementi. C’è un ingresso di biscotto, seguito da note fruttate di pompelmo. Il contenuto alcolico, magistralmente nascosto, sarebbe l’8%, ma la Pliny scende con la facilità e la scorrevolezza di una session beer da quattro gradi. Correttamente secca, ha un lungo finale – pulitissimo e discretamente intenso – ricco di scorza di pompelmo con leggere note di resina ed una lievissima pepatura. Non ha ovviamente senso cercare di stabilire se la Pliny The Elder sia la migliore Double IPA al mondo; è una birra la cui grandezza si rivela nel semplice rispetto e nell'esaltazione delle tre regole di base che (quasi) ogni birra dovrebbe sempre avere: pulizia, equilibrio, facilità di bevuta. Rapporto qualità prezzo davvero ottimo, anche per il livello americano.  Formato: 51 cl., alc. 8%, lotto 14/08/2012, prezzo  3.91 Euro ($ 4.69).

domenica 23 settembre 2012

Hangar 24 Columbus IPA

E' Ben Cook il fondatore della Hangar 24 Craft Brewery, a Redlands, nei dintorni di San Bernardino (California). Birraio professionista da sei anni, con l'ultimo impiego come responsabile della qualità alla Anheuser-Busch di Van Nuys, in California. Nel 2008 trova i giusti locali nei dintorni dell'aeroporto di Redlands, e dà il via alla sua avventura chiamandola Hangar 24.  In pochi anni sono più che raddoppiati e volumi ed oggi, tra birrificio e tasting room, sono quasi una cinquantina le persone che lavorano per Ben. L'immagine del birrificio è tutta basata sull'aeronautica, con un divertente programma di Frequent Flyer per i frequentatori più assidui della tasting room. Abbiamo assaggiato una bottiglia di Columbus IPA, ovvero una "single hop" caratterizzata dal solo utilizzo dell'omonimo luppolo. Si presenta di color rame/ambra velato; la schiuma, molto persistente, è bianca, fine e cremosa. L'aroma non è "esplosivo" come quello di altre colleghe della West Coast ma ugualmente pulito e molto gradevole; spiccano sentori floreali e di agrumi (pompelmo ed arancio). Ottimo anche al palato, con una bella morbidezza, corpo medio ed una carbonazione che ci è sembrata un po' spenta, ma comunque accettabile. L'imbocco di biscotto è seguito da note di polpa di pompelmo, bilanciate subito da un amaro intenso di resina e scorza di pompelmo, elegante, pulito, mai raschiante. C'è il giusto livello di secchezza, l'alcool è molto ben nascosto, e il retrogusto è lungo, intenso e resinoso. Una single-hop davvero molto interessante, con un bel profilo aromatico, un gusto amaro intenso ma tenuto sempre sotto controllo in modo da non risultare mai un ostacolo alla facilità di bevuta. Ottima. Formato: 65 cl., alc. 7%, 77 IBU, lotto e scadenza non riportati, prezzo 4.04 Euro  ($ 4.85).

Stone Ruination 10th Anniversary IPA + 16th Anniversary IPA

Le altre due birre che abbiamo bevuto allo Stone Bistro sono, oltre alla Enjoy By IPA ( link ) altre due "novità" del 2012. Si tratta della Stone Ruination 10th Anniversary IPA  e della 16th Anniversary IPA, rispettivamente quella al centro della foto e quella (per chi guarda) alla estrema destra. Vediamole nel dettaglio.
Ruination 10th Anniversary IPA:  la Ruination IPA ha compiuto dieci anni a giugno 2012. Fu la prima "double IPA" al mondo, leggiamo, ad essere prodotta regolarmente tutto l'anno ed essere distribuita in bottiglia. Per celebrare l'evento, la Stone ha deciso di farne uscire una versione speciale, aumentando la percentuale alcolica da 7.7 a 10.8;  nessun sostanziale cambiamento nella ricetta, con malti Pale e Crystal 15, Columbus e Centennial, ed un nuovo blend di Citra e Centennial per il dry hopping. Il colore è dorato molto carico, quasi ramato, la schiuma bianca e cremosa. L'aroma è molto pronunciato e pulito, a dominare è la frutta tropicale con mango, ananas e passion fruit; più in sottofondo ci sono agrumi (pompelmo e limone), sentori di caramello. In bocca è davvero una birra molto solida, massiccia, dal corpo pieno con una robusta base di biscotto, note di caramello cui seguono note di frutta tropicale, sciroppose, di mango, pompelmo ed arancia. E' solamente un istante di "calma" apparente, perché il resto della bevuta è una "colata" resinosa di luppoli, molto amara, molto intensa ma molto pulita e gradevole. Anche in questa birra l'alcool è percepibile ma molto ben nascosto. Ottima celebrazione di una birra già grandissima (la Ruination) che abbiamo però bevuto troppo tempo da per poter fare un adeguato confronto. Formato: 23 cl., alc. 10.8%. 110 IBU, prezzo 3.33 Euro ($ 4.00)
16th Anniversary IPA : il 26 luglio 2012 la Stone ha celebrato il suo sedicesimo anniversario commercializzando questa birra che è arrivata nei  negozi il 13 Agosto. Si tratta ovviamente di una double IPA, la cui ricetta prevede segale, malti Pale, Vienna, Light Munich e Dark Munich. Il luppolo usato per l'amaro è il Magnum, Delta e Target sono "finiti" nel whirpool, il dry hopping è di Calypso ed Amarillo; in aggiunta il mastro birraio Mitch Steele ha aggiunto olio di limone e verbena (Aloysia citrodora). Il colore è  tra il ramato e l'ambrato, la schiuma è cremosa e bianca. Naso West Coast con mango, pompelmo, mandarino e limone. Anche questa double IPA ha il corpo pieno, massiccio, una carbonazione modesta ed una consistenza oleosa. L'alcool si fa però sentire molto di più rispetto alle due "compagne" di degustazione (Enjoy by IPA e Ruination 10th); si apre con biscotto ed alcool, quindi, seguiti da note di lime, pesca/mango ed erbacee. Anche qui arriva quasi subito un'ondata amara, resinosa, molto intensa ma pulita e gradevole, con un ritorno di scorza di limone. Senz'altro la più potente - ed anche la meno facile da bere - delle tre; abbastanza impegnativa, è quella che ci è piaciuta di meno, anche se stiamo sempre parlando di livelli davvero elevatissimi di qualità. Formato: 23 cl., alc. 10%, 85 IBU, prezzo 3.33 Euro ($ 4.00)

sabato 22 settembre 2012

Stone Enjoy By IPA (9.21.12)

Si trova ad una trentina di chilometri dalla costa lo Stone World, nei sobborghi di Escondido, circa 45 chilometri a nord di San Diego, California. Se capitate da quelle parti, la deviazione verso l'arido entroterra e l'abbastanza anonima città di Escondido vale senza dubbio il prezzo del biglietto. Quasi nascosta da un rigoglioso giardino, l'edificio che ospita il Bistro ed il birrificio della Stone Brewery tiene assolutamente fede al suo nome: vedrete richiami alla pietra ovunque, a partire dal monolite che vi accoglierà all'ingresso sino al rivestimento dei bagni. E sin dall'arrivo è davvero difficile pensare che state per visitare quello che, in effetti, sarebbe un "piccolo" birrificio artigianale. Vi attende persino un parcheggiatore, che per cinque dollari vi parcheggerà la macchina in un luogo vicino all'entrata; per chi vuole invece fare da solo, c'è un ampio ma spesso affollatissimo parcheggio, soprattutto nel weekend. All'ingresso c'è la reception, dove vi presenterete e dove uno dei tanti camerieri vi accompagnerà ad un tavolo della enorme e luminosissima sala: da un lato, gli impianti produttivi a vista, dall'altro gli splendidi "Stone Gardens". Ma lo "Stone World" è anche un enorme negozio di merchandising, dove troverete dalle classiche magliette e bicchieri agli inaspettati teli da bagno, lenzuola e body per neonati, in aggiunta a qualche bottiglia speciale disponibile solamente in loco.
Alla spina abbiamo degustato l'ultima nata in casa Stone, chiamata  "Enjoy By IPA (9.21.12)", alla quale è stato anche dedicato un micro sito. Forse è la prima volta che l'assunto "la birra va bevuta fresca (giovane)" viene portato all'estremo, arrivando a chiamare una birra "IPA da consumarsi entro".  Sono solamente 35 i giorni di vita che la Stone dà a questa birra; imbottigliata il 17 Agosto 2012, scadenza 21 Settembre. Non contenti di questo, sul sito della Stone potete trovare anche un formulario dove fare le rimostranze nel caso abbiate trovato su qualche scaffale una bottiglia scaduta. I ragazzi di Escondido promettono di prendere i dovuti provvedimenti verso chi continua a vendere le loro birre anche oltre la data di scadenza. Un progetto, l'Enjoy by IPA, reso possibile solamente grazie ad un veloce canale di distribuzione capace di far pervenire le birre nei negozi in pochissimo tempo; per questo la Stone ha deciso di effettuare una distribuzione mirata solamente in alcuni stati. Il primo lotto di Enjoy by IPA è stato infatti distribuito solamente in California, New Jersey ed a Chicago, tutti luoghi dove la "craft beer" ha un seguito molto forte e dove le bottiglie sono andate a ruba in poco tempo. Il prossimo lotto di Enjoy by IPA sarà imbottigliato l'8 Ottobre, avrà data di scadenza 9 Novembre 2012 e sarà distribuito solamente in Colorado ed Ohio. Abbiamo bevuto al birrificio la Enjoy By IPA (9.21.12) in data 25 Agosto, quando aveva "solamente" 8 giorni di vita; la sua  incredibile freschezza ha quasi eclissato le altre due compagne di bevuta, la Ruination 10th Anniversary IPA e la 16th Anniversary IPA  delle quali parleremo nel prossimo post.  Impressionante anche la luppolatura che questa birra ha avuto. Calypso nel mosto, Super Galena per l'amaro; per l'aroma sono stati usati Simcoe, Delta, Target ed Amarillo, secondo una tecnica chiamata "hop bursting", ovvero duranti gli ultimi istanti della bollitura e Motueka, Citra e Cascade nel whirpool. Se tutto questo non vi basta, c'è stato anche un dry hopping di Nelson Sauvin e Galaxy. Per chi volesse approfondire, segnaliamo questa pagina in inglese. E' dorata con riflessi arancio, schiuma  bianca, fine e cremosa. L'aroma è davvero eccezionale, freschissimo, difficile davvero staccare il naso da una simile delizia: un piccolo compendio di West Coast, con tantissimo pompelmo, mandarino, aghi di pino e più in secondo piano frutta tropicale con mango in evidenza. Assolutamente meraviglioso. Ma anche in bocca non è da meno: la percentuale alcolica è 9.4%, ma questa Enjoy By IPA scorre troppo pericolosamente veloce per  crederci. In bocca ci sono tutti gli elementi fondamentali di una grande IPA West Coast: leggero caramello, molti agrumi (pompelmo), note di frutta tropicale ed una lieve nota alcolica a ricordarci che abbiamo davanti una "double IPA". Corpo medio e consistenza oleosa, grande secchezza, estrema pulizia, eccezionale fragranza di tutti i sapori e gli odori. Ci lasciamo, a malincuore, con un retrogusto lungo, di resina e pompelmo, intenso e pulito. Diamo merito all'estrema freschezza ed alla splendida location, ma ci è sembrata la miglior "double IPA" mai bevuta fino ad ora. Formato: 23 cl., alc. 9.4%, 88 IBUs, prezzo 3.33 Euro ($ 4.00).

venerdì 21 settembre 2012

Knee Deep Hoptologist DIPA

Knee Deep Brewing Company viene fondata nel 2010 a Reno, nel Nevada, da Jerry Moore; nemmeno un anno di vita ed il birrificio si sposta a Marzo del 2011 a Lincoln, non lontano da Sacramento (California) nell'attesa che sia pronta la nuova e più ampia sede di Reno. Il mastro  birraio è Jeremy Warren, ex-homebrewer vincitore di numerosi premi che gli sono valsi l'invito ad un "brewing camp" organizzato dalla Sierra Nevada. In pochi anni di vita il birrificio ha già una gamma di sette-otto birre prodotte regolarmente tutto l'anno più una produzione speciale, in quantità limitata, per ogni mese. Questa Hoptologist, dalla divertentissima etichetta, viene prodotta tutto l’anno. Si tratta di una Double/Imperial India Pale Ale, la cui ricetta prevede un blend di malti provenienti da Canada, Germania, Cile ed Inghilterra; i luppoli sono Cascade, Citra, Columbus, Magnum e Hersbrucker. Alla San Francisco Beer Week dello scorso Febbraio, la Hoptologist DIPA trionfa tra le 43 birre partecipanti al dodicesimo Double IPA Festival, ottenendo la medaglia d’oro davanti, nell’ordine, alla Pliny The Elder di Russian River ed alla Stone Ruination. Il colore è tipicamente “West Coast IPA”, dorato con qualche sfumatura arancione, velato; la schiuma, bianca, non è molto generosa ma ha una buona persistenza. L’aroma di questa bottiglia è davvero incredibile, al naso arriva una vera esplosione di frutta tropicale (mango, papaya, ananas, passion fruit) e pompelmo; fortissimo, opulente, pulito ed elegante. Superata l’estasi aromatica, è il momento dell’assaggio. Dal corpo medio e dalla corretta carbonazione, si apre con una base di biscotto, ed una leggera nota etilica; è il pompelmo a dominare in bocca, con mango e frutta tropicale in secondo piano. L’ondata amara non si fa attendere molto: resina e pompelmo, molto intenso, pulito e mai raschiante. Finisce con un bel taglio secco, cui fa seguito un lunghissimo ed intenso retrogusto amaro. Se l'aroma rappresentava l'eccellenza, il gusto è solamente appena un pochino più in basso.  Hoptologist: una splendida Double IPA, pulita, freschissima, in una bottiglia in “stato di grazia” dall’aroma sconvolgente: molto intensa, tutto sommato equilibrata, alcool molto ben mascherato, buona bevibilità. Tra le migliori che abbiamo mai bevuto. Formato: 65 cl., alc. 9%, 102 IBU, lotto e scadenza non riportati, prezzo: 6.66 Euro  ($ 7.99).

giovedì 20 settembre 2012

Drakes Denogginizer

Viene fondata nel 1989, nella baia di San Francisco, in quella che un tempo era la centrale elettrica di una vasto sito industriale dove fino al 1946 vennero assemblati alcuni modelli di macchine Dodge; successivamente, la fabbrica fu utilizzata per la produzione di trattori e mietitrebbie dalla International Harvester e poi la macchine movimento terra Caterpillar. Alla fine degli anni 70 gli impianti produttivi vengono definitivamente chiusi e l’area viene riconvertita in zona commerciale; l’edificio che ospitava la centrale elettrica viene acquistato da Roger Lind che nel 1989 fonda da solo la Lind Brewing Company, occupandosi nei primi anni da solo di tutto, dalla birrificazione alla consegna dei fusti. Nel 1998 Lind vende alla famiglia Rogers, già proprietaria di una torrefazione di caffè adiacente al birrificio, che cambia il nome in Drake’s. Nel 2008 l’ultimo cambio di proprietà, con l’acquisizione da parte di Drakes da parte di John Martin e Roy Kirkorian; un cambiamento che in un certo senso riporta alla origini, visto che Roger Lind aveva iniziato la sua carriera di mastro birraio professionista nel 1987 alla Triple Rock Brewery di Johan Martin. Dal 2008 ad oggi, il birrificio ha visto aumentare del 50% all’anno i volumi di produzione. Denogginizer è l’Imperial IPA della casa, nata nel 2004 dalla mano di Rodger Davis e Josh Miner, due ex-birrai alla Drakes. Il nome della birra si riferisce ad un incidente avvenuto durante la fermentazione della prima cotta; l’enorme quantità di luppoli gettati nel fermentatore (in dry-hopping) aveva otturato la valvola di sfiato del fermentatore causando un terribile aumento della pressione. Josh salì immediatamente su una scala per raggiungere la cima del fermentatore ed azionare manualmente il morsetto di sicurezza per lo sfogo della pressione. Improponibile tentarne la traduzione in italiano di Denogginizer, si può solamente tentare un abbozzo con “lo scavicchiatore”, ovvero colui che toglie (un perno, un cuneo, un piolo) da un luogo in cui era rimasto incastrato. La ricetta pare aver subito numerose modifiche nel corso degli anni; attualmente l’etichetta recita malti Munich e Crystal, Simcoe, Columbus ed un “tocco” di Cascade ed Amarillo come luppoli. Leggermente più scura di una classica IPA West Coast, è di colore ramato velato; la schiuma, bianca, è fine e cremosa ed ha una buona persistenza. Naso carico di frutta tropicale, papaya, mango, passion fruit, davvero molto dolce, sembra a tratti quasi frutta candita; aroma molto forte, ma un po’ grossolano; c’è anche qualche sentore di caramello. In bocca risulta davvero molto appagante sin dal primo sorso: corpo pieno, carbonazione media e soprattutto una grande morbidezza, quasi cremosa che avvolge tutto il palato. Inutile cercare qualche traccia di malto, la partenza è già carica di frutta tropicale sciroppata e pompelmo, con una discreta presenza etilica che però non intacca più di tanto la bevibilità. Gusto davvero molto intenso, prorompente, che trova come contraltare un amaro molto intenso, resinoso e vegetale, molto persistente. Il retrogusto che lascia, poi, sembra quasi non aver fine. Una Double IPA davvero massiccia, sciropposa prima e molto amara poi, che riesce tuttavia a mantenere sempre un buon livello di bevibilità senza arrivare ad azzerare le papille gustative. Formato: 65 cl., alc. 9.75%, 90 IBU, lotto e scadenza non riportati, 6.66 Euro ($ 7.99).

mercoledì 19 settembre 2012

BRUX Domesticated Wild Ale

I Brettanomyces Bruxellensis sono un po' l'ultima moda che ha contagiato la scena brassicola americana. Dopo i luppoli neozelandesi ed il Citra, sono oggi sempre di più le birre che sbandierano in etichetta la parola "bretta" ad indicare appunto l'utilizzo di lieviti selvaggi. Se volete approfondire l'argomento vi consigliamo  questo bell'articolo di Massimiliano Faraggi, mentre noi passiamo rapidamente all'assaggio di questa "BRUX"  (letteralmente descritta come una "ale selvaggia addomesticata"), nata da una collaborazione tra due grandi birrifici californiani, ovvero Sierra Nevada e Russian River. La birra subisce una prima fermentazione con lieviti belgi, alla quale ne segue una seconda, in bottiglia, ad opera dei brettanomiceti. Il colore è tra il dorato ed il ramato, velato; la schiuma è un po' grossolana, generosa ma poco persistente. Il naso, molto pulito, è fortemente caratterizzato dalla speziatura dei lieviti, soprattutto pepe ma anche un leggero tocco rustico e leggermente acidulo tipico dei brettanomiceti. Troviamo anche note asprigne di pera acerba e di scorza di limone. La percentuale alcolica dichiarata in etichetta è (8.3), e l'arrivo in bocca sorprende per la leggerezza che questa BRUX dimostra; vivacemente carbonata, è watery quanto basta per farla scorrere molto rapidamente. La presenza dell'alcool è assolutamente inesistente, ed in assenza d'indicazioni scommetteresti ad occhi chiusi di avere nel bicchiere una belgian ale da 4/5 gradi al massimo. Il gusto è un po' meno complesso ed interessante dell'aroma: troviamo infatti un imbocco di pane e cereali seguito da un brusco passaggio "a vuoto", un po' acquoso, prima dell'arrivo di note fruttate molto attenuate, leggermente aspre, che richiamano l'uva spina ed il limone. Birra molto secca, con una carbonazione molto gradevole e fine (tipo champagne) che interagisce molto bene con la leggerissima speziatura dei lieviti. Chiude con un finale leggermente amarognolo con note  di frutta secca, nocciolo di pesca ed una leggera nota rustica polverosa. Questa BRUX  lascia senza dubbio intravedere delle ottime potenzialità; birra molto giovane, dall'aroma già complesso ma dal gusto ancora in divenire, il che è dovuto alla giovane età anagrafica di questa creazione (uscita a Luglio 2012) che ha senz'altro bisogno di tempo per evolvere per sviluppare determinate caratteristiche in linea con il suo nome. Andrebbe lasciata per un po' di cantina, ma non abbiamo avuto la possibilità di fargliela fare; è comunque già un bel bere. Formato: 75 cl., alc. 8.3%, prezzo 13.32 Euro ($ 15.99).

AleSmith IPA

Della AleSmith Brewing Company avevamo già parlato in questa occasione, degustando una delle loro birre che - con il contagocce ed occasionalmente - arrivano in Italia. Purtroppo, da quanto ne sappiamo, in Italia non è mai arrivata "ufficialmente" nessuna bottiglia di Alesmith IPA, birra che necessita di una breve prefazione "beer geek/rater": secondo Beer Advocate questa birra si colloca al ventisettesimo posto tra la migliori American IPA; per Ratebeer non c'è invece storia, e la AleSmith è, attualmente, la migliore IPA al mondo. Nasce nel 1999, ed il suo primo nome di battesimo è Irie Pirate Ale, ma l'estrema similitudine con un altro prodotto già esistente (non siamo riusciti ad individuarlo, esattamente) consiglia a Peter Zien e Tod Fitzsimmons di cambiarlo per evitare qualsiasi grana legale. Oggi è distribuita nella splendida bottiglia dalla serigrafia molto essenziale che non lascia equivoci sul contenuto. Tipico colore "west coast":  dorato tendente all'arancio, leggermente velato; perfetta la schiuma, bianca, fine, cremosa e compatta, mediamente persistente. Aroma freschissimo, assolutamente pulito, sontuoso, incredibilmente carico di pompelmo e frutta tropicale (mango, ananas, melone, passion fruit), con qualche leggero sentore floreale e di aghi di pino. Quasi ci commuoviamo al suo ricordo. Le premesse non sono completamente mantenute in bocca: i sapori ci sono tutti, è una birra assolutamente pulita che però abbiamo trovato in una bottiglia molto poco carbonata che le ha tolto un po' di vivacità. Le danze iniziano dalla frutta tropicale, con tanto mango e tanta pesca, leggere note di biscotto ed accenni di caramello, ma subito il palato è avvolto da un amaro (pompelmo e resina) molto morbido ed avvolgente, intenso ma mai aggressivo.  Facilissima da bere, l'alcool è praticamente inavvertibile, ha un corpo medio ed una consistenza oleosa. Molto secca, finisce con un lungo retrogusto di pompelmo e resina, intenso, appagante ed elegante. Ha poco senso cercare di stabilire se questa sia davvero la migliore IPA al mondo, ma certamente possiamo dire che è tra le migliori cinque che abbiamo mai assaggiato. Peccato per la scarsa carbonazione che le ha tolto un po' di energia, ma per tutto il resto abbiamo avuto nel bicchiere una commuovente session beer di oltre sette gradi alcolici. Fantastica. Formato: 65 cl., alc. 7.25%, lotto e scadenza non riportati, prezzo 4.74 Euro ($ 5.68).

lunedì 17 settembre 2012

Pizza Port The Jetty IPA

La storia di Pizza Port è quella di un fratello ed una sorella, Gina e Vince Marsaglia che, poco più che ventenni, arrivano dal Colorado per aprire  nel 1987 un piccolo ristorante a Solana Beach, a nord di San Diego: si chiama Pizza Port e per qualche anno ci sono solo pizze e chicken wings. Ma Vince è anche un provetto homebrewer che fa esperimenti nel retro del ristorante; le birre sono buone, la produzione eccede ampiamente il fabbisogno familiare ed ecco l'idea di installare un piccolo brewpub all'interno della pizzeria. E' il 1992 quando viene spillata al pubblico la prima pinta di birra al Pizza Port. Il successo è notevole, in pochi anni avviene l'apertura di altre due filiali sempre nei dintorni di San Diego, a Carlsbad (1997) ed a San Clemente (2003); nonostante in tutti e tre i locali ci sia un impianto di produzione indipendente, le quantità non sono sufficienti a soddisfare la domanda di tutti i clienti. Il problema viene risolto nel 2006, quando la Stone Brewing Company ha bisogno di più spazio e mette in vendita i propri locali a San Marcos. C'era già grande amicizia tra Stone e Pizza Port, la prima pinta di Stone Pale Ale aera stata infatti spillata, nel 1996, proprio al Pizza Port. Gina e Vince hanno infatti sempre offerto al pubblico, oltre che le proprie birre, anche quelle di altri birrifici da loro stimati. "Se trovo una birra interessante - sostiene Vince - non la considero una rivale; non vedo l'ora di provarla e magari di offrirla in uno dei miei locali".  Prima di proseguire facciamo un passo indietro: dal 1997 il mastro birraio del locale a Solana Beach è un certo Tomme Arthur. Gina, Vince, Tomme ed un altro socio (Jim Comstock) comprano il vecchio birrificio della Stone e fondano la Port Brewing Company. Tomme lascia Solana Beach e si sposta a San Marcos, per supervisionare il nuovo progetto che, oltre a garantire finalmente la possibilità di produrre birra non solo per i vari Pizza Port, ma anche per la distribuzione ad altri pub, bottiglie e, soprattutto, iniziare quegli esperimenti con le birre acide e le maturazioni in botte che aveva sempre sognato di fare, utilizzando il marchio Lost Abbey. Il resto è storia abbastanza recente. Nel 2010 apre la quarta sede di Pizza Port, a Ocean Beach, proprio nell'anno dei record per la California e i ragazzi di Port: al Great American Beer Festival, i birrifici della contea di San Diego portano a casa 21 medaglie, quelli della California 45, ovvero più della somma di quelle ottenute da Belgio, Germania ed Inghilterra. Ma di quelle 21 medaglie vinte dalla contea di San Diego, 10 sono di Pizza Port.  Per questa volta facciamo quindi un'eccezione e presentiamo dunque una birra alla spina, anche perchè le birre che escono a nome Pizza Port sono disponibili solamente in questo formato. Si tratta della Jetty IPA che abbiamo assaggiato nella location di Ocean Beach; è di color rame, nella pinta forma circa un "dito" di schiuma leggermente ocra e mediamente persistente. L'aroma è davvero spettacolare, freschissimo ed assolutamente pulito; racchiude in sé tutte le sfumature della West Coast:  frutta tropicale (mango, papaya), pompelmo, leggeri sentori di aghi di pino. Davvero difficile staccare il naso, ma il gusto non è da meno; leggero imbocco di biscotto, caramello appena percepibile, il palato è attraversato da un'ondata di frutta tropicale e pompelmo. A bilanciare c'è un bell'amaro, dove predomina il pompelmo con qualche sfumatura resinosa. Chiude secca, pulitissima, lasciando un retrogusto amaro di media intensità. Birra dalla facilità di bevuta imbarazzante, nonostante una gradazione alcolica non trascurabile, che abbiamo trovato ai limiti della perfezione. Freschissima, sprizza luppolo (Simcoe e Centennial) da ogni poro mantenendo sempre un bell'equilibrio e mantenendosi lontana da ogni estremismo. Intensa e profumata, in stato di grazia, un'assoluta goduria. Ottima in abbinamento con un'insidiosa pizza carica di temibili jalapeños messicani, con i peperonicini che esaltavano la leggera pepatura resinosa dei luppoli e con la birra che offriva ad ogni sorso un refrigerio "defaticante".  Formato:  47 cl., alc. 7.6%, $ 4.

sabato 15 settembre 2012

SKA Decadent Imperial IPA

Altro birrificio che ha uno stretto legame con la musica, la SKA Brewing Company (nome che s’ispira all'omonimo genere musicale ) viene fondata nel 1995 a Durango (Colorado) da Bill Graham and Dave Thibodeau. La scelta della prima location dove iniziare birrificare è alquanto curiosa: i locali all’Bodo Industrial Park furono scelti dai due proprietari perché, al contrario di altri visitati, avevano già un bagno con una doccia funzionante.  Il dettaglio sembra banale, ma per i due ragazzi. allora appena ventenni, non lo è: nel caso gli affari fossero andati male e fossero stati costretti a vendere le loro case per ripagare i debiti, si sarebbero potuti trasferire a vivere, dormire e lavarsi all’interno del birrificio stesso. Fortunatamente le cose sono andate bene ed oggi, al posto della doccia è stata allestita una tasting room. Graham e Thibodeau iniziano come hombrewers e, coerenti con la loro natura “punk”, dichiarano di aver aperto un microbirrificio solamente con l’obiettivo “di ubriacarsi”. Con queste premesse non è certo facile trovare dei finanziatori, ed infatti è solamente grazie ad un prestito di 47.000 dollari fatto dal padre di Dave che possono affittare uno spazio ed acquistare gli impianti di un vecchio caseificio e trasformarli per la produzione della birra. In un primo periodo mantengono i loro lavori, birrificando (e bevendo birra) nelle ore notturne; quasi tutta la loro produzione, in fusti, viene principalmente acquistata dagli amici per le loro feste. La svolta arriva nel 1997 con l’ingresso di Matt Vincent, già mastro birraio alla Durango Brewing Company. Matt porta esperienza e, soprattutto, investe la sua eredità apportando nuove finanze. Da allora il birrificio ha visto i volumi crescere in doppia cifra di anno con la conseguente necessità di ampliare gli impianti per poter soddisfare tutta la domanda; è arrivata una linea per l'imbottigliamento e molte birre sono anche disponibili in lattina. Vi consigliamo senza dubbio di visitare lo splendido sito internet del birrificio, davvero molto ben curato, mentre noi passiamo all'assaggio di questa Decadance Imperial IPA, un piccolo “mostro” da 99 IBU e il 10% di volume alcolico, venduta in una elegante bottiglia con un vistoso copri tappo in ceralacca, bello da vedere ma molto poco pratico da aprire. E' di colore arancio velato; la schiuma è bianca, molto compatta, fine e cremosa, molto persistente. Il naso è pulito ma poco pronunciato e,  ci sembra, non molto fresco; marmellata d'arancio, polpa di pompelmo, caramello, sentori di lampone e una discreta presenza etilica. Piena corrispondenza in bocca, dove arriva con un corpo medio, meno sostenuto del previsto, una carbonazione moderata ed una consistenza oleosa. Troviamo, in sequenza, note di biscotto, marmellata d'arancio, scorza di pompelmo a bilanciare. L'amaro non è particolarmente intenso, si fa attendere un po' per poi caratterizzare completamente il retrogusto, mediamente persistente, ricco di  note vegetali e resinose. Nonostante la minacciosa etichetta, si è rivelata una Double IPA abbastanza "tranquilla", con un buon equilibrio, una ottima bevibilità ed un alcool molto ben nascosto. C'è pulizia, quello che manca è secondo noi la freschezza che, eliminando le note più pungenti e vivaci della luppolatura, tende ad appiattire un po' gusto ed aroma rendendo la bevuta un po' noiosa, alla lunga. Formato: 65 cl., alc. 10%, 99 IBU, lotto e scadenza non riportati, prezzo 4.49 Euro ($ 5.39).

venerdì 14 settembre 2012

Tenaya Creek Hop Ride IPA

Las Vegas non è probabilmente la prima destinazione che vi verrà in mente se pensate alla “craft beer” americana. Dominata da enormi cartelloni pubblicitari di marchi multinazionali, questa surreale città (?) americana ad un primo sguardo è effettivamente popolata da individui che sorseggiano, a collo, una bottiglia di Coors o Miller (rigorosamente light) seduti ai tavoli dei casino. Ma basta guardarsi un attorno per scoprire che con un po’ di attenzione si può bere bene anche nella “città del peccato”; molti bar offrono bottiglie di Lagunitas IPA, al BLT Burger dell’hotel Mirage abbiamo mangiato un ottimo hamburger accompagnato da una Stone IPA alla spina, e numerosi ristoranti hanno in carta diverse “craft beers” in bottiglia. All’interno dell’hotel Venetian trovate anche il microbirrificio Sin City Brewing Company, che ci ha impressionato più per la qualità e l’avvenenza del personale dietro le spine che per le birre offerte. La Good Beer Guide West Coast del CAMRA segnala come luogo prediletto il Freakin’ frog  un pub con cucina dalla grande selezione, soprattutto in bottiglia, per raggiungere il quale dovrete però allontanarvi un po’ dalla famosa “strip”.  Anche i due migliori birrifici che operano in città, secondo Ratebeer, sono ubicati un po’ lontani dai neon dello scintillante  Las Vegas Boulevard (the Strip):  la Big Dog e la Tenaya Creek brewery, della quale siamo riusciti ad assaggiare la Hop Ride IPA.  Tenaya Creek (che immaginiamo prenda il nome dal famoso canyon del Yosemite National Park) apre le porte nel 1999 come ristorante/brewpub; nel 2008 la decisione “strategica” di chiudere la cucina e di concentrarsi esclusivamente sulla produzione di birra, con la realizzazione di una linea d’imbottigliamento. La Hop Ride IPA viene brassata utilizzando luppoli Magnum, Summit e Cascade. E’ di color arancio/rame, con un cappello molto generoso di schiuma bianca, molto persistente e quasi pannosa. Aroma abbastanza leggero, con qualche sentore di agrumi (pompelmo), fiori e di cereali. Nulla di entusiasmante neppure  al palato; leggera base di malto, un po’ di caramello, polpa di arancio e pompelmo. Quello che manca è l’intensità; anche l’amaro (pompelmo e leggera resina)  è poco incisivo; il finale un po’ annacquato non migliora di molto le cose, lasciando un retrogusto mediamente persistente, resinoso ed erbaceo. Quello che è invece abbastanza evidente è la componente alcolica, che rende la bevuta meno agevole del previsto.  IPA bevibile, non molto pulita, che può indubbiamente rappresentare una buona alternativa alle industriali che dominano Las Vegas; ma se la confrontiamo con altre “craft beers” che possono trovare senza grosse difficoltà anche nella “città del peccato”, il confronto è qualitativamente quasi impietoso. Formato: 65 cl., alc  7.2%, lotto e scadenza non riportate, prezzo 3.74 Euro ($ 4.49).

giovedì 13 settembre 2012

Stone Imperial Russian Stout

Difficile riassumere in un post la storia della Stone Brewing Company, fondata nel 1996 da Greg Kock e Steve Wagner. Della loro splendida sede ad Escondido, circa 50 chilometri a nord di San Diego, parleremo più in dettaglio in un prossimo post ad hoc. Visitando oggi il birrificio con bistro e shop annesso si fa onestamente fatica a pensare alla Stone come ad un microbirrificio; le dimensioni, se pensiamo all'Europa, sono davvero imponenti. Parliamo di volumi annuali di produzione che superano i 100.000 barili; all'inizio non è stato ovviamente tutto così facile. E' la musica a far incontrare i due fondatori; Greg aveva uno studio/sala prove a Los Angeles che anche Steve frequentava. Qualche anno dopo, nel 1992, i due si rincontrano casualmente ad un corso di degustazione birra, e decidono d'iniziare a collaborare; la sede dei primi esperimenti è la cucina di Steve, che tra i due era quello con maggior esperienza di homebrewing. Greg inizia invece la raccolta dei fondi e bussa la porta di diversi potenziali investitori. Dopo quattro anni di esperimenti, fallimenti e successi, nel 1996 apre finalmente a San Marcos la Stone Brewing Company. Da quel giorno è stata un crescita senza sosta, e dai 400 barili dei primi mesi si è arrivati a superare la soglia dei centomila, gli impianti sono stati più volte ingranditi ma non è tutto; è arrivato lo Stone World Bistro and Gardens del quale parleremo in un prossimo post, ci sono le Stone Farms, (nove acri di terreno adibiti a fattoria che riforniscono in parte lo Stone Bistro), lo Stone Catering ( che ne direste di affidare a loro il pranzo del vostro matrimonio ?), diversi libri, tre negozi proprietari (Company Store) nella contea di San Diego dove potete acquistare birre, merchandising e riempire il vostro growler. Se tutto questo non basta, c'è in costruzione lo Stone Hotel, 50 camere nei dintorni del birrificio, l'aumento della capacità produttiva a 500.000 barili l'anno, l'apertura di un secondo bistro a San Diego (Liberty Station) ed il progetto più volte annunciato ma non ancora attivato di aprire un sito produttivo in Europa. Ma a monte di ogni cosa ci sono ovviamente delle grandi birre, che nascono dalla collaborazione di Steve Wagner con l'attuale mastro birraio Mitch Steele. La Imperial Russian Stout fu prodotta per la prima volta nel luglio del 2000, e negli anni si è guadagnata la reputazione di terza miglior Imperial Stout al mondo secondo l'americano Beer Advocate, mentre nella classifica del nordico (europeo) Ratebeer la birra si piazza (solamente) al numero 24. Luppolata con il solo Warrior, si presenta di color ebano scurissimo, ai confini del nero; impeccabile la schiuma color nocciola, molto fine e cremosa. Al naso emerge una torrefazione molto elegante e raffinata di malti, sentori di caffè, cacao amaro, e pane nero; il tutto amalgamato da una leggera nota alcolica che aumenta man mano che la temperatura aumenta. In bocca è molto morbida, il corpo è pieno e la carbonazione contenuta; sorprende soprattutto per una consistenza leggera, tra l'oleoso e l'acquoso, che non ti aspetteresti da una birra dal contenuto alcolico molto importante (10,5%). Questa Imperial Stout riesce così ad essere facile da bere ma ugualmente morbida e mai sfuggente; lo stesso discorso si applica alla componente alcolica: c'è, sempre presente, scalda, ma è una presenza discreta che non rallenta mai la bevuta. Non stiamo ovviamente parlando di una session beer, nel bicchiere abbiamo sempre una birra che richiede la giusta dose di cautela e che va comunque sorseggiata piuttosto che trangugiata. Al gusto troviamo tuttavia molta frutta sotto spirito, soprattutto prugne e mirtilli, e sorprendentemente in secondo piano caffè e tostature; a fine corsa emerge anche una leggera nota di anice. Lascia un lungo retrogusto caldo ed etilico, con un amaro tostato e leggermente terroso. Ci è sembrata una birra davvero molto solida e pulita, davvero ben costruita, anche se ci aspettavamo un pochino di più dal lato caffè/cioccolato; birra abbastanza giovane (uscita ad Aprile 2012)  ha probabilmente bisogno di un po' di cantina per smussare alcuni angoli ed evolvere. Visto il prezzo americano, è senza dubbio consigliato l'acquisto di una mezza dozzina di bottiglie da lasciare poi a riposare. Formato: 65 cl., alc. 10.5%, IBU 65, lotto 2012, scad. non riportata, prezzo 5.83 Euro ($ 6.99). 

mercoledì 12 settembre 2012

Deschutes Hop in the Dark CDA

Seconda "Deschutes", dopo la Mirror Pond che abbiamo assaggiato in questa occasione.  E' la volta della Hop In the Dark, una birra dalla splendida etichetta il cui nome gioca con la frase inglese "hope in the dark", ovvero "speranza nel buio"; qui, nel buio, c'è giustamente il luppolo; il birrificio dell'Oregon la definisce in etichetta una C.D.A., ovvero una Cascadian Dark Ale, denominazione che fa riferimento a quella zona della costa pacifica settentrionale americana che si estende dal Canada alla California settentrionale. Un'area dove ovviamente si coltiva molto luppolo.  Secondo alcuni sarebbe proprio questo il fattore discriminante tra l'utilizzo di Cascadian Dark Ale (luppoli della West Coast) e Black IPA (East Coast). Non staremo qui ad approfondire le varie correnti di pensiero che sostengono se il  termine più appropriato sia appunto Cascadian Dark Ale, Black IPA, o India Black Ale o, come altri sostengono, American Black Ale. Se v'interessa, vi segnaliamo piuttosto un paio di link, in inglese, dove noti birrai discutono proprio questi argomenti: Matt Van Wyk e Greg Cock. Questa Hop in the Dark CDA è brassata utilizzando malti Pale, Crystal, Chocolate, orzo nero, frumento "chocolate", avena in fiocchi ed avena tostata; i luppoli sono Northern Brewer, Nugget, Centennial, Amarillo, Cascade e Citra. Si  tratta di una produzione stagionale, disponibile solamente da Maggio a Settembre. Nel bicchiere è di un bel color ebano scurissimo; la schiuma è molto generosa, beige, fine, molto persistente. Naso splendido, molto elegante e pulito, con agrumi in evidenza (pompelmo e mandarino), aghi di pino, sentori di frutti di bosco (lampone); quando la schiuma scompare emergono in secondo piano caffè e malto tostato. Ottime aspettative che vengono solo parzialmente confermate in bocca, dove c'è un grande intensità di gusto che però manca dell'eccellente pulizia dell'aroma. L'imbocco è leggermente tostato, ed è seguito da un netto aggrumato a continuare il percorso iniziato con l'aroma; gli IBU dichiarati sono 70, ma non si tratta assolutamente di una birra impegnativa. L'amaro, con molta scorza di pompelmo, è elegante e non raschia ma la gola; bella chiusura secca, che pulisce il palato e prepara ad un lungo retrogusto, intenso, con scorza d'agrumi, un po' di resina ed un leggero tostato. Black IPA molto facile da bere, grazie ad una consistenza "watery" ed un corpo medio-leggero; l'aroma è davvero profumato ed invitante, il gusto si colloca appena un gradino sotto ma stiamo parlando comunque di una gran bella birra, molto ben fatta ed intensa. Formato: 65 cl., alc. 6.5%, IBU 70, lotto 0946 G, scad. 31/08/2012, prezzo 4.99 Euro ($ 5.98).

martedì 11 settembre 2012

Prescott Ponderosa IPA

L’Arizona non è certamente uno degli stati americani famosi per la produzione di birra. Un territorio molto bello ma ostile e desertico, soprattutto nella parte meridionale, che ha iniziato a popolarsi solamente nel secolo scorso grazie alla costruzione di dighe, acquedotti e all’invenzione dell’aria condizionata. Sono tuttavia sorti anche qui dei microbirrifici, i migliori dei quali, secondo la classifica di Ratebeer si trovano soprattutto nei dintorni di Phoenix (a Scottsdale c’è la Sonoran Brewing Company e la Papago Brewing, a Tempe c’è la Four Peaks Brewing Company); nel sud, a Tucson, la Thunder Canyon Brewery.  Spostandosi invece più a nord si trova la Prescott Brewing Company, nella città che le dà il nome; viene fondata nel 1994 da John and Roxane Nielsen; John ha sviluppato il suo amore per la birra in Germania, dove ha vissuto dal 1974 al 1977. Mastro birraio è però Jan Brown; la produzione è formata da sei birre “base”, disponibili tutto l’anno, più numerose stagionali. Tra le birre base c’è anche questa Ponderosa IPA, che prende il nome dalla varietà di Pino Giallo (Pinus ponderosa Douglas) molto diffusa nell'Arizona settentrionale, dove il deserto lascia spazio ai grandi altipiani ed ai canyons. Ammettiamo che non nutrivamo grosse aspettative su questa birra che non conoscevamo e che abbiamo acquistato giusto per provare un prodotto locale; si è invece rivelata una sorpresa molto piacevole. E' ambrata, nel bicchiere forma un dito scarso di schiuma, bianca e cremosa, dalla buona persistenza. L'aroma è molto pronunciato, ricco di pompelmo e frutta tropicale come mango, ananas e melone; la finezza è ad un buon livello, anche se potrebbe essere migliore. Anche in bocca c'è un'ottima intensità, nel gusto: l'attacco è di biscotto con leggere note di caramello, seguite da un netto richiamo all'aroma con pompelmo e frutta tropicale. L'amaro si fa attendere qualche attimo ma arriva molto intenso, resinoso, e va a caratterizzare il lungo finale, senza mai raschiare la gola. Birra ben fatta ed intensa, sostanzialmente ben bilanciata.  Ha corpo medio e bassa carbonazione: purtroppo né la lattina né il sito del birrificio dichiarano la percentuale di alcool, che non possiamo quindi mettere in confronto con la ottima beverinità che questa Ponderosa IPA ci ha mostrato. La tentazione di berla direttamente dalla lattina è stata grande, ma abbiamo resistito. Ottimo rapporto qualità prezzo, anche considerando la media americana; un six pack è un acquisto quasi obbligato.  Formato: 35.5 ml., alc. %, lotto e scadenza non riportati, prezzo 1.33 Euro ($ 1.59).

lunedì 10 settembre 2012

Dogfish Head 90 Minute IPA

Visto che di Dogfish Head abbiamo parlato in dettaglio pochi giorni fa, passiamo subito a concentrarci sulla 90 Minute IPA. Prodotta per la prima volta ad Aprile 2001, è la birra che vede il debutto del “continuous hopping” inventato da Sam Calagione, tecnica poi estesa alla sorelle "60" e "120 Minute IPA". Per tutti i 90 minuti della bollitura, la birra viene luppolata alla frequenza di una gettata al minuto. In aggiunta, viene effettuato un dry-hopping durante la maturazione con un meccanismo (una specie di Randall), elaborato da Calagione e chiamato “Me So Hoppy”. Sul sito del birrificio trovate anche le istruzioni nel caso vogliate costruirvi da soli un marchingegno simile; vi segnaliamo inoltre anche questo video auto-esplicativo. Si presenta di color ambra, carico, praticamente limpido; la schiuma è fine e cremosa, molto persistente. Aroma pulitissimo, ancora molto fresco (la bottiglia ha circa tre mesi di “vita”), ricco di aghi di pino, pompelmo e arancio, qualche sentore floreale e caramello. Il meglio però deve ancora venire; l’arrivo in bocca è davvero eccezionale, birra molto morbida, quasi cremosa, dal corpo pieno e dalla carbonazione media. Anche il gusto è estremamente pulito, con una facilità di bevuta impressionante; increduli, leggiamo che l’etichetta recita ABV 9%; si apre con una base di biscotto cui fanno seguito note dolci di frutta sotto spirito (pompelmo ed albicocca). Ad equilibrare, in modo esemplare, un amaro vegetale e resinoso, leggermente pepato, davvero molto gradevole. Nonostante all’apparenza sembri una IPA massiccia (90 IBU e, come detto, 9% di vol,. alcolico), il grande pregio di questa birra è l’assoluta facilità di bevuta e, soprattutto, il grande equilibrio tra gli elementi. Nessun estremismo, nessun amaro che azzera le papille gustative; l’alcool si avverte solamente quando la birra s’avvicina alla temperatura ambiente, riscaldando il palato in modo elegante e morbido, ed aggiungendo qualche nota che ricorda il whisky al lungo retrogusto amaro pieno di resina. Grande birra, solida, pulitissima e ben costruita, almeno qualche spanna sopra la sua sorella “minore” 60 Minute IPA. Calagione la consiglia in abbinamento con braciole di maiale, manzo, pesce alla griglia, focaccia, zuppa di piselli, formaggio Stilton. Formato: 35.5 ml., alc. 9%, 90 IBU, imbottigliata il 23/05/2012, scad, non indicata, prezzo 2.91 Euro ( $ 3.49)

Stillwater Existent

Lo ammettiamo, per questa volta siamo stati vittima del fascino dell'etichetta. Ma ad una birra che si chiama "Existent" e con un  Friedrich Nietzsche "seppiato all'infrarosso" proprio non siamo riusciti a resistere. Il produttore è Stillwater Artisanal Ale, ovvero Brian Strumke, l'ennesimo birraio zingaro che, senza impianti, dice di passare la vita perennemente in viaggio a produrre birre in giro per il mondo. Ex musicista e produttore di musica elettronica, nel 2004 cambia lavoro ed entra nell'ambito dell'Information Technology. Ben presto la noia s'affaccia, e Brian decide di mettere il suo estro creativo al servizio della birra. In poco tempo il "portfolio" di Stillwater s'arricchisce di numerose produzioni, che purtroppo hanno esattamente quelle caratteristiche che tutti i detrattori dei "birrai zingari" additano un po' come il "male assoluto": birre occasionali, quasi mai ripetute, piccoli lotti e quindi l'impossibilità di valutare l'effettiva capacità (leggasi "costanza") del birraio stesso. Il culmine lo raggiunge la sua birra chiamata Requisite, produzione da un paio di fusti che hanno potuto bere solamente gli avventori di una serata allo Baltimore Beer Week. Tornando a questa birra, le note in etichetta sono a tema con il nome (Existent): "questa birra rappresenta la nostra filosofia. Cerchiamo con tutte le nostre forze di definirci attraverso la passione e la sincerità, accettando il fatto che non tutti gli aspetti della vita siano spiegabili immediatamente. Per manifestare questa nostra ideologia presentiamo una birra intrigante. Questa è una birra che voi stessi dovete definire. '..e se tenete lo sguardo fisso nell'abisso per molto tempo, l'abisso finirà per guardare voi. (Nietzche)".  Questa Existent viene prodotta presso gli impianti della Dog Brewing Company, nel Maryland. Brian ama definire tutte le sue birre delle "farmhouse ales”, ovvero saison. Definizione che può essere più o meno azzeccata, resta il fatto che questa Existent non è effettivamente una birra facile da catalogare. All’aspetto sembrerebbe un stout, praticamente nera, con un enorme cappello di schiuma pannosa, beige, molto persistente.  Il naso regala sentori di pompelmo, soprattutto dalla schiuma, che si accompagnano ad note affumicate e di cenere, di tostatura e terrose. E’ molto elegante, anche se le diverse componenti del mix tendono a starsene per conto loro, piuttosto che amalgamarsi in un insieme armonico. In bocca c’è una buona corrispondenza con l’aroma, anche se il gusto non è molto pulito ed i primi sorsi ci lasciano perplessi; le cose migliorano un po’ lasciando riposare la birra nel bicchiere per un po’ di tempo. C’è un imbocco fruttato di pompelmo, seguono malto tostato, caffè e leggero cacao per un bel finale amaro che vira verso il terroso ed ha un tocco “rustico”; nel retrogusto spunta una gradevole nota affumicata.  Una birra non facile, abbastanza complessa che si dibatte un po’ tra il ben riuscito e il confusionario. Interessante bevuta, ma alla domanda fondamentale che ogni birrofilo dovrebbe sempre porsi (“la ricomprerei ?”) la risposta sarebbe probabilmente “no”.  Formato 75 cl., alc. 7.4%, lotto e scadenza sconosciuti, prezzo 9.16 Euro ($ 10.99).

domenica 9 settembre 2012

Bear Republic Racer 5

Bear Republic è un brewpub aperto nel 1995 da Richard G. Norgrove; siamo a Cloverdale, nella California Settentrionale, circa 140 km a nord di San Francisco; la Sonoma County è oggi molto rinomata per la produzione di vino, ma un tempo la coltivazione più diffusa era quella del luppolo. L'ex-homebrewer Richard G. ha messo in piedi il birrificio con l'aiuto della moglie Tami, del padre Richard R. e della madre Sandy. Il sito ufficiale del birrificio, forse il più amatoriale e meno attraente tra tutti quelli americani, enfatizza proprio la componente famigliare del business: "se ci venite a trovare, vedrete Richard fare la birra, sua madre vi darà il benvenuto alla porta, suo padre ve la spillerà al bancone; sua moglie si occupa invece dell'amministrazione". Sei sono le birre prodotte tutto l'anno, alle quali vanno aggiunte cinque produzioni stagionali e uno numero abbastanza elevato di produzioni occasionali o speciali. Nel 2005, proprio in occasione del decimo compleanno, Bear Republic si aggiudica il titolo di "Small Brewing Company of the Year" al Great American Beer Festival. La Racer 5, brassata per la prima volta nel 1996, è diventata il prodotto di maggior successo del birrificio; Richard, appassionato di motori e pilota a tempo perso, sceglie il nome da una vecchia serie (1967) di cartoni animati ispirati ad un manga Giapponese, chiamata Speed Racer. In Italia fu trasmessa, con un po' di ritardo, nei primi anni '80 con il nome di Superauto Mach 5; i lettori un po' più "grandi", come chi scrive, avranno forse una lacrima di nostalgia nel ricordare questa sigla composta da I Cavalieri del Re, gruppo che in quegli anni incideva le sigle di praticamente tutti i cartoni animati che arrivavano in Italia. Ma torniamo a parlare di birra, di una gran bella birra. Viene realizzata utilizzando i classici luppoli che in America chiamano "the four C-hops": Chinook, Cascade, Columbus e Centennial, con un ceppo di lievito sviluppato dal birrificio Sierra Nevada.  E' dorata, quasi color arancio velato, e forma "due dita" di schiuma bianca, fine e cremosa, molto persistente. Il naso è ottimo, molto fresco e pulito, quello che vorremmo sempre in una India Pale Ale: pungenti sentori di aghi di pino ed agrumi, arancio e mandarino, ma soprattutto tanto pompelmo. Difficile indugiare davanti a tali profumi ed in bocca questa Racer 5 non delude le aspettative, anzi, forse le supera.  Pulitissimo ingresso di malto/biscotto, poi tanti agrumi (pompelmo) a richiamare l'aroma; il gusto è pungente, a tratti quasi pepato, e sfocia in un finale amaro, ricco di pompelmo con qualche nota resinosa. Il retrogusto, molto lungo ed intenso, inverte invece le parti: molta resina, qualche nota di pompelmo. Molto secca, IPA con un livello di pulizia davvero encomiabile, che permette di assaporarne in pieno tutte le sfaccettature. Correttamente carbonata, ha un corpo medio e scorre in bocca in modo superbo. L'alcool è ben nascosto; siamo ad un livello davvero molto alto, che ci costringe un po' a ricalibrare il nostro metro di apprezzamento di alcune produzioni nostrane all'interno di questa categoria stilistica. Formato: 65 cl., alc. 7%, 75+ IBU, lotto e scadenza sconosciuti, prezzo 3.24 Euro ($ 3.89).

venerdì 7 settembre 2012

Uinta Dubhe Imperial Black IPA

Lo Utah è uno dei 18 stati Americani nei quali la vendita degli alcolici è controllata da una sorta di monopolio statale, curiosamente chiamato ABC  ("Alcoholic Beverage Control"); in alcuni di questi stati il governo concede ai privati la possibilità di vendere alcolici per conto dello stato,  ricevendone una commissione, mentre in altri (Alabama, Idaho, New Hampshire, Oregon, North Carolina, Pennsylvania, Virginia e Utah) gli unici negozi che possono vendere alcolici, come in alcuni nazioni del Nord Europa, sono quelli statali. Lo Utah è uno stato abbastanza vasto (circa 220.00 km quadrati, ovvero 10 volte la nostra Lombardia, per darvi un'idea) e non molto popolato, sopratutto nella più arida regione sud-occidentale, dove si trova anche la riserva degli indiani Navajo, che non fanno uso di alcool. In aggiunta, lo Utah è una stato dove la religione dominante è quella dei Mormoni, che praticano (anche) l'astensione dagli alcolici. Non è però questa la motivazione principale dell'esistenza del monopolio di stato, quanto il "manteninmento di un consumo responsabile di alcolici, eliminando qualsiasi forma di incentivo economico (sconti, offerte speciali) che possa spingere i cittadini ad un consumo smodato di alcolici". I negozi "di stato" saranno anche diffusi nelle zone metropolitane, ma noi che abbiamo girovagato per la parte meridionale, fatta di paesi molto piccoli, non ne abbiamo visto nemmeno uno. Questo preambolo serve ad avvertire chiunque abbia in programma un viaggio nella zona meridionale dello Utah, stupenda dal punto di vista paesaggistico (Monument Valley, Bryce Canyon, Zion Canyon, Canyonlands) ma molto arida dal punto di vista brassicolo. Visto che le vostre uniche possibilità di bere saranno i ristoranti, il consiglio è di fare scorta di qualche bottiglia prima di varcare i confini dello Stato. Non mancano tuttavia i birrifici "artigianali"; la Uinta Brewing Company fu fondata nel 1993 a Salt Lake City, nella zona meridionale dello stato, da Will Hamill e Del Vance. Curioso il modo in cui s'incontrarono. Hamill voleva chiamare il proprio birrificio Great Basin Brewing Company, ma scoprì che Vance aveva da poco aperto un birrificio con lo stesso nome. Decisero allora di diventare soci, ma dopo poco tempo furono costretti a cambiare nome in quanto scoprirono che esisteva già nel Nevada un birrificio così chiamato. Scelgono allora "Uinta", e la loro partnership continua sino al 2000, quando Hamill compra anche la quota societaria di Vance, quest'ultimo più interessato a far crescere il brewpub/ristorante che la capacità produttiva e la vendita di birra. Abbastanza ampia l'offerta brassicola, che di recente si è arricchita anche di birre maturate in botti di legno e dal contenuto alcolico (superiore al 9%) abbastanza inusuale per lo Utah. Abbiamo provato in loco, alla spina, la flagship beer del birrificio, la discreta Cuttroath Pale Ale. Dopo una birra "tranquillia", la nostra seconda Uinta è stata una Imperial Black IPA molto più impegnativa, da 109 IBUs e 9.2% di volume alcolico, brassata con l'aggiunta di semi di canapa. Il nome (Dubhe) è quello che lo Utah attribuisce localmente alla stella Alfa della costellazione dell'Orsa Maggiore.  Si presenta di uno scurissimo color marrone, quasi nero, con una schiuma beige molto persistente e cremosa. Al naso, pulito ma non entusiasmante,  troviamo agrumi (pompelmo, arancio) e man mano che la birra si scalda emergono sentori di caramello e di pane di segale. In bocca la base di malto è molto solida, l'alcool si sente abbastanza (accenni di whisky) ma la birra mantiene sempre una discreta facilità di bevuta; in una seconda fase emergono note di agrumi, seguite da un amaro molto intenso, vegetale e resinoso. Buon livello di pulizia ma poco "black", se escludiamo il colore, nessun sentore di tostatura o di caffè; nel complesso una birra gradevole, anche se non ci ha entusiasmato. Formato: 35,5 cl., alc. 9.2%, 109 IBU,  lotto 15/05/2012, scad. non segnalata, prezzo 2.08 Euro  ($ 2.49).

giovedì 6 settembre 2012

Dogfish Head 60 Minute IPA

Dogfish Head, un nome abbastanza noto in Italia, soprattutto per le diverse collaborazioni avvenute negli anni tra Sam Calagione (deus-ex-machina del birrificio americano fondato nel 1995, nel Delaware) e Leonardo di Vincenzo/Birra del Borgo. Citiamo soprattutto l’ottima My Antonia, ma anche la compartecipazione al progetto Eataly New York con brewpub annesso. Calagione rimane tutt’oggi uno dei personaggi più carismatici della scena USA, avendo anche realizzato la serie televisiva Brew Masters per Discovery Channel e scritto diversi libri; nei primi anni 90 mentre lavorava in un bar di Manhattan avviene il suo incontro con le birre   "di qualità" (Sierra Nevada, Chimay). Scatta in lui la passione e la voglia di dedicarsi dapprima all'homebrewing, fino a decidere di lasciare gli studi alla Columbia University per lavorare come apprendista alla Shipyard Brewery (Portland, Maine). Dopo un anno e mezzo, Sam si sposta assieme a sua moglie Mariah nel Delaware, nel paese dove lei è nata; recupera con mezzi di fortuna un piccolo impianto usato ed inizia a produrre in casa piccoli lotti di birra che egli stesso s'incarica poi di distribuire nei  bar e nei ristoranti della zona. Lentamente le birre iniziano ad essere apprezzate e richieste, ed è tempo di allargarsi. Sam acquista i locali di una vecchia fabbrica di yogurth e li converte in birrificio, con ristorante annesso. E' il 1997 ma - racconta Calagione - il vero punto di svolta avviene nel 2011; sino ad allora erano gli incassi del ristorante a tenere in vita il birrificio. Mentre molti birrifici artigianali sono costretti a chiudere, Sam corre il rischio, decide d'investire ancora e riesce ad aggiudicarsi per 200.000 dollari gli impianti  (valore 1 milione di dollari) della fallita Ortlieb's Brewery di Philadelphia. La nuova linea produttiva garantisce la costanza e la qualità che Sam cercava, e da allora la Dogfish Head cresce incessantemente del 40/50 % l'anno. Se vi state facendo delle domande sull'origine del nome, sappiate che Dogfish Head è una piccola sporgenza di terra che affiora nell'oceano sulla costa del Maine, dove Calagione è nato; il suo significato si deve al fatto che le trappole messe in quel punto dai pescatori di aragoste solitamente finiscono per catturare più pescecani che crostacei.
Nasce nel febbraio del 2003 la 60 Minute IPA, sorella minore della 90 Minute; l'etichetta che recita "continuously hopped" si riferisce al fatto che, nel corso della bollitura (60 minuti) vengono fatte 60 aggiunte di luppolo, quindi una al minuto. In questo video potete vedere una veloce presentazione della birra fatta dal mediatico Calagione. Birra tutta "giocata" sul numero sei, con anche 60 unità d'amaro ed il 6% di volume alcolico.  Nel bicchiere è di color oro, molto intenso, praticamente limpido; la schiuma bianca, fine e cremosa, non è molto generosa ma ha una buona persistenza.  La bottiglia da noi degustata non era esattamente freschissima (maggio 2012) ma neppure particolarmente datata. L'aroma non è molto pronunciato; sentori floreali, note quasi terrose di luppolo ed una componente aggrumata che richiama più il limone che il pompelmo. Molto beverina e scorrevole in bocca, decisamente "watery" senza mai essere sfuggente, con una carbonazione media ed un corpo medio. La base di malto (pane) è molto leggera, ed il gusto vira subito verso un bel profilo luppolato leggermente "pepato" con sentori terrosi, erbacei e, in secondo piano, di agrumi (limone). Il finale, che prosegue nella stessa direzione erbacea/terrosa, è abbastanza intenso ma corto. Molto secca, pulita e morbida in bocca, è una IPA molto bilanciata e beverina; proviene dalla East Coast americana, quindi dalla parte opposta dove noi l'abbiamo bevuta, una West Coast dove prevalgono birre molto più amare, intense, piene di frutti tropicali e per certi versi "estreme". Per il contesto in cui l'abbiamo bevuta ci ha forse lasciato un po' delusi, ma si tratta senz'altro di un'ottima birra, estremamente facile da bere.  Calagione la consiglia in abbinamento a cibo piccante, pesto, salmone grigliato, pizza, cheddar stagionato. Formato: 35,5 cl., alc. 6%, 60 IBU, lotto 24/05/2012, prezzo 1,66 Euro ($ 1,99).